Il monumentale musicista Leon Russell ha salutato questa Terra mentre dormiva, domenica scorsa, all’età di 74 anni. Ci ha lasciato con la stessa delicatezza con cui è sempre stato al nostro fianco, nonostante il suo contributo sia stato fondamentale per la musica statunitense e oltre. Probabilmente conoscerete i suoi collaboratori—Willie Nelson e Bob Dylan, tra i tanti—pochi musicisti hanno avuto una consapevolezza così profonda delle sfaccettature che il proprio lavoro culturale e propria arte potevano donare al mondo. Ha saputo mescolare il southern rock, il blues, il soul, il gospel e farne un cocktail da servire on the rocks al suo pubblico affezionato, che includeva persone di ogni genere, provenienza e colore—non era una cosa da nulla, ai tempi, essere il leader di una delle primissime band del Sud degli Stati Uniti a includere musicisti neri. Russell non era soltanto un musicista incredibile, impersonava l’eclettismo, l’apertura mentale e la determinazione che ogni artista dovrebbe possedere.
Ho incontrato Russell una volta, la scorsa estate, negli uffici della Criterion Collection. Ero lì per intervistarlo riguardo al documentario del 1975 che Les Blank aveva girato su di lui, A Poem Is a Naked Person. Russell fu accompagnato nella stanza mentre stava già in sedia a rotelle, con il suo tipico cappellone, gli occhiali e quella barbona da Babbo Natale che gli conferiva un non so che di autorità spirituale. Siccome non sono uno che parla a volumi altissimi, solitamente, e il suo udito stava pian piano cedendo, mi dovevo sforzare di parlargli forte e chiaro. Lui faceva lunghe pause, tra la domanda e la risposta, in cui mi guardava. Poi mi rispondeva lungamente, oppure liquidava la domanda con poche parole, ma dopo aver parlato mi chiedeva ogni volta “Ho risposto alla tua domanda?” Per tutto il tempo avevo paura di indispettirlo, invece a fine intervista Russell mi diede una stretta di mano indimenticabile e mi disse “Bel lavoro, figliolo.” E poi uscì dalla stanza, sulle sue ruote.
Nato Claude Russell Bridges a Lawton, Oklahoma, nel 1942, Russell è sempre stato un performer, talmente appassionato che si era fatto fare i documenti falsi per poter suonare nei nightclub di Tulsa già da minorenne. Nel 1958, all’età di quindici anni, decise di trasferirsi a Los Angeles. Passò i suoi anni adolescenziali nelle band di musicisti giganteschi, da Frank Sinatra a Phil Spector, raffinando nel frattempo anche le sue abilità da songwriter. Le sue conoscenze all’interno dell’industria musicale gli permisero di avvicinarsi alla controcultura di quegli anni e di abbracciarne il potenziale musicale. Nel 1967, con il compare Marc Venno, formò il breve ma intenso duo psichedelico The Asylum Choir. Dopo che il loro primo album ricevette una tiepida accoglienza dalla critica, Russell si unì a una proto-versione del Kronos Quartet chiamata Midnight Strings.
Lo stesso, fino al suo ritorno in Oklahoma, quando registrò e pubblicò il suo debut, non sembrava aver trovato la sua voce di songwriter a metà strada fra il rock e il blues. A Los Angeles era il ragazzetto dell’Oklahoma, mentre a casa sua era l’hippy di Los Angeles. Il disco omonimo Leon Russell riuscì a riassumere tutti i suoi lati: è pieno di connessioni con la musica della sua giovinezza, che però vive anche delle influenze Losangeline e delle nervature psych-rock di quell’epoca. Russell, diventato un pianista formidabile già in giovane età, non smise mai di cercare nuovi suoni, e sarebbe stata la sua passione per il gospel a mettere la ciliegina sulla torta su un quadro di influenze già densissimo.
Dopodiché, ci fu una infornata di album da paura, tra cui Leon Russell and the Shelter People (1971) e Carney (1972) che portarono Russell alle vette del rock. Carney arrivò al secondo posto in classifica negli Stati Uniti. Come suggerisce la copertina, Russell in quest’album gioca col concetto di carnevale, come un esploratore arlecchino che cerca di tenere insieme ogni colore. Nel primo singolo, “Tight Rope,” Leon confessa: “I’m up on a tight rope / one side is hate and one is hope / but the top hat on my head is all you see.”
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A quei tempi, Russell iniziò a partecipare a un film che sarebbe servito al suo pubblico a conoscerlo più da vicino. Prese al suo fianco il filmmaker emergente Les Blank che lo seguì durante i concerti, nello studio, a casa. Dopo due anni di girato, Blank consegnò a Russell A Poem Is a Naked Person—un’istantanea della personalità eclettica del nostro, dei suoi concerti potentissimi, del suo circondario e della comunità rurale da cui proveniva, in Oklahoma. Ora quello è riconosciuto universalmente come uno dei rockumentari più fighi di tutti i tempi.
Russell però lo odiava. Pensava che Blank avesse oltrepassato i limiti del documentaristico per mettere il proprio ego al centro della questione. Dopo qualche battaglia giudiziaria, si trovò un accordo per cui Blank poteva proiettare il film soltanto quando Russell fosse presente nel pubblico. Di conseguenza, il film fu proiettato molto poco, e i due non si parlarono più.
Nel frattempo, negli anni Ottanta, l’interesse delle major nei suoi confronti si era affievolito, e l’output prolifico di Russell, da fiume in piena si trasformò in un ruscelletto: dopo aver pubblicato praticamente un album all’anno per tutti gli anni Settanta, nel decennio successivo Russell ne produsse soltanto tre, tra cui una collaborazione con il cantante country Hank Wilson e un nuovo album omonimo, stavolta in cassetta. Il revival country degli anni Novanta aiutò Russell a tornare sulla cresta dell’onda, tanto che tornò a scrivere, suonare e produrre a manetta per tutti gli anni Duemila. La sua risalita culminò nel 2010 con l’album The Union (2010), una collaborazione con Elton John, che lo riteneva un mentore, oltre che un amico.
The Union fu la sovrapposizione dell’attitudine di Russell allo stile di John, un connubio in grado di creare alcune delle ballad per piano migliori di sempre. Fu il primo album di Russell a raggiungere le vette delle classifiche, dopo il 1975, e ravvivò l’interesse del pubblico nel suo lavoro. Tra i suoi ammiratori possiamo contare Herrold Blank, che contattò Russell nel 2013 per congratularsi con lui e avvisarlo che il padre, Les Blank, era molto malato. Il desiderio di Les, su punto di morte, era di poter finalmente pubblicare A poem Is A Naked Person. Paradossalmente, il tempismo fu perfetto, anche perché il ritorno sotto i riflettori aveva dato modo a Russell di guardare indietro alla propria carriera e rivalutare anche quel documentario che tanto aveva odiato. E così gli rispose, e disse che avrebbe acconsentito all’uscita ufficiale del film: era riuscito finalmente ad accettare quel ritratto che sottolineava il suo eroismo folk, il suo stile di vita puramente rurale e, giustamente, un uomo che faceva le cose come gli andavano, preferendo scivolare nell’oblio piuttosto che cercare a tutti i costi di farsi strada nello starsystem.
L’esempio più puro e grezzo del piglio sonoro di Russell si può trovare nei suoi live, in particolare in quello del 1972. La sua setlist era un insieme di stili che soltanto un buon domatore può riuscire a imbrigliare, impedendo loro di pestarsi i piedi a vicenda. Lo si vede abbaiare dal suo trono, il suo piano, per poi saltare su e andare in giro per il palco come un matto per dirigere ogni singolo strumento da una nebbia psichedelica fino alle rigidità canoniche dei ritmi blues rock, per poi eruttare in gloriose aperture gospel. Il suono di Russell, così come la sua vita, fu l’esempio di come si possono tirare giù le barriere e aprire la strada per infinite esplorazioni musicali future, che si lascino alle spalle ogni muro e pregiudizio.
Foto via GAB Archive/Redferns