Cibo

Cosa puoi trovare dentro una gallina se sei molto fortunato

uova embrionali cosa sono

“Quando si macellava la gallina, si recuperava tutto quello che c’era dentro, compresi i tuorli ovarici, che venivano usati in cucina dentro al brodo, alle salse, alle frittate”

Un giorno d’Aprile ho ordinato una gallina da una cascina alle porte di Milano. L’avevo ordinata a pezzi, ma per un errore è arrivata intera, con la sagoma intatta e qualche avanzo di piuma. Purtroppo, malgrado i miei crescenti sforzi, continuo a essere una ragazza di città, e non ho esperienza nel trasformare una gallina intera in qualcosa di commestibile. L’ho adagiata sul piano cucina e l’ho fissata per un lungo momento. Ho guardato dentro: le interiora erano state tolte quasi tutte, eccetto i fegatini e un’altra cosa a cui lì per lì non ho saputo dare un nome.

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Erano delle palline gialle e arancioni, attaccate a grappolo. Pur nella mia ignoranza in materia di ventre di galline, basta fare due più due per capire che quelle sono uova, e nello specifico uova in formazione, che la gallina non ha fatto in tempo a deporre prima di essere macellata. Le più grandi hanno la forma di un tuorlo, di un arancione acceso, le più piccole sono gialle e grandi come un ribes. Sono tutte attaccate all’ovaio e a guardarle si ha uno spaccato delle diverse fasi di maturazione dell’uovo.

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Tuorli Ovarici. Foto dell’autrice

Breve lezione di anatomia della gallina. Da quel grappolo all’uovo come lo conosciamo deve succedere più o meno questo: il tuorlo a un certo punto si stacca dal grappolo delle ovaie e inizia un percorso nell’ovidotto che dura circa 24 ore. Nel primo tratto dell’ovidotto (l’infundibolo) avviene l’eventuale fecondazione, sempre che ci sia un gallo a portata di mano. Fecondato o meno, il tuorlo continua il percorso, lungo il quale si svilupperà l’albume e poi il guscio, fino a essere deposto nella forma nota a tutti.

“La nonna di un’amica in fiorentino stretto mi dice l’equivalente di ‘Certo, quando ammazzi la gallina ce le trovi, noi si bucavano con una forchetta e si cucinavano in un padellino’”

Dopo aver fissato il culo della gallina per un tempo interminabile, scatto una foto e la faccio circolare tra alcuni amici, che reagiscono attingendo alle sfumature possibili nella gamma che va dall’orrore alla sorpresa. In questo rapido consesso, solo due persone sembrano riconoscere ciò che vedono e saprebbero cosa farsene. Una è la nonna di un’amica, di nome Ida, che in fiorentino stretto mi dice l’equivalente di “certo, quando ammazzi la gallina ce le trovi, noi si bucavano con una forchetta e si cucinavano in un padellino”. La seconda persona è un amico cuoco che mi risponde: “ah fico, se vuoi sentirti Massimo Bottura, mettile dentro alla pasta per le tagliatelle”.

Ebbene, questa linea invisibile che unisce l’Ida a Bottura è già eloquente di per sé e ci parla di una trama più generale: quella di una cultura gastronomica quotidiana e diffusa, che è stata in larga parte dimenticata sotto all’affermarsi delle logiche dell’industria alimentare. Per essere recuperata, qualche decennio più tardi, da alcuni cuochi di alta cucina, che l’hanno trasfigurata come qualcosa di stra-ordinario.

Il primo problema di questa mia ricerca è che, a differenza di altre rigaglie di pollo, questi “tuorli ovarici” non hanno un nome condiviso (un fatto che deve aver contribuito alla nostra generale ignoranza in merito): ovetti, ovaie, ovarine, uova non nate, uova non deposte, sono solo alcuni dei nomi con cui li troverete citati. Tuorli ovarici invece l’ho proprio inventato.

Comunque decidiamo di chiamarli, per la generazione dei nostri nonni erano un cibo comune e noto a chiunque avesse un legame con la campagna: quando si macellava la gallina, si recuperava tutto quello che c’era dentro, compresi i tuorli ovarici, che venivano usati in cucina dentro al brodo, alle salse, alle frittate. Me lo conferma per esperienza personale anche Giuseppe Zen, cuoco-macellaio di Mangiari di Strada al Mercato, che mi racconta della sua nonna emiliana, che ammazzava la gallina con un pugno sulla testa e quando ci trovava dentro le “ovarine” (le chiamava così) le aggiungeva alla sfoglia della pasta o le cuoceva nel brodo.

Ma non era solo saggezza contadina: già ne “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” (1891) l’Artusi cita varie volte le uova non nate: nel pasticcio di maccheroni, nell’umido di rigaglie di pollo col sedano, nelle pallottole di patate ripiene. Un altro esempio è il Cibreo, un antico piatto fiorentino, spesso evocato come il preferito di Caterina de’ Medici, che prevede un intingolo con tutte le rigaglie di pollo (creste, bargigli, fegatini, testicoli/fagioli) e richiede anche dei tuorli, che secondo disponibilità possono essere proprio i tuorli ovarici, come nella ricostruzione della ricetta tradizionale fatta da Giuliano Bugialli in “The Fine Art of Italian Cooking” (1977) – qui è riportata la pagina dedicata al Cibreo.

Il ritmo della filiera che corre dagli allevamenti intensivi alla carne in vaschetta sugli scaffali dei supermercati, ha rimosso le frattaglie

Questo misto di prassi contadina e intelligenza gastronomica è stato reso marginale dalla progressiva industrializzazione del cibo che, a partire dagli anni Settanta, ha riscritto il paradigma produttivo e anche estetico della nostra alimentazione. Quella che allora sembrava una rivincita splendente rispetto alla fame del Dopoguerra, ha impostato i consumi su velocità e quantità, e ha definito un gusto moderno, che premiava la raffinazione sull’integralità. Tra le altre cose, il ritmo della filiera che corre dagli allevamenti intensivi alla carne in vaschetta sugli scaffali dei supermercati, ha rimosso le frattaglie. Oggi i polli vengono macellati da giovani (già dopo un paio di mesi) per avere carni più tenere, quindi prima che le femmine inizino a produrre uova (per cui bisogna aspettare circa 9 mesi). Le galline vengono lasciate vivere più a lungo come ovaiole, ma quando diventano meno produttive, a parte rari casi, vengono macellate senza curarsi delle interiora.

“Il tuorlo ovarico viene iniettato in un uovo normale, a sua volta cotto sotto vuoto per tenere il tuorlo liquido. Un giorno qualcuno psicanalizzerà questa fissazione dell’alta cucina per l’iniettare”

Così la gallina è rimasta buona solo per fare il brodo, o per chi ha tempo per interminabili ore di cottura. Nel nostro immaginario è stata sconfitta dal pollo già pulito e pronto da cuocere, spesso senza forma e senza organi (tranne forse i fegatini, e sarebbe interessante ricostruire come si sono salvati dall’oblio) ma in ogni caso: senza tuorli ovarici.

È difficile dire a che punto inizino a chiamarsi “uova embrionali”, un termine che oggi si è depositato nella lingua della ristorazione italiana. Di certo c’è che quel nome all’Ida non dice nulla e che la sua notorietà è ampiamente legata a due piatti iconici di Massimo Bottura: l’uovo in lasagna, dove il tuorlo “embrionale” viene farcito con brodo di ragù; e le tagliatelle al ragù, dove questi tuorli sono aggiunti alla sfoglia della pasta, per migliorarne la consistenza e la resistenza alla cottura. Un altro cuoco emiliano a citare la parola “embrionale” è Franco Cimini (Antica Osteria del Mirasole), nella sua ricetta tradizionale delle tagliatelle al ragù di cortile, dove si mantiene però anche il termine “ovarine”.

Il problema della parola “embrionale” è che si presta a fraintendimenti. È vero che dà l’idea di un uovo alle prime fasi di sviluppo, ma crea un malinteso rispetto alla presenza dell’embrione, che nelle uova “embrionali” non c’è, perché sono come si diceva uova non fecondate. L’interpretazione di uovo embrionale come uovo in cui è cominciato lo sviluppo del pulcino l’ho trovata ad esempio sul blog di Dario Bressanini (in fondo al post, tra i commenti).

A prescindere dalla confusione sul nome, si tratta di un ingrediente per cui non c’è mercato

Un altro chef a occuparsene è stato Dan Barber, che, come racconta questo articolo del New York Times del 2007, ha un’epifania culinaria in Italia, di fronte a un non meglio specificato piatto di pasta, che aveva come ingrediente segreto proprio i tuorli ovarici. Barber pensa alle 1300 ovaiole della sua Blue Hill Farm, pensa che per anni le ha macellate e vendute al mercato senza tenersi le ovaie. E gli gira la testa per l’imbarazzo. Tornato a casa ordina allo staff di “coglierle” prima di vendere la gallina, e cogliere (harvest in inglese) rende bene l’idea del gesto che bisogna fare per staccarle dal loro grappolo.

Tra i piatti che creerà, uno dei più citati è il “two-yolks treat” dove il tuorlo ovarico viene iniettato in un uovo normale, a sua volta cotto sotto vuoto per tenere il tuorlo liquido (un giorno qualcuno psicanalizzerà questa fissazione dell’alta cucina per iniettare e trasferire). Inoltre, Barber si rende conto che la parola embryonic crea delle resistenze nei suoi clienti e passa a chiamarle immature eggs. Oltre a immature, in inglese vengono chiamate anche unlaid (non deposte) o unborn (non nate).

A prescindere dalla confusione sul nome, e a parte questi casi più o meno elitari, si tratta di un ingrediente per cui non c’è mercato. La migliore opzione per ottenerlo è farsi amico un bravo allevatore di galline ovaiole, uno di quelli che allevano con crismi di etica e sostenibilità ambientale (ecco un altro fatto del mondo che necessita al più presto di un nome, e no, “benessere animale” non è un’opzione). Io ho parlato con uno che si fa chiamare Il Rapace di Beano e lui mi ha confermato che per chi produce uova, macellare la gallina produttiva è raro, ma ogni tanto capita, e di solito – visto anche che nessuno gliela chiede – viene usata per consumo familiare, compresi i tuorli ovarici, che nessun bravo allevatore butterebbe mai via.

Infine, ci sono i cuochi di quelle che ci troviamo spesso a chiamare “nuove trattorie”, quelle che hanno ricominciato a cucinare animali interi (o in alcuni casi non hanno mai smesso di farlo, come nel già citato caso dell’Osteria del Mirasole). Posti che hanno fatto tornare di moda le frattaglie, trattandole senza astrazioni e virtuosismi, ma nella loro sostanza di frattaglie.

“Mi spiega che in cucina le ovaire (questo il nome in francese) funzionano come un super tuorlo, ottimo da aggiungere alle salse, alla pasta o alla fricassea”

Quando parlo con Diego Rossi di Trippa mi dice che ha ricevuto qualche giorno prima delle galline dal Monte Baldo, intere e comprese di “uova embrionali” – anche lui le chiama così. I suoi nonni, in Veneto, li chiamavano “i oveti” e tutte le volte che li recuperavano dalle galline li mettevano nel brodo. Nel suo libro “Finché c’è Trippa” compaiono in una ricetta dei maltagliati agli asparagi, bollite qualche minuto in acqua e infine adagiate sopra al piatto di pasta. Rispetto ai tuorli normali, mi dice, hanno un gusto più deciso di pollame, e una consistenza diversa: una volta cotti restano più gommosi, mentre gli altri diventano più sabbiosi.

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Il libro di Diego Rossi “Finché c’è Trippa…” (di Guido Tommasi Editor) e la pagina dedicata alle uova embrionali. Foto di Roberta Abate (foto nel libro di Marco Varoli).

Un altro esponente di questa rinascita della “cucina integrale” è Dimitri Gris (Chez Marius, Parigi). Anche lui mi mostra le foto dell’ultima consegna di galline dall’Auvergne, galline intere, da cui ha tirato fuori fegato, cuore e anche i nostri tuorli ovarici. Mi spiega che in cucina le ovaire (questo il nome in francese) funzionano come un “super tuorlo”, ottimo da aggiungere alle salse, alla pasta o alla fricassea. Più complicato gestirle crude, come un caviale di gallina o in una maionese, perché stanno a contatto coi ceppi batterici di intestino e stomaco e per usarle ci vorrebbero degli accorgimenti particolari. In ogni caso, mi dice, è un ingrediente su cui non puoi basare un piatto in un ristorante, perché non potrai mai averne in quantità sufficienti e stabili; va inserito quando c’è, negli interstizi dei piatti, per legare, addensare. Del resto, anche i tuorli della mia gallina, sono finiti in una frittata insieme ad altre uova “normali”.

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Foto di interiora per gentile concessione di Dimitri Gris

Con tutti e due i cuochi, sono io a insistere per parlare di cucina, perché loro vorrebbero parlare del già citato scivolone epocale che ci ha portato a essere tutti schiavi del petto di pollo (Gris), e a fare al macellaio la classica domanda “me lo pulisce?” (Rossi) che già da sola è una rinuncia alla cultura, o peggio: alla curiosità.

Per concludere, se un giorno vi metterete sulle tracce delle ovarine, capirete che questa è solo una versione della storia, quella di un punto di vista italiano, o diciamo occidentale. E leggerete anche di sofisticati piatti giapponesi, di alcune celebri ricette ebraiche-rumene, e di mercati del Sud America dove sono comunemente vendute insieme all’animale. Io, dalla mia gallina milanese, ho tratto una precisa semplice morale. Che quella è stata l’ultima volta che ho chiesto una gallina a pezzi. Perché dentro al suo ventre si accede a un mondo culturale e gustativo, che l’industria del cibo si è scrollata di dosso come una cosa inutile, e che noi abbiamo il dovere di rimettere sul piatto.

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