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Ecco perché proprio in questa fase dovremmo stare attenti e rallentare il coronavirus

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A detta di autorità sanitarie, epidemiologi, virologi e medici in prima linea, i prossimi giorni dovrebbero essere quelli decisivi per sapere se le misure di contenimento dei focolai di coronavirus adottate finora in Italia stanno funzionando o meno.

Se rallentare il contagio in questo momento serve soprattutto a non sovraccaricare l’organizzazione sanitaria—in certe zone già al limite—è vero che la reale emergenza, come ha scritto il giornalista Andrea Capocci, “non va cercata nella percentuale dei possibili decessi sui casi confermati ma nella capacità di tenuta del sistema sanitario.”

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Dai dati diffusi finora dal ministero della salute (oltre 2700 casi positivi, di cui 1346 ricoverati e 295 in terapia intensiva), emerge come la percentuale di ospedalizzazioni e di ricoveri in terapia intensiva non sia affatto trascurabile; specialmente se si considera che i posti in Italia sono circa 5000, anche se il governo sta pianificando un ampliamento.

In queste ore sta circolando molto un grafico che mostra cosa potrebbe succedere in caso di picco epidemico con e senza interventi. È adattato da un articolo della rivista Emerging Infectious Diseases e da un manuale dell’European Centre for Disease Prevention and Control, e l’ha realizzato l’Associazione Nazionale Biotecnologi Italiani, che da anni lavora anche “per una corretta informazione sui temi a carattere scientifico come ad esempio Stamina o oggi il coronavirus.”

Nel post su Facebook c’è anche un esempio visivo per spiegare il grafico: “Pensate di costruire un muro anti-tsunami alto 20 metri (numero di posti in terapia intensiva e misure di contenimento) e di essere raggiunti da un’onda alta 25 metri (numero di malati che richiedono assistenza ospedaliera contemporaneamente): è evidente che verrete sommersi (le terapie intensive non reggeranno e non riusciranno a dare cure adeguate a tutti).”

Di questo e altro ho dunque parlato con il presidente dell’Anbi, Davide Ederle.

VICE: Sono passati quasi tre mesi dall’inizio dell’epidemia in Cina, e quasi due settimane da noi (anche se ormai appare sempre più probabile che il virus circoli almeno da gennaio). Cosa sappiamo di certo sul nuovo coronavirus?
Davide Ederle: Sappiamo innanzitutto che il nostro ceppo deriva da quello cinese. Sappiamo poi che la Covid-19 nella maggior parte dei casi si presenta con sintomi lievi. Quindi niente panico.

Bisogna però fare attenzione perché, a differenza della classica sindrome influenzale, i dati ci dicono che abbiamo un numero decisamente più elevato (circa il 9 percento) di persone che necessitano di essere seguite in terapia intensiva, soprattutto anziani e persone con altre patologie. Questo, unito al fatto che il numero di casi oggi è in forte crescita, rischia di mettere in crisi il sistema e di non permetterci di curare efficacemente chi ne ha bisogno.

Ecco il perché delle misure di contenimento, che hanno la duplice funzione di ridurre il numero di casi gravi da gestire contemporaneamente e di dare tempo al nostro sistema sanitario di attrezzarsi per l’emergenza. Ma, ripeto, senza panico.

E cosa non sappiamo, perché è troppo presto o perché la scienza non si è ancora espressa in maniera netta? Penso alla questione degli asintomatici o alla possibilità di essere ri-contagiati, o ancora all’esistenza di un “ceppo italiano” diverso da quello cinese.
Ci sono ancora molte cose che non sappiamo, ma rispetto ad altri casi anche recenti abbiamo dalla nostra il fatto che le biotecnologie—in particolare attraverso le nuove tecnologie di sequenziamento genetico—ci permettono di raccogliere molti dati in molto meno tempo rispetto al passato.

Ad esempio siamo riusciti a ricostruire la storia del virus italiano in una manciata di giorni e, come dicevo prima, non è un virus autoctono, i dati ci dicono che è derivato da quello cinese. Sapere questo aiuta molto perché, sebbene non esista ancora una terapia specifica per questo virus, possiamo fare tesoro dell’esperienza cinese e partire da quella per aiutare i nostri malati.

C’è comunque ancora molto da fare e dovrà essere fatto mettendo a sistema il lavoro di tutti i professionisti che si occupano del tema, dai biotecnologi ai medici.

In quale fase ci troviamo al momento? Come si potrebbe spiegare, nel modo più semplice possibile?
È molto difficile dirlo con certezza. C’è un detto che recita: tutti i modelli sono sbagliati, alcuni però sono utili. In questa fase i modelli più utili [uno, per esempio, l’ha elaborato il sito Cattivi Scienziati] che abbiamo ci dicono che siamo in una fase di crescita esponenziale, dove il numero di contagiati raddoppia ogni circa 2,5 giorni.

Il dato critico da guardare è sempre quello dei malati che necessitano di terapia intensiva: il 1 marzo erano 140, il 4 marzo 295. Questo non è quindi il momento di abbassare la guardia.

A proposito di non abbassare la guardia: cosa ne pensa di slogan come “Milano non si ferma,” di musei aperti “contro il coronavirus” e altre iniziative?
Capisco perfettamente lo spirito con cui sono state lanciate queste campagne, perché ci sono interi settori produttivi, e categorie professionali, che stanno soffrendo per questa emergenza—alcuni senza motivo.

Personalmente ho apprezzato in particolare iniziative come quella del Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, con le sue “Storie a Porte Chiuse,” o l’adozione diffusa di strumenti di smart working o ancora la didattica a distanza. Tutte iniziative che puntano non solo a dire “non ci fermiamo,” che è giusto, ma anche a ripensare il modo di fare le cose, per aiutare a combattere il virus senza necessariamente chiudersi in isolamento.

In un momento del genere, cosa può fare ciascuno di noi a livello personale?
Semplice: per gestire questa fase serve una cabina di regia unica a livello nazionale, non si può andare in ordine sparso. Invitiamo quindi tutti a seguire le indicazioni della Protezione Civile e del Ministero della Salute, che ha anche aperto un portale apposito.

Quando potrebbe finire questa situazione? O meglio: quando potremmo dirci fuori dall’emergenza?
È presto per dirlo. È una di quelle cose che ancora non sappiamo perché dipende da tanti fattori ancora non noti. L’esperienza cinese ci insegna comunque che non sono situazioni che si risolvono rapidamente. Viviamo quindi la cosa con molta serenità, non servono gli accaparramenti selvaggi che abbiamo visto in questi giorni.

Cerchiamo piuttosto di evitare di creare occasioni che aiutino il virus a diffondersi e, nel farlo, impariamo soprattutto a ripensare al modo in cui facciamo le cose per farle in modo più smart. Quanto più saremo bravi in questo, tanto prima torneremo alla normalità avendo anche imparato qualcosa di utile.

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