Taiwan ha annunciato il primo caso confermato di COVID-19 il 21 gennaio 2020—un giorno dopo la conferma del primo caso negli Stati Uniti. Da allora, il paese ha riportato meno di 600 casi di contagio e solo sette morti. Negozi, cinema, bar e locali sono aperti e il livello di preoccupazione è minimo. La vita quotidiana a Taiwan è una possibile finestra sul futuro: un mondo “post-COVID” in cui le precauzioni sono ancora rispettate, ma la paura del contagio, per molti, è inesistente.
Ecco com’è vivere lì.
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L’8 agosto scorso, il cantautore taiwanese Eric Chou si è esibito all’Arena Taipei di fronte a più di 10.000 spettatori. Un evento al chiuso e senza distanziamento sociale che sembrerebbe terreno fertile per la trasmissione del virus. Eppure, a due mesi dal concerto, non è stato riportato alcun contagio legato all’evento. Anzi, mentre scrivo questo articolo, non è stato confermato alcun nuovo caso di diffusione del virus in Taiwan dal 12 aprile 2020. Come può essere? Con quasi 24 milioni di residenti e una densità della popolazione di 671 persone per chilometro quadrato (cioè molto più alta che negli Stati Uniti o nel Regno Unito), per non parlare della vicinanza alla Cina, in molti pensavano che Taiwan sarebbe stata colpita dalla pandemia molto più duramente di così.
I fattori che spiegano nel modo più semplice possibile il successo della risposta di Taiwan al COVID-19 sono tre: preparazione, leadership proattiva e la volontà da parte delle persone di adeguarsi a tutte le normative instaurate per la prevenzione della diffusione del virus. Nel 2003, Taiwan ha contato 73 morti per SARS—segnando dunque la mortalità più alta del mondo per quel virus. Da allora, il paese si è dato da fare per prepararsi a un’epidemia successiva e ha dispiegato le proprie risorse non appena sono stati accertati i primi casi di COVID-19 a Wuhan, a dicembre scorso.
Obbligando l’utilizzo della mascherina sui mezzi di trasporto pubblici, limitando la dimensione dei raduni pubblici, chiudendo i confini a stranieri e residenti, e introducendo quarantene di 14 giorni obbligatorie per chiunque rientrasse nel paese, Taiwan è riuscita a smorzare rapidamente la diffusione del virus senza un lockdown vero e proprio, né cambiamenti sostanziali alla vita quotidiana delle persone. Dunque, com’è vivere in questo paese ora?
Ho indossato per la prima volta una mascherina il 29 gennaio 2020. È stata quella settimana, durante il capodanno cinese, che le persone a Taiwan hanno iniziato a preoccuparsi. Durante i quindici giorni successivi ho parlato con alcuni amici in Cina, da cui mi ero trasferito a maggio 2019, e dove la maggior parte delle città era in quel momento in lockdown totale.
Un amico a Shandong mi ha mostrato il permesso che doveva presentare per poter uscire dal suo condominio per fare la spesa, un’altra mi ha detto era bloccata a Guangdong, impossibilitata a tornare a Shanghai per il blocco degli spostamenti tra province. Prima del lockdown, un amico americano mi ha detto di essersi ammalato appena tornato a Shanghai da Pechino.
In un periodo in cui i tamponi per il COVID-19 non erano ancora disponibili, gli è stata diagnosticata la polmonite e gli sono stati prescritti farmaci che non hanno avuto effetto. Ho pensato che lockdown, restrizioni agli spostamenti e amici colpiti dal virus sarebbero presto diventate realtà concrete anche a Taiwan.
Il caso della nave da crociera Diamond Princess attraccata a Keelung il 31 gennaio ha dimostrato quanto Taiwan fosse, in realtà, pronta a una pandemia come questa. Nel giro di una settimana, non appena i casi sulla nave sono stati accertati, tutti i cittadini di Taipei hanno ricevuto un messaggio sul telefono con un link a una versione di Google Maps speciale dove potevano controllare tutti i posti visitati dai passeggeri potenzialmente infetti. È stato impressionante e inquietante, ma anche un segno che chi era al comando sapeva cosa stava facendo. Da allora, qualsiasi persona entrata potenzialmente a contatto con una persona infetta è stata immediatamente contattata e sottoposta a tampone o ha ricevuto istruzioni per autoisolarsi, a seconda del suo livello di rischio.
Per grossa parte dell’anno, la vita qui è stata pressoché normale, se così si può dire. Dei 548 casi totali confermati a Taiwan (numero da considerarsi valido al 22 ottobre 2020), meno di 100 sono stati contagiati da altri residenti nel paese, e il resto del numero è dato da persone provenienti da oltreoceano. Negli ultimissimi mesi sono andato al ristorante, al bar, a ballare, a vedere mostre, al cinema e a eventi di vario tipo, praticamente senza ansia alcuna. Ovviamente, basterebbe una persona malata nel posto sbagliato al momento sbagliato per cambiare completamente la situazione, ma ci sono momenti qui in cui davvero ti dimentichi che il pianeta intero è nel bel mezzo di una pandemia.
Uno strano effetto collaterale di vivere a Taiwan in questo periodo storico è un particolare senso di colpa. Per un po’, caricare foto su Instagram in cui sono al mare, o fuori a cena, mi faceva sentire una fitta di disagio allo stomaco, pensando a tutte le persone che in altri paesi non potevano fare lo stesso. Ovviamente, non vorrei mai dover vivere tra le quarantene e le restrizioni che accompagnano una pandemia, ma ci sono attimi in cui non posso evitare di pensare che la libertà di cui godo è immeritata.
Ovviamente, il mio senso di colpa è irrazionale e inutile. Non sto ricevendo alcun trattamento speciale. Taiwan è una finestra sul futuro. Un futuro in cui il virus esiste ancora, ma è gestito con sapienza, efficenza, ed empatia.