Qualcuno lo definisce “il bus che Soros detesta,” qualcuno il Bus della vergogna. Tutti si riferiscono al Bus della Libertà, che si propone come (auto)mezzo per contrastare la diffusione della presunta “ideologia gender” nelle scuole tramite un tour di sette giorni in alcune grandi città italiane con lo slogan I bambini sono maschi, le bambine sono femmine.
Il tour è stato finanziato tramite crowdfunding ed è sostenuto da CitizenGo—una fondazione ultra-cattolica spagnola che è una specie di Change.org per la “difesa della famiglia tradizionale” e che ha già organizzato bus analoghi in Spagna, Messico, Cile, Colombia e Stati Uniti—e da Generazione Famiglia, che si richiama all’associazione francese La Manif pour tous. Anche Generazione Famiglia ha come scopo la difesa della suddetta “famiglia tradizionale,” e lo fa contrastando le leggi anti-omofobia, viste come limitazione della libertà d’espressione, e l’omogenitorialità, vista come negazione “del diritto del bambino ad avere un padre e una madre”
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Dopo Roma e Firenze, ieri il “Bus della Libertà” ha fatto tappa ai bastioni di Porta Venezia a Milano, nella zona più LGBT della città, e io ho deciso di andare a vedere come sarebbe stato accolto.
Quando arrivo, a mezzogiorno, il bus ha appena parcheggiato. Vestiti con la maglietta arancione dell’iniziativa, sono presenti i tre membri del team di Generazione Famiglia: il suo fondatore Jacopo Coghe, Filippo Savarese e Maria Rachele Ruiu (tutti sono anche parte dell’organico del Comitato Difendiamo i Nostri Figli, quello che organizza i Family Day). Oltre a loro ci sono al massimo una quindicina di simpatizzanti e qualche fotografo—per quanto ho visto, tutti assoldati da Generazione Famiglia. Ogni tanto arriva qualcuno, saluta e si fa una foto con i membri del team. Sembrano tutti conoscersi già.
Io vengo avvicinato da Filippo Savarese, che oltre a essere membro di Generazione Famiglia è responsabile di CitizenGo Italia. Negli ultimi anni le due organizzazioni si sono occupate di segnalare al Ministero dell’Istruzione progetti che loro considerano “di carattere ideologico,” Ie con il Bus della Libertà, mi spiega Savarese, vogliono contrastare il fatto che “si entri nelle scuole a dire che l’identità di genere è fluida, che bambini in età adolescenziale e pre-adolescenziale possano decidere cosa essere, maschi o femmine.”
In particolare, Filippo si concentra sul caso di Fa’afafine—uno spettacolo teatrale sulla disforia di genere contro il quale si sono già scatenate molte associazioni cattoliche, conservatrici e neofasciste. “Noi contestiamo il fatto che si entri nelle scuole, spesso senza l’autorizzazione dei genitori, portando queste tematiche di profilo a nostro avviso ideologico. Chiediamo semplicemente che le famiglie ne siano puntualmente avvertite e informate,” mi dice. “Sarà poi nella libertà delle famiglie scegliere cosa fare. E l’esperienza dimostra che una volta informate le famiglie non ritengono queste cose adeguate all’educazione dei propri figli.”
Secondo Filippo, il problema principale è che queste iniziative spesso vengono inserite nei programmi scolastici, presentate in modo vago e con scopi condivisibili come il contrasto al bullismo o alle discriminazioni. Come, a suo dire, nel caso di Fa’afafine, presentato come iniziativa contro la transfobia. Detto questo, precisa di non avere nulla contro le persone transessuali.
“Quando si dovessero presentare dei sentori di disforia di genere—che è una condizione clinica riconosciuta—in quest’età così delicata [adolescenziale o preadolescenziale], va seguita con ogni prudenza scientifica e psicopedagogica. Noi contestiamo il fatto che si spinga subito per la transizione, quando il 90 percento dei casi di disforia di genere in quest’età rientrano in pochi anni. Lasciate vivere i bambini in pace, non regalategli come si fa oggi il blocco degli ormoni a Natale, o come si fa in Inghilterra, dove negli ultimi vent’anni le diagnosi di disforia di genere sono quadruplicate con conseguenze traumatiche: bambini di 12 anni che dopo qualche anno, quando il disturbo è rientrato, cercano disperatamente di tornare indietro. Noi chiediamo di preservare la fascia di età della maturazione. Poi dopo, quando l’individuo diventa maturo, adulto, farà le sue scelte in piena libertà e autonomia.”
In realtà, secondo un testo edito dall’Ordine degli Psicologi della Campania, Appunti sul genere. Riflessioni sulle linee guida di intervento psicologico e dintorni, nel 12-27 percento dei casi la disforia di genere diagnosticata in età infantile e pre-adolescenziale persiste fino all’età adulta. Inoltre, l’uso di terapie anche solo parzialmente irreversibili è vietato prima dei 16 anni. Quanto al discorso sull’Inghilterra, Filippo si sta probabilmente riferendo—anche se in maniera a mio avviso distorta—a un articolo della BBC in cui si parla di un aumento del 100 percento dei trattamenti di disforia di genere nell’età evolutiva e si cita il caso di Sasha, che dopo aver iniziato una terapia all’età di 18 anni e aver subito una mastectomia ha dichiarato di non riconoscersi né come maschio né come femmina e di non desiderare più una rassegnazione di sesso—parlando anche della necessità di discutere del tema, per indirizzare meglio casi come il suo.
Chiedo poi a Filippo dei suoi rapporti con realtà politiche. “Generazione Famiglia e CitizenGO Italia sono associazioni apartitiche e trasversali, andiamo ovunque vogliano parlare delle nostre tesi,” mi dice. “Secondo noi la libertà educativa della famiglia è un principio minimo di democrazia che non ha colore politico. Troviamo appoggio a questa campagna sia nel centrosinistra che nel centrodestra—magari più nel centrodestra.”
Magari anche in movimenti neofascisti, che spesso hanno posizioni simili alle loro. “Non abbiamo rapporti,” mi dice Filippo quando gli faccio una domanda al riguardo. “Sono tantissime le persone contro l’insegnamento del gender nelle scuole, anche marxisti e comunisti.” Immagino si riferisca a rossobruni come Diego Fusaro, che da anni si scaglia contro il gender e i matrimoni omosessuali e che nel 2015 è stato relatore a un convegno di Generazione Famiglia. “Se anche quelli di Forza Nuova organizzano proteste di questo tipo, vuol dire che siamo davvero trasversali,” prosegue. In effetti Generazione Famiglia ha collaborato spesso con Pro Vita, un’associazione legata a Forza Nuova.
Quando finisco di parlare con Filippo noto che in quasi un’ora dal mio arrivo il numero dei presenti non ha ancora superato la ventina di persone. Mi avvicino a una di loro, Roberta, una signora di mezza età che non indossa la livrea arancione del team. Mi si presenta come “una madre” e mi dice che ha lasciato il lavoro—nei rapporti coi buyer internazionali alla Fiera di Milano—per stare più vicina alla figlia. Fa parte dell’Associazione Genitori e si dice preoccupata “per il diritto dei bambini a sapere qual è la loro identità sessuale senza essere confusi dalla scuola.”
Secondo lei, chi si definisce gender fluid manca della stabilità “di cui tutti abbiamo bisogno.” “La maggior teoria della fluidità di genere, Judith Butler, aveva in mente un viaggio continuo alla ricerca di qualcosa,” mi dice. “Ma io non so se la Butler fosse felice. La fluidità di genere non conduce da nessuna parte, perché per l’uomo è fondamentale scoprire chi è, scoprire la sua identità. Si può essere felici così?”
Roberta sembra voler adottare un principio maieutico con me: nonostante io la stia intervistando, più che rispondermi continua a farmi domande e a chiedermi di pensare. “L’autodeterminazione fin dove deve arrivare? È vero che è libertà l’autodeterminazione? Da dove parte il rispetto per sé? Secondo me innanzi tutto da sé stessi. Perché siamo nati così? Che senso ha la nostra sessualità? Prima di mettere nella testa dei bambini idee fuorvianti dobbiamo chiarirlo a noi stessi. Natura e cultura devono andare di pari passo.”
Secondo Roberta, dietro queste idee educative sul gender ci sarebbe “un disegno politico di cui tanti non sono coscienti.” Mi dice che insieme a un’amica hanno appena tradotto un libro, La rivoluzione sessuale globale della sociologa tedesca Gabriele Kuby. Dalla recensione che trovo sul blog di Costanza Miriano, il libro sembra suggerire che il “gender” si un complotto di una lobby internazionale di cui fanno parte l’ONU, Wilhelm Reich, Simone de Beauvoir e l’immancabile Judith Butler, uniti nel desiderio di impedire ai poveri di riprodursi per dividersi le ricchezze del mondo e produrre una razza di servi manipolabili in quanto privi di identità. Tutto ciò mi ha ricordato con nostalgia i pomeriggi adolescenziali passati sul sito del Centro Culturale San Giorgio, ma non mi ha convinto.
“Leggilo, è un libro che fa capire da dove viene questa ideologia. A volte sembra di essere complottisti… ma dietro il gender ci sono tanti soldi, metti anche solo delle case farmaceutiche. A chi fa comodo che la persona sia fluida e non sappia chi è? Io ho un’idea e non te la voglio dire, devi scoprirla da solo. Vogliono veramente il bene dei bambini?”
Dopo Roberta parlo con Maria Rachele Ruiu, anche lei del team del Bus della Libertà, che si è sposata tre settimane fa e che per seguire il bus ha rimandato il viaggio di nozze. Dato che è laureata in psicologia, parliamo del rapporto tra il mondo universitario e le questioni di genere. A suo dire, nelle università italiane, “ci sono, purtroppo, dei professori che presentano studi sulla disforia di genere, sul gender e sull’omogenitorialità che non hanno nulla di scientifico.”
Ad esempio, secondo Maria Rachele non ci sono studi che dimostrino l’equivalenza tra omogenitorialità ed eterogenitorialità. “Una coppia omogenitoriale rende orfano un bambino di una delle due figure genitoriali. Ci sono tragedie per cui un bambino nasce senza un genitore o lo perde, e si adatta all’ambiente fino a condurre una vita normale. Ma è una ferita ed è assurdo replicarla in laboratorio. In più per il bambino dev’esserci una spiegazione razionale per l’abbandono: se tua madre è morta è un conto, ma se tua madre ti ha venduto? Questa è la verità. Ed è molto grave.”
Quando le ricordo che, secondo Filippo, il Bus della Libertà non c’entra nulla con la critica all’omosessualità, Maria si affretta a sottolineare di non avere nulla contro gli omosessuali. “Anzi, molti omosessuali sono d’accordo con noi: sia gli omosessuali che gli etero fanno differenza tra maschile e femminile, decidi di essere omosessuale se riconosci di essere attratto da persone dello stesso sesso.” Cerco di farle cambiare quel “decidi” in “riconosci”, ma senza successo.
A questo punto il team e i simpatizzanti del Bus della Libertà—ancora meno di una ventina—partono per andare a fare volantinaggio davanti alla stazione della metropolitana.
La prima persona a cui provano a dare un volantino lo rifiuta, si dichiara fortemente contraria all’iniziativa e dice di essere omosessuale. Ne nasce una discussione: i toni in realtà sono piuttosto calmi da entrambi le parti, per quanto il clima sia di scontro aperto. Si calmano ulteriormente quando i membri di Generazione Famiglia circoscrivono il tema della discussione praticamente alla sola questione della visione nelle scuole di Fa’afafine.
Dopo quasi una mezz’ora di discussione i due schieramenti si separano, e ognuno va per la sua strada. Anche il volantinaggio sembra concludersi, in pratica dopo dieci metri di cammino e un solo incontro: quasi tutti vanno a prendersi un hamburger nel McDonald’s lì davanti Io mi fermo a parlare con Marina, una donna che passava di lì e si era fermata a partecipare alla discussione. Secondo lei, l’iniziativa del Bus della Libertà è a tutti gli effetti una campagna d’odio.
Per Marina, in una società civile insegnare nelle scuole il rispetto di genere, la pluralità di modelli e di condotte amorose nel rispetto degli altri, l’importanza della comprensione delle diversità e l’educazione a una sessualità consapevole dovrebbero essere delle priorità. “Non possiamo lasciare che questi signori girino per il paese diffondendo disinformazione, paure e odio,” mi dice. “Dobbiamo opporre il nostro fermo dissenso ad iniziative come questa.”
Sono circa le tre e mezza di pomeriggio quando torno verso il luogo dov’è parcheggiato il Bus della Libertà. Ormai quasi tutti i i simpatizzanti e i membri hanno finito di mangiare e sono risaliti a bordo. Mi dicono che andranno a fare qualche foto in giro per la città. La tappa milanese del bus è ufficialmente conclusa.
Mentre torno a casa penso che il team di Generazione Famiglia è molto bravo a presentarsi sorridente, colorato e ragionevole—tanto da aver reagito con perfetta calma anche davanti a due contestatori. Nonostante il loro slogan sia poco comunicativo, si presentano in modo chiaro e rassicurante anche per chi non condivide le loro posizioni. Sembrano attaccare solo una singola questione e sembrano farlo su basi di buonsenso, di carattere non ideologico. Ma non serve andare nemmeno troppo in profondità per vedere qual è il contesto in cui il Bus della Libertà è nato e quello da cui viene supportato: l’ambiente conservatore e ultra-cattolico del Family Day, del Partito della Famiglia di Adinolfi e rappresentato da organizzazioni che sul vecchio sito esprimevano chiaramente l’intenzione di difendere “l’unicità della famiglia formata dall’unione di un uomo e una donna” e la “conservazione del sesso biologico.”
In ogni caso, almeno a Milano, questo ambiente non sembra avere grande seguito.
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