Música

Mezz’ora a cuore aperto con Davide, Gemitaiz

Gemitaiz è un treno a parlare. Continua, frenetico e concentrato, a mettere concetti su altri concetti con una facilità impressionante e riesce a condensare nella mezz’ora scarsa che passiamo assieme molto più materiale di quello che sarebbe lecito aspettarsi. Poi, però, ripensi alla quantità di parole che ha messo su carta e pronunciato in un microfono lungo il corso della sua carriera e ti rendi conto che in fondo la sua esuberanza linguistica non è poi così strana. A portare sopra il suo nome sono sette mixtape e con il suo ultimo lavoro Davide, fuori oggi, quattro album, limitandoci solo al corpo principale della sua discografia.

Davide è un album che ci presenta un Gemitaiz maturo, capace di restare immobile a fissare la vita con uno sguardo vitreo anche quando il fuoco dei dubbi, delle paranoie e della fama lo avvolge. “Faccio musica per chi vive nei mondi sommersi e prende un po’ di compresse perché ha un po’ di complessi”, dichiara candidamente in “Un giro con noi”. Si preoccupa, amaro, anche della cultura che lo ha accolto da ragazzino e lo ha svezzato fino a renderlo quello che è. “Devo dire che non mi piace la piega che sta prendendo il rap ultimamente / Con tutta questa gente che della musica non gli frega niente”, dice in “Fuori”, senza possibilità di essere frainteso.

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Sembra una persona che mette in primissima posizione, nel suo personale set di valori, la perseveranza. “Per fare ‘sta merda e portarla in alto nel cielo c’è chi si sacrifica”. La musica usa-e-getta non gli va giù e non ha paura di dirlo, come potete leggere nell’intervista che trovate qua sotto, appena dopo l’embed di Spotify.

In “Paradise Lost” dici “Ti puoi comprare tutto e non il talento”. Ma si sta imponendo un paradigma per cui non serve più avere talento, basta avere un’immagine e una personalità forte, saper creare hype.
Gemitaiz: Puoi essere il più fresco, quello vestito meglio. Magari il disco tuo è una merda. A me non me ne frega niente, preferisco che ti vesti di stracci e che il tuo disco sia una bomba. Saper fare bene la musica che facciamo viene da tanti anni di passione, allenamento, palchi. Si comincia in un certo modo. Non puoi pretendere di saper fare quello che faccio io in sei mesi e non importa quante views fai, quanti dischi vendi. Le persone di talento fanno determinate cose, quelle che non lo hanno ne fanno altre.

Secondo te ci sta dire che si potrebbe trattare di un allargamento di confini di ciò che è rap? Penso a un ragazzo come Lil Yachty, che fece scandalo dichiarando di non conoscere neanche tanti pezzi di 2Pac e Biggie, ma si è sempre presentato come “un brand, non un rapper”.
Più che altro c’è più movimento. La musica gira di più, girano più soldi, ci sono più persone interessate e questo porta a vari lupi che entrano nell’ovile alla ricerca della preda. Tra essere così e arrivare ad affermarti come musicista ne passa di tempo. Lil Yachty per esempio ha detto quelle robe perché ha 19 anni, è un pischelletto tranquillo e mi sembra un tipo molto sveglio e mega intelligente. Lo rispettano tutti, non si è mai proposto come un acculturato. A me non dispiace neanche, nonostante non sia ‘sto mostro di tecnica. E poi lui all’inizio neanche voleva fare rap, voleva fare i vestiti. Poi ha abbinato le due cose e ora è diventato uno di quelli che ha guadagnato di più ultimamente.

Recentemente abbiamo intervistato Noyz Narcos che, parlando di quello che il rap è diventato oggi, ha concluso dicendo “Poteva succedere dieci anni fa, quando noi eravamo sulla cresta dell’onda, e non sarebbe stato male! […] Speriamo che almeno quest’ultimo album, se sarà l’ultimo, possa essere goduto come va goduto”. Che cosa ne pensi?
La roba alla Non dormire esposta a livello mediatico probabilmente adesso non sarebbe vista così male come dodici anni fa. Certo che loro non ci hanno mai jobbato: i testi e il sound erano quelli. A loro modo, ai tempi erano la roba più rivoluzionaria che c’era, nel 2006 facevano cinquemila persone al Leoncavallo. Nessuno, nessuno di Roma ha mai fatto cinquemila persone nel 2006 a Milano. Non esisteva che tu facevi tanta gente ai concerti, non c’era modo. Noyz lo faceva perché non si pigliava solo i rapper ma anche i raver, i metallari. Il loro mondo era una cosa gigante. Non erano un gruppo ma un movimento. Ed è per questo che ai tempi andò fortissimo, ma giustamente adesso tutto verrebbe visto in maniera diversa. Mò c’è molta più libertà nei testi, siamo tutti abituati a sentire le peggio cose.

Come hai visto cambiare l’ambiente culturale romano da quando il rap ha cominciato a diventare la forza dominante in ambito musicale?
Roma è sempre stata un macello. La nuova generazione, però, è diversa. Quella prima dovevi farti un culo così per riuscire a fartela amica. A Roma non se fidano, non è che fai due canzoni fatte bene e sono tutti fan tuoi. Non funziona così. Infatti ne siamo usciti in pochi. Chi è uscito forte de Roma che dici, “Sai, sta ancora là?” Io, Silvano e Noyz. Primo, pace all’anima sua. I Colle Der Fomento. Alla fine semo tre, capito che te voglio dì? Adesso è diverso, alcuni ragazzini non hanno più alcun tipo di canone, di cervello, di pensiero. Qualunque cosa gli dai in pasto se la prendono, come squali affamati. Tutto dura una settimana, è tutto a portata di cellulare, è tutto diverso. È un altro mondo, è quasi come se fossero passati cento anni da quando ho cominciato a fare rap.

Se mi parli di nuove generazioni del rap romano non posso non dirti di condividere un pensiero su quello che fanno Carl Brave e Franco126.
Per me loro nel mondo della musica odierna sono tipo Rino Gaetano. Prendono il pischello che non ha mai sentito una canzone rap in vita sua e non gliene frega un cazzo perché non sa manco che quello che sta sentendo è rap, prendono quello a cui piace il rap, quello a cui piace la canzone con la chitarra. Hanno fatto questo mix totale in cui non si riesce bene a definire il genere che fanno. È pop, è rap, è suonato… sono una bella realtà, per me spaccano.

Fotografia di Sha Ribeiro.

È stato bello sentire la voce di Priestess su “Alaska”, e vorrei chiederti anche qualcosa su di lei. Secondo te perché in Italia non siamo ancora riusciti a rendere il rap un luogo più inclusivo?
Da una parte è normale, dato che qua non c’è mai stato un precedente. Non voglio andare sul cazzo a nessuno ma siamo nel 2020 tra un po’. La Pina, gli Otierre… quella roba là non sanno manco che è, la fai sentire a un pischello e si spara. È una cosa completamente opposta a quello che piace a lui. In Italia non ci sono mai state le rapper femmine, non e n’è mai stata una che ha spaccato. Non per tirare acqua al mio mulino perché sta nell’etichetta mia, ma Alessandra spacca. Scrive tutto da sola, so che la gente si fa le paranoie che le scriviamo le cose io e Madman ma non esiste. C’ha due palle così, l’Alessandra. Dal vivo spacca tutto, quando rappa ti fa un culo così. Andrà lontano, lei. È piccola. Ha già suonato tre volte in Francia, e l’hanno chiamata loro! So che qui siamo un po’ lenti e la gente non è sveglissima, ma pian piano se ne renderanno conto.

“Come quando non c’erano soldi e vivere così non era un obbligo”, dici in “Davide”. Di cosa stai parlando?
Quella che, quando ero piccolo, era una passione ora è un lavoro, è tutta la mia vita. Ci sono delle cose che mi mancano rispetto a quando avevo quindici anni e ho iniziato a scrivere le canzoni. E tu dirai, “Ah, mortacci tua!” Ma io non posso girare per strada, e questa cosa mi fa [male]. Io sono sempre stato uno che cammina per strada. E il fatto di non poter passare un quarto d’ora nello stesso posto perché sennò si radunano 300 persone e mi cominciano a fare le foto come allo zoo è brutto.

Quando hai cominciato a notare che le cose stavano cambiando e che avevi cominciato ad attirare questo tipo di attenzioni?
Al disco con Madman, a Kepler. Lì era figo, da paura. Mò è diventato morbo. Io ho paura di andare in determinati posti. Non ci vado. Preferisco evitare, sono fatto così.

Parli di questa cosa con tuoi colleghi? Magari con Fibra, che mi sembra una persona con un approccio simile alla questione?
Io e Fabrizio andiamo d’accordissimo! Infatti lui che fa? Piglia e se ne va sei mesi a Los Angeles! Anch’io me ne vado da qua appena posso. A Berlino, a Parigi posso camminare per strada. Posso diventare una persona normale e posso non farmi la paranoia su che cazzo succede ogni volta.

Te lo chiedevo anche perché avevo in testa una serie dei nostri colleghi americani in cui portano artisti dallo psicologo. C’è un episodio bellissimo in cui YG parla delle conseguenze della sparatoria in cui rimase coinvolto e di come cominciò a bere per reggere alle sue paranoie.
In America la trap, il dirty south, è un altro mondo. Qui la trap è la canzone melodica che ti dice che sei fighissimo. Future, Meek Mill, YG: quella roba è cruda, è struggle vero. Pure se il pezzo è Future che fa lo stesso flow per dieci minuti, per dieci minuti quello ti dice le peggio cose. Non dice, “Guarda quanto so’ figo”. Dice “C’ho sessanta collane perché spignevo er crack a dodici anni, e bla bla bla, e mò so il più figo del mondo”. Così ha senso, è anche giusto. Non è lo stesso mood della trap che c’è qua.

Nell’album parli spesso delle tue ansie, delle tue paure. Vorrei sapere che cosa ne pensi del rapporto tra salute mentale e rap, anche alla luce del fenomeno dello Xanax.
È tutto relativo. La maggior parte dei rapper americani è prendere lo Xanax e stare bene. Ora è arrivata pure in Italia ‘sta cosa, così come quella della codeina. Lo sciroppo… per me è una cosa ridicola, te lo giuro. Però cazzi loro, io ho fatto cose terribili con le droghe nella mia vita e non mi sento di giudicare nessuno. Ma non mi sembra una cosa che ti godi. Quella roba non serve a niente. Ti elimina i problemi che c’hai della tua vita, è tutto bellissimo per quattro ore, dopo sei ore stai peggio e alla fine se non te lo ripigli sei nel baratro. Ti vuoi ammazzare. Io vado dall’analista e promuovo la cosa. Spendi un po’ de soldi, è vero, ma tanto li spendi pure per le medicine. Piuttosto di distruggerti il cervello.

Penso spesso all’influenza o meno del testo in tutto ciò. Perché in Italia l’attenzione ai testi è in realtà decisamente bassa, ed è assurdo data l’importanza della lingua e delle parole in ciò che stiamo tutti ascoltando.
La maggior parte della gente non ha idea di quello che sta ascoltando. Ma che posso fare, non posso mica costringerli a imparare l’inglese! Dovrebbero farlo i genitori! Io sono stato fortunato. Non devono fare tutti come ho fatto io, ma a casa ho ancora gli almanacchi dei testi stampati di Eminem, di 2Pac, e li rappavo perché volevo imparare quello che dicevano. Avevo dodici anni, chiedevo un po’ di cose a mia madre che lo conosceva e a quindici anni lo avevo imparato.

Per concludere, ti faccio leggere due domande che ti hanno fatto i nostri follower su Instagram. La prima, di Edoardo Cavaliere: “Ripensando a tutto ciò che hai fatto fino ad ora e al Davide di qualche anno fa, cosa riprenderesti dal rapper romano di allora? E soprattutto cosa lasceresti di quello che sei ora?”
Purtroppo so che, visto da fuori, è tutto diverso. Ma io non trovo ci sia nulla a differenziare il primo singolo di QVC7 e il primo singolo del primo QVC. Sono sempre tracce rap dove parlo di me, di quello che mi piace, di quello che non mi sta bene. Ecco, quando ero più piccolo mi basavo su temi più comuni in quanto non avevo vissuto troppe cose. Potevo raccontare qualcosa ed essere capito solo se mi riferivo alle mie esperienze.

E quest’altra, di Gaspare Scozzarella: “Hai mai pensato di smettere di scrivere? Hai mai pensato di aver detto tutto quello che dovevi dire all’interno dei tuoi brani e di non scrivere più per evitare di ripeterti?
No, mai. E che fai, vivi sempre tutti i giorni la stessa cosa? Vivendo non sai mai quello che ti può succedere, di giorno in giorno trai conclusioni diverse.

Elia è su Instagram.

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