Nel numero di maggio 1951 della rivista di fantascienza Astounding Science Fiction—ancora in vita oggi col nome di Analog Science Fiction and Fact—appariva un saggio intitolato I clipper dello spazio. “Un affascinante spunto per navi spaziali a vela,” recita il riassunto dell’articolo (i clipper sono appunto un tipo di nave a vela). “Sembra una follia, ma dal punto di vista matematico ha senso! Sarà possibile navigare a vela spinti dal ‘vento che soffia tra i mondi’!” Nel saggio, il matematico Carl Wiley—sotto lo pseudonimo di Russell Saunders—teorizzava di poter sfruttare la spinta della luce solare per volare nello spazio sfruttando gigantesche vele. All’epoca sembrava frivola fantascienza—e per questo Wiley ne parlava senza usare il suo vero nome—ma oggi è uno dei futuri dell’esplorazione spaziale.
Lo scontro dei fotoni che compongono la luce contro un qualsiasi corpo produce una spinta. Sulla Terra è un effetto insignificante, ma nello spazio—e con una tecnologia pensata appositamente per sfruttare questo fenomeno—la pressione esercitata dai fotoni è sufficiente a ottenere una spinta capace di manovrare una sonda o un satellite. Questa tecnologia è la vela solare, una membrana molto sottile e riflettente (la spinta ottenuta è maggiore se il materiale riflette e non assorbe la luce solare) che potete immaginare come l’equivalente spaziale delle vele delle barche che abbiamo sulla Terra.
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“Le vele solari permettono missioni che richiedono grandi incrementi di energia e che sarebbero impossibili con altri sistemi di propulsione perché richiederebbero una grande quantità di propellente (qualcosa come il 99 percento della massa della sonda sarebbe costituito dal propellente),” scrive a Motherboard Bernd Dachwald, professore dell’Università Tecnica di Aquisgrana. “Le vele solari volano invece grazie solo alla pressione della radiazione solare liberamente disponibile e non richiedono nessun propellente.”
Negli anni Venti del Novecento era già stato ipotizzato l’uso della della pressione della radiazione solare per muoversi nello spazio, “ma allora mancava la tecnologia,” come racconta a Motherboard in una chiamata su Skype il dottor Lorenzo Niccolai, che studia vele solari ed elettriche (ci torneremo dopo) all’Università di Pisa.
Poi, la missione Mariner 4 lanciata nel 1964 ha usato la pressione della radiazione solare per stabilizzare la sonda e negli anni Settanta Mariner 10—dovendo fare una serie di sorvoli ravvicinati di Mercurio ma avendo quasi esaurito il carburante dopo due sorvoli—ha guadagnato un terzo sorvolo riorientando i suoi giganteschi pannelli solari e usandoli come, appunto, una vela solare per agevolare la manovra.
Nonostante questi successi e qualche ulteriore tentativo (gli Stati Uniti avevano pensato a una vela solare per intercettare la cometa di Halley nel 1986), intorno a questa tecnologia è rimasto comunque un certo scetticismo fino alla fine degli anni Novanta, quando—anche grazie a nuovi sviluppi tecnologici—Europa e Asia hanno ricominciato a esplorarla, arrivando al lancio nel 2010 della missione giapponese Ikaros. “Un nome non proprio di buon auspicio per una cosa che deve volare usando il Sole,” commenta Niccolai. Nonostante il nome un po’ infelice, Ikaros è stata un successo ed è stata la prima vera vela solare nello spazio.
Cugine delle vele solari sono le vele elettriche, inventate dallo scienziato finlandese Pekka Janhunen nel 2004. “Nelle vele elettriche si usa la pressione dinamica del vento solare,” spiega Niccolai. “Tutta sta pappardella per dire che il Sole emette una cosa che si chiama vento solare, composto di particelle cariche. L’idea è sfruttare l’interazione tra queste particelle cariche e una griglia di cavi caricati elettrostaticamente.” Siccome cariche elettromagnetiche uguali si respingono, l’interazione tra vento solare e campo elettromagnetico della griglia produce una spinta. In questo caso non dovete quindi immaginarvi la vela elettrica proprio come le vele che conoscete, perché è più simile a una ragnatela di cavi.
“Vele solari e vele elettriche sono a due stadi di sviluppo molto diversi,” spiega Niccolai. “La vela solare ha già volato, ha già fatto test in orbita (dispiegamento, controllo d’assetto) e adesso con la LightSail 2 della Planetary Society ha sperimentato anche l’efficacia della spinta vera e propria.” La vela elettrica, invece, è a uno stadio molto meno avanzato: c’è stato un test con il satellite ESTCube-1—che ne avrebbe dovuto sperimentare il funzionamento—ma il meccanismo per lo srotolamento del cavo non ha funzionato.
Il dispiegamento della vela è la difficoltà maggiore, per entrambe le tecnologie. “Il problema principale è che queste grandi strutture [delle vele solari] devono essere impacchettate in un volume molto piccolo e poi devono essere dispiegate in orbita in un modo affidabile,” scrive a Motherboard Colin McInnes, professore all’Università di Glasgow. “Questo ci pone una sfida significativa del punto di vista ingegneristico, perché sia la struttura che fa da supporto alla vela sia le membrana riflettente devono essere spiegate senza inceppature o strappi. Per le strutture delle vele solari si pensa a cose come aste meccaniche che possano essere arrotolate come un metro a nastro o aste gonfiabili che possano essere srotolate usando la pressione di un gas. Queste aste sono poi usate per tenere in tensione la membrana della vela.”
“Per quanto riguarda il dispiegamento della vela elettrica, immaginate di avere una corda legata da una parte a una qualche massa e dall’altra a una struttura, a un asse, e poi arrotolata intorno a questa struttura,” spiega su Zoom a Motherboard Andris Slavinskis professore dell’Università di Tartu, che ha lavorato all’ESTCube-1. “Inizio a ruotare l’asse e lentamente faccio in modo che la corda si srotoli, in modo che nello srotolamento si tenga tesa. Ecco, questo è il modo in cui vorremmo dispiegare le vele elettriche, usando una bobina che contiene il cavo ed è azionata da un motore.”
Un team del programma NEA Scout della NASA arrotola e dispiega un prototipo a mezza scala della vela solare impiegata in alcune delle piccole sonde CubeSat.
“Ci sono davvero pochi studi su come si possa srotolare una vela elettrica completa, penso di poterli contare sulle dita di una mano,” aggiunge Niccolai. “L’idea più realistica è invece usare uno-tre cavi”. Anche con un numero basso di cavi, la vela elettrica ha almeno un’interessante applicazione: il cosiddetto “freno al plasma” (“plasma brake”), una tecnica che dovrebbe facilitare la deorbitazione dei satelliti in orbita terrestre bassa (meno di 1000 chilometri dal suolo). Si tratta di un cavo carico che in questo scenario interagisce non con il vento solare ma con la ionosfera terrestre piena di particelle cariche frenando il satellite a cui è collegato per farlo precipitare quando deve essere dismesso (pensatelo come un attrito tra cariche elettriche). La prossima missione ESTCube-2 ha come scopo proprio mettere alla prova il freno al plasma.
Intanto, la vela solare sta cominciando a essere utilizzata per vere missioni scientifiche, come le statunitensi NEA Scout e Solar Cruiser. “Per alcuni tipi di missione la vela solare è l’unica strada,” dice Niccolai. “Una delle proposte più interessanti riguarda una missione che raggiunga il sistema solare esterno. Esiste una manovra che si chiama… sentite qui… ASSIST GRAVITAZIONALE FOTONICO… che è simile all’effetto fionda che avete visto nel film Sopravvissuto – The Martian: sfruttare il campo gravitazionale di un pianeta per fare una manovra. In questo caso si sfrutterebbe il Sole, dispiegando una vela solare quando siamo vicini alla stella e guadagnando così una grande spinta dovuta alla pressione della radiazione solare. Questo sarebbe un progetto probabilmente fattibile già con il livello tecnologico attuale, se qualcuno investisse per esempio nello studio dei materiali necessari per far avvicinare il satellite il più possibile al Sole.”
Prima che vi facciate prendere dall’entusiasmo vi dico che no, gli esseri umani non viaggeranno nello spazio sospinti da fotoni e venti solari. Purtroppo abbiamo bisogno di mangiare e respirare, siamo troppo pesanti per le vele che riusciamo a costruire e, soprattutto, che riusciamo ad aprire nello spazio. Almeno per ora. “Sarebbe molto più semplice se avessimo un modo per costruire le vele nello spazio, in ambienti a bassa gravità,” ha concluso Slavinskis. “Allora potremmo costruire vele con lati lunghi chilometri.” Non è quindi impossibile un futuro di pirati spaziali che navigano su galeoni spinti dal “vento che soffia tra i mondi.”