Ho iniziato a riflettere sulla questione della violenza psicologica una sera che si parlava di un’amica in comune, e un ragazzo ha detto, “La cosa che non capisco è come una persona intelligente come lei abbia potuto accettare di essere trattata così.” Poiché anche io, e immagino molti altri, mi sono sentita rivolgere questa frase più di una volta, ho cominciato a interrogarmi su cosa spinga le persone a sottomettersi, e spesso anzi a cooperare, al proprio annientamento psicologico—a vari livelli di gravità.
La violenza psicologica è più sfuggente di quella fisica o sessuale, ma comunque reale—nonché un reato. In particolare sono due i fattori che possono indicare una situazione di abuso: l’isolamento che l’aggressore ritaglia intorno alla vittima e la dispercezione—ovvero la vittima non è più in grado di riconoscere gli abusi come tali né di ricordare il suo valore. Eppure gli abusi sono spesso evidenti: manie di controllo, insulti, svalutazione, derisione, stalking, gelosia immotivata. E nonostante negli ultimi dieci anni in Italia la violenza fisica sessuale o psicologica sia diminuita, almeno due problemi radicati restano: solo l’11,8 percento delle vittime denuncia gli abusi subiti, e facendo ricerca mi sono resa conto che c’è sempre un sottinteso piuttosto angosciante al termine “violenza psicologica”: “sulle donne“.
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Ho quindi deciso di contattare la dottoressa Virginia Suigo, psicoterapeuta presso il centro Minotauro di Milano, per capire meglio quali sono i meccanismi psicologici dietro la perpetrazione e l’accettazione di abusi di questo tipo, cosa possiamo fare per combatterli, e se sono davvero le donne le sole a subirli.
VICE: Non si sente spesso parlare di violenza psicologica, e quando se ne sente parlare è sempre in termini di violenza sulle donne—perché?
Dott.ssa Suigo: Culturalmente nei secoli la violenza—intesa in modo fisico—ha riguardato le donne, perciò anche quando abbiano iniziato a studiare dinamiche di violenza meno esplicite il nostro focus è partito dalle donne. Inoltre sempre grazie a un movimento culturale, quello del femminismo degli anni Settanta, abbiamo potuto denunciare e far emergere molto del sommerso connesso alla violenza domestica sulle donne e sui bambini.
Oggi differenziamo diverse tipologie di violenza psicologica—alcune di esse si sviluppano nella coppia, altre in famiglia, altre ancora nei gruppi—le cui conseguenze possono essere deleterie. Per esempio “l’ostilità” dei genitori nei confronti dei figli in età infantile (ad esempio attraverso la preferenza nei confronti di un altro fratello o l’esplicita avversione per il sesso del figlio, e così via) si ritrova nelle storie di molti adolescenti autori di reato, così come la violenza assistita, quella non cioè subita direttamente ma vissuta nel contesto familiare.
Quindi studiamo la violenza soprattutto sulle donne e i bambini perché culturalmente gli uomini sono meno proni ad ammettere di esserne vittima? O perché su di loro si esercita meno?
In letteratura sono preponderanti gli studi sulle donne che subiscono o che resistono anche ad anni di comportamenti violenti. È pero importante ampliare la prospettiva e partire dal presupposto che nella realtà spesso le cose sono molto più complesse di come appaiano: la violenza domestica ad esempio è sempre stata intesa come esercitata dagli adulti nei confronti dei bambini; in alcuni casi però sono gli adolescenti che, avendo creato un rapporto disfunzionale con i genitori, rivolgono su di loro tutta la loro difficoltà o impossibilità a crescere, anche attraverso gesti violenti. Ne sappiamo ancora poco perché spesso i genitori non ne parlano per la vergogna sociale che ne può derivare; così come molti uomini vittime di dinamiche violente.
Cosa c’è alla base della violenza psicologica?
È fondamentale distinguere due tipi di aggressività. Nella maggior parte delle relazioni tra adulti è presente un’aggressività finalizzata alla preservazione del sé: si tratta di una reazione comportamentale dovuta al fatto che l’altro (il partner ad esempio) diventa ricettacolo della proiezione di tutte le caratteristiche che il soggetto non riesce a riconoscersi o ad accettare di se stesso. Attribuendole all’altro, questo diventa l’incarnazione di un ostacolo che si frappone tra il sé e i propri obiettivi personali. In questo caso non c’è il desiderio di ferire o di umiliare: semplicemente l’altro cessa di “esistere” in quanto persona. Il termine “narcisismo” è spesso abusato, ma è vero che al giorno d’oggi sono venuti a mancare i grandi contenitori che facevano da pilastro dell’identità personale (scuola, religione, leva militare e così via) ed è molto più complicato essere felici e realizzati: siamo fragili e in allerta rispetto alle violenze e all’intrusione da parte degli altri, che viviamo come un ostacolo per la nostra realizzazione personale.
Diverso è invece il caso delle persone che vogliono fare del male all’altro: in questo caso parliamo di un’aggressività sadica e di relazioni propriamente perverse, in cui l’aggressività non è una reazione ma una scelta attivamente compiuta allo scopo di ferire e umiliare l’altra persona.
Ci sono dei sintomi che fungono da campanello d’allarme per cui una persona dovrebbe cominciare a farsi delle domande sulla propria relazione?
Quando una persona si ritrova privata dei propri legami e comincia a sentirsi sempre e comunque mancante o insufficiente, questi sono due importanti campanelli d’allarme. Oltre a rendersi conto di avere intorno terra bruciata e a sperimentare una grande sensazione di confusione su quello che sta succedendo.
Mi pare di capire che la violenza psicologica è protratta nel tempo, è più un’atmosfera in cui si vive che un singolo episodio, no?
Sì, è una trama che va a costruirsi nel tempo. Per descrivere al meglio l’atmosfera che viene a crearsi si usa il termine Gaslighting, che deriva da un’opera teatrale degli anni Quaranta, Gas Light. In quest’opera teatrale il marito, attraverso un gioco manipolatorio di accensione delle lampade a petrolio, porta la moglie a dubitare delle proprie percezioni fino a impazzire, presentandosi al contempo come vittima delle bizzarre percezioni e della stramberia di lei. In questa opera è reso molto bene il clima relazionale di dubbio e confusione che si costruisce progressivamente in una relazione perversa.
Quali sono gli effetti a lungo termine di violenze psicologiche di questo tipo?
Possono essere devastanti, ed è per questo che bisogna chiedere aiuto il prima possibile. Il fatto di essersi ritrovati nella posizione di vittima di violenza psicologica rappresenta un fattore di rischio per il futuro: tra le vittime di violenza infatti è più probabile trovare persone che hanno già subito violenze in passato, e che vanno inconsciamente a ricreare situazioni che disperatamente cercano di evitare e da cui provano ad allontanarsi. Inoltre è importante tenere sempre in mente che, come regola che vale sia per gli abusi fisici e sessuali sia per quelli psicologici, tanto più precoce è la violenza (a livello di fase del ciclo di vita attraversata dalla vittima) tanto più gravi sono gli effetti, perché erodono in profondità l’autostima e la fiducia nel prossimo e nelle relazioni.
È però altrettanto importante chiedersi perché faccia così paura accorgersi di quello che sta succedendo e assumersi la responsabilità di andare via.
L’idea che me ne sono fatta è: se la vittima inizia a subire un’erosione di autostima da parte dell’aggressore penserà sempre di più di non meritarsi nessun affetto. In questo modo penserà che quello che viene dal partner è l’unico che si merita, che è già anzi regalato. In fondo, potrebbe essere un semplice bisogno d’affetto.
Be’, c’è una concezione piuttosto fragile di sé se uno pensa che sia solo così che può meritarsi affetto. Però sì, il cambiamento graduale e il progressivo isolamento fanno sì che la persona che subisce violenza lasci cadere tutte le altre relazioni, anche se non per forza attraverso rotture forti. E questo non fa che aggravare la situazione: tanto più si investe in una relazione quanto più si rischia di rimanere con un pugno di mosche nel momento in cui finisce. Inoltre per molte persone la solitudine spaventa più che continuare a investire in un rapporto che ci si illude possa cambiare, dimenticando l’importanza di distinguere tra quanto sia importante impegnarsi per una speranza e quanto sia deleterio impegnarsi per un’illusione.
In che momento le vittime di violenza si rivolgono alle funzioni di aiuto? Dai dati sembra che non sia così diffusa una ricerca di aiuto, anche se comunque la situazione sta migliorando.
Ora è molto più facile accedere alle funzioni di aiuto. Purtroppo questo vale più per la violenza fisica che non per quella psicologica. Spesso la vittima anzi metto in atto vere e proprie strategie di coping, di minimizzazione e negazione per continuare a conviverci.
Può però anche succedere che sia l’aggressore a chiedere aiuto, nella quasi totalità dei casi per tematiche che c’entrano poco: magari per un problema di narcisismo, per la delusione derivante dal mancato successo o da una mancata riuscita professionale; insomma proprio per quel senso di insoddisfazione che non è tollerabile nemmeno se negato attraverso il partner. Solo a lavori iniziati emerge il problema di coppia.
Qual è il percorso psicologico che si può seguire con una persona vittima di abusi psicologici?
Una delle regole auree che ho imparato durante gli anni al CBM (Centro per il Bambino Maltrattato) è che anzitutto si devono creare le condizioni di sicurezza, e poi si inizia a lavorare. Insomma, la situazione di violenza va eliminata. Sia in caso di una relazione di coppia, sia in caso di un rapporto con un figlio o con un genitore. Dopodiché si può agire in tanti modi, in questo centro cerchiamo di ricostruire il senso del valore personale che è stato danneggiato.
L’unica soluzione è interrompere il rapporto?
Non è l’unica, anche se dipende dal livello di violenza e di perversione: se il rapporto è perverso va rotto. Di solito la terapia di coppia si usa in caso ci sia una mania di possesso ma non una prevaricazione. È comunque più facile che sia la vittima a interrompere il rapporto, non serve a molto sperare che sia il perpetratore a farlo.
Ma scusi, in questi casi a lei non viene da uscire dal suo ruolo convincere le persone che quella relazione non va bene?
Un autore molto conosciuto, Yalom, ci dice che dare consigli in psicoterapia è del tutto inefficace. E mi trovo d’accordo con lui. Quello che è importante è dare il vero nome alle cose e guardarle per quello che sono davvero, soprattutto quando la confusione ce lo impedisce. Anche perché con un consiglio non richiesto si rischia solamente che la persona non torni al colloquio successivo—le difese sono lì per un motivo e vanno sempre rispettate.
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