Com’è essere giovane e vivere in una delle province ‘meno vivibili’ d’Italia

Eravamo a bordo piscina, pomeriggio, estate. C’era sempre un po’ di gente, facevamo quasi tutti il liceo. “Allora stasera che si fa?” “Boh? Catania? Cefalù? Taormina?” A Caltanissetta non si restava mai. Non c’era nulla da fare, soprattutto d’estate. E lo stesso valeva per l’università: nessuno pensava di farla in città. Ma quando sei al centro è solo una questione di occasioni, di opportunità. Se essere il cuore, l’ombelico, o il buco del culo.

A Caltanissetta ci ero arrivato da Genova il 30 giugno del 2000 con tutta la mia famiglia. Mio padre era stato assegnato all’ospedale cittadino, che sarebbe dovuto diventare il punto di riferimento di tutto il centro Sicilia. Caltanissetta stessa è appunto un po’ il centro della regione—una caratteristica topografica, una condizione ontologica. In un’ora si raggiunge quasi ogni posto della Sicilia.

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Quando siamo arrivati era una florida cittadina che si stava aprendo al capitalismo. Era la città dell’antenna più alta d’Italia; stava aprendo il primo McDonald’s; l’amaro Averna—sì, è (era) di Caltanissetta—aveva uno degli spot TV più fighi di sempre, con gli Aerosmith come colonna sonora; si inauguravano la prima piscina comunale e il nuovo palazzetto dello sport; nei negozi si vendevano vestiti di alta moda, e per strada incrociavi gli ultimi modelli di auto. Tutti volevano far vedere quanto il benessere fosse vissuto a piene mani.

Mossi da un irrefrenabile, quanto impacciato, slancio imprenditoriale, i miei genitori decisero di comprare una casa più grande di quella che ci sarebbe servita. “È un affare,” ci dicevamo—la casa era venduta all’asta perché confiscata a un tizio scappato in Australia per bancarotta—”la compriamo a poco e se mai dovremo rivenderla ci mettiamo un attimo.” Ma non è andata così.

Finito il liceo, otto anni fa, io mi sono trasferito a Milano e i miei si sono spostati a Palermo. Nel frattempo il progetto del grande hub ospedaliero di Caltanissetta è andato sfaldandosi. E anche l’investimento immobiliare, dal canto suo, ha rivelato tutta la sua fallacità. Perché la città ha accusato più di altre il colpo della crisi economica. I prezzi a metro quadro sono bassissimi (anzi, stando agli ultimi dati Caltanissetta vanta i prezzi più bassi d’Italia, idem per i canoni d’affitto), e oggi quella casa è vuota perché in vendita. 

Rai Way vuole demolire l’antenna più alta d’Italia—non trasmette più nulla dal 2004; il gruppo Averna—che ormai aveva il 25 percento del mercato dei liquori italiano—è stato venduto per intero lo scorso anno alla Campari, smobilitando anche lo stabilimento in città; il palazzetto dello sport chiude e poi riapre; molti dei negozi che vendevano alta moda oggi faticano a restare aperti. Accanto al McDonald’s hanno aperto un Bingo, e sulla destra ormai da qualche anno c’è una statua della Madonna. Il Mac e il Bingo sono due fra le più floride attività della città.

Una delle più floride attività cittadine.

Per il resto, pesano l’enorme disoccupazione (quella giovanile è del 54,8 percento), la mancanza di infrastrutture e collegamenti (negli ultimi due anni tutta la provincia è rimasta letteralmente isolata a causa sia dei cedimenti sulla Catania-Palermo, sia per una rete ferroviaria che risale al 1885), i bassi redditi procapite e l’alto tasso di emigrazione.

Se già durante la mia adolescenza nessuno “restava” in città, infatti, oggi quella di non spostarsi sembra una scelta ancora più radicale. Perché se sei giovane, cosa ti porta a decidere di restare—o tornare—in una città che nella classifica della qualità della vita nelle province italiane del Sole24Ore e di ItaliaOggi occupa i posti più bassi? 

Intendiamoci, non che sia mai stata in alto. O che trasferirsi per studiare, in Sicilia, sia una prerogativa di Caltanissetta. La città ospita sì giusto un paio di sedi distaccate dell’università di Palermo, ma in Sicilia su 155mila studenti post-diploma, quasi 46mila sono fuori regione. E non solo perché fa figo andarsene.

Io ci sono tornato di recente, per prendere alcuni pacchi nella casa grande. E ne ho approfittato per parlare con Francesco e Salvatore, o Ciccio e Toti, gli unici miei amici stretti, quelli della “comitiva”, rimasti a vivere a Caltanissetta.

Ciccio e Toti.

“È come se una generazione non ci fosse più,” mi dice Francesco. È la stessa impressione che ho anche io. La stessa che si ha guardando i dati demografici. L’indice di vecchiaia è salito di 30 punti percentuali solo negli ultimi dieci anni. Così come l’indice della struttura della popolazione attiva, che misura il grado di invecchiamento della popolazione: in un decennio è cresciuto di oltre 21 punti percentuali.

In questo senso Francesco e Salvatore rappresentano un’eccezione. Dopo aver studiato uno a Enna e l’altro fra Enna e Catania, hanno trovato entrambi lavoro nelle uniche due aziende di dimensione medio-grande presenti nella provincia. La paga è anche buona. “Sì, sicuramente siamo dei privilegiati,” ammette Salvatore. A lui, ai tempi in cui eravamo una comitiva, si chiedeva cosa c’era da fare, era l’organizzatore delle serate. “Ormai c’è poco da organizzare. Qualcosa durante le festività si fa, quando un po’ di gente torna dai parenti per le vacanze. Ma nei venerdì e sabato normali o te ne vai fuori o non combini nulla.”

Francesco invece crescendo è diventato un tipo più strutturato. Lavora ormai da tre anni, è fidanzato da otto, e di andare a ballare il venerdì gliene frega poco o niente. “Vedi, il lato positivo di questa città è che con lo stipendio che prendo io posso permettermi di vivere abbastanza bene. A Milano, tra affitto, bollette e via dicendo non mi basterebbe, ma qui sì. Tutto sommato, se non hai chissà quali aspettative, qui stai bene.” Che poi è proprio la ragione per cui me ne sono andato io. “Ma progettate di andarvene anche voi prima o poi?” chiedo. “Ah se trovo lavoro fuori sì assolutamente,” è la risposta unanime. “Ma quale può essere secondo voi il futuro di questa città?” “Se continua così, nessuno.”

L’impressione, però, è che qui “continui così” da almeno una cinquantina di anni. La storia di Caltanissetta è fatta soprattutto di occasioni perse. Aprendo la pagina Wikipedia della città, al paragrafo Economia si legge: “È conosciuta soprattutto come un centro agricolo e dirigenziale in declino, con un prestigioso passato estrattivo alle spalle.” Ma la pagina Wiki non basta per rendere la complessità dell’evoluzione.

Il corso.

Come mi hanno infatti spiegato i professori Antonio Vitellaro e Sergio Mangiavillano, rispettivamente Presidente e consigliere della Società Nissena di Storia Patria—uno dei pochi, forse l’unico, istituto che si occupi di valorizzare e promuovere la storia e la cultura del territorio—per tutto il diciannovesimo e gran parte del ventesimo secolo la città ha conosciuto una grande espansione, sino a diventare capitale mondiale dello zolfo. “Quelle miniere raccontate da Verga, Pirandello, Sciascia, Carlo Levi. Le miniere dove i carusi morivano ma che fecero arricchire immensamente le società, soprattutto straniere, che investivano e i proprietari dei terreni dove le miniere sorgevano. I vecchi latifondisti insomma,” spiegano.
Attraverso questo meccanismo, da un lato continuava ad alimentarsi e a ingrandirsi la ricchezza dei signori, che andavano poi dissipandola nelle città maggiori—per darsi un tono—e dall’altro non si formava una borghesia imprenditoriale capace e interessata a investire sul proprio territorio.

Con la chiusura delle miniere a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta—dovuta soprattutto alla concorrenza statunitense—a Caltanissetta restarono solo le pensioni da ex minatori che per decenni hanno continuato a trascinare l’economia locale. “Quella pensione è diventata un ‘patrimonio familiare’, che ha sostentato più generazioni di una stessa famiglia. Ormai però i minatori stanno pian piano scomparendo tutti, come è normale che sia,” mi ha fatto notare il professor Vitellaro.

Da allora, a fronte di un settore industriale mai veramente nato, Caltanissetta ha puntato tutto sul terziario. L’edilizia l’ha fatta da padrona diventando il vero settore trainante dell’economia cittadina negli anni del “boom”, anche se con continue inchieste per ricorrenti infiltrazioni mafiose. A questo si aggiungeva tutto il capitolo degli uffici: banche, assicurazioni ma soprattutto quelli pubblici, di importanti organi amministrativi.

Oggi sta chiudendo anche la sede della Banca d’Italia, per anni simbolo dell’importanza del capoluogo. La situazione è diventata a tratti grottesca: l’anno scorso i sindacati hanno addirittura chiesto all’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi di adottare la Provincia, i cui commissari designati a una certa hanno anche pensato di abbandonare la nave.

Poi ci sarebbe il capitolo turismo. Qui forse basta dire che secondo gli ultimi dati disponibili sul sito della Regione, Caltanissetta incide solo per il 2 percento sul turismo di tutta l’isola. E il motivo è soprattutto la cattiva valorizzazione del patrimonio artistico-monumentale e paesaggistico del territorio. Perché essere al centro è una questione di occasioni, di opportunità. E se investi solo lo 0 percento del tuo bilancio per il turismo

La piazza centrale.

Quando me ne sono andato, però, questi aspetti nella mia vita pesavano relativamente. A pesare era un elemento, per un ragazzo, forse ancora più centrale, e che nel piazzamento della provincia per la classifica di Italia Oggi è racchiuso nel capitolo “Tempo Libero”. Qui sono contenuti i dati riguardanti il numero di cinema, le associazioni culturali, le librerie (in relazione agli abitanti ovviamente). Ecco, riguardo questi specifici dati la provincia di Caltanissetta è penultima in Italia. E per quanto riguarda le librerie per 100mila abitanti, è addirittura ultima.

Eppure a Caltanissetta, e nella sua Provincia, risiedevano Leonardo Sciascia e Vitaliano Brancati. Era frequentata da gente come Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo e Pier Paolo Pasolini, si ritrovavano nella libreria e sede dell’editore Salvatore Sciascia. Cazzo, la chiamavano “la piccola Atene” quella città.

La libreria però ha chiuso nel 2012. A Leonardo Sciascia era stato dedicato nel 2001 anche un Parco letterario. Si chiamava Regalpetra, come il paese inventato da Sciascia ne Le parrocchie di Regalpetra. È sostanzialmente abbandonato. E, almeno fino al 2014, il Comune ha speso l’uno percento del suo bilancio in Cultura.

Il vicesindaco Vito Margherita.

Per parlare di questo e altro, come ultima cosa sono andato a trovare il vicesindaco Vito Margherita—che, a 33 anni, rientra perfettamente in quella fascia di età da cui ho iniziato la mia ricerca.

Margherita è stato assolutamente onesto nell’ammettere i difetti e le mancanze della città, soprattutto quelli quasi endemici. Poi mi ha parlato della risposta delle giunte recenti: dei buoni risultati che stanno ottenendo sulla raccolta differenziata—”cosa tutt’altro che scontata in Sicilia”—dei musei cittadini, della Settimana Santa che si sta cercando di far diventare Patrimonio dell’Unesco. 

È abbastanza? Credo di no, e la risposta sembra evidente quando Margherita, dopo aver ammesso di voler crescere i suoi figli “qui, dove so che sarebbero più protetti rispetto a una città come Milano, per esempio” aggiunge che “finita questa esperienza politica, non dovessi trovare lavoro come medico, dovrò andar via.”

Nella mia camera, nella grande casa di Caltanissetta, c’è uno sgabuzzino. Sarà neanche due metri quadri. I pomeriggi invernali, quando finivamo di studiare (o non iniziavamo proprio), i miei amici venivano da me. Avevamo l’intera casa libera e vuota per fare quello che volevamo, ma ci infilavamo nello sgabuzzino con una lampadina e una ventola vortex a fumare.

L’altro giorno sono tornato nello sgabuzzino. I pacchi che dovevo prendere erano proprio lì. Uscendo ho ripensato a quello che mi avevano detto i miei amici, i professori, il vicesindaco. Mi sono ricordato di quando mi chiudevo dentro lo sgabuzzino. Ho pensato che sì, quando sei all’interno, quando sei nel mezzo, è solo una questione di prospettive. Puoi essere al riparo o essere chiuso. Puoi essere centro o periferia. Puoi essere cuore o buco del culo. Dipende, spesso non da te. Sta tutto nel capire da chi, da cosa.

“Eccomi.”

Uscendo dalla città con la macchina sono passato davanti davanti al Bingo e al Mac, con le insegne grandi e luminose. Poi davanti alla statua della Madonna, ho visto che ai sui piedi c’è scritto “Eccomi”. Ho imboccato l’autostrada, e dopo un po’ non c’era più.

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