Cosa succederebbe se l’Italia privatizzasse tutto il suo patrimonio culturale?

Il centro storico di Firenze, patrimonio dell’Umanità nonché città dove i problemi di gestione, privatizzazione e mercificazione dell’arte sono molto vivi (foto di Marcus Obal via Wikimedia Commons)

L’Italia è il paese al mondo con più siti patrimonio dell’Umanità. Fin qui tutto bene, direte. Il fatto è che spesso questo patrimonio artistico inestimabile viene malgestito (quando in mani pubbliche), se non direttamente lasciato andare in rovina e messo nelle mani di pochi privati che invece di preoccuparsi della sua conservazione lo esautorano per mero guadagno.

La questione dei privati—e soprattutto delle organizzazioni for profit che nel 1992, con le privatizzazioni volute dal governo Amato, hanno cominciato a prendere in gestione i beni pubblici—è spinosa: se la macchina statale non è in grado di funzionare viene quasi spontaneo pensare, volente o nolente, che qualcuno debba supplire allo stato. Giusto? Forse. Ma pericolosamente totalitarista.

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Ho contattato Tomaso Montanari, storico dell’arte, professore universitario e editorialista nonché autore del recentePrivati del patrimonio, per capire come siamo arrivati fin qui, perché non ci pare strano quando Franceschini dice che vuole fare show tv nel Colosseo e perché stiamo andando nella direzione di una privatizzazione della gestione dei beni culturali.

I Bronzi di Riace, che con grande scorno di Sgarbi non sono stati trasportati a EXPO (foto via Wikimedia Commons)

VICE: Storicamente, i beni del nostro patrimonio nascono per lo più come privati; poi con la costituzione sono diventati patrimonio della nazione, di tutti, e adesso stiamo andando verso una nuova privatizzazione. Mi pare di capire che non dipenda da destra o sinistra, quanto da un’idea di stato che si sgretola.
Tomaso Montanari: Mi sembra un riassunto piuttosto corretto della situazione. Bisogna solo tenere presente che quando si parla delle case regnanti, i Medici, i Gonzaga, gli Estensi, è difficile parlare di beni privati: era un periodo in cui tra casse della casa della famiglia e casse dello stato non c’era grande differenza. Quelle, per lo meno, erano pubbliche di fatto—poi ovviamente nei musei sono depositate tante opere anche private. Il grande cambiamento è nella funzione, nell’uso che il patrimonio ha assunto nella costituzione. Una funzione civile, di uguaglianza, laddove prima in gran parte serviva a rimarcare e sottolineare le distanze.

Nel suo libro si cita il luogo comune per cui i beni culturali rappresenterebbero “il petrolio” d’Italia. In realtà lei sostiene che i beni culturali non dovrebbero avere una funzione economica, ma di crescita culturale.
[ L’idea di] patrimonio culturale come petrolio d’Italia, una grande ricchezza di tutti che potrebbe riscattare il paese, è vuota retorica: nei fatti finora abbiamo assistito a una trivellazione delle finanze pubbliche, intese come il reddito che una parte del patrimonio poteva dare e come sovvenzioni. Per esempio si continuano a fare le mostre nei luoghi pubblici, ma con le rendite delle mostre si crea patrimonio privato.

Per ora i privati nel patrimonio italiano rappresentano una grande operazione di spolpamento della finanza pubblica, al contrario di quello che si dice. E anche di arricchimento a scapito della cultura, perché sempre più spesso si aprono mostre, per esempio, senza senso.

Ma se lo stato non riesce a provvedere a ospedali e infrastrutture, come possiamo pretendere che provveda al patrimonio culturale? Immagino sia una critica che sente spesso.
Molti la pensano così, è senso comune—il mio è un libro controcorrente da questo punto di vista. La cosa curiosa è che si accusa di ideologia chi ha le mie posizioni, ma io la vedo al contrario: pensare che lo stato sia un’entità metafisica che segue il suo corso immutabile con cui noi non abbiamo nulla a che fare, questa a me pare ideologia. Se lo stato francese ce la fa a mantenere il patrimonio con i soldi pubblici vuol dire che è possibile farlo.

La restaurazione del Colosseo finanziata da Tod’s (foto via Wikimedia Commons)

Parliamo di cosa succederebbe se l’Italia privatizzasse il suo patrimonio culturale: un ruolo centrale sarebbe quello di fondazioni, associazioni culturali e comitati.
Lo stato in smontaggio attribuisce pezzi di patrimonio culturale a istituzioni di diritto privato a cui spesso poi aggrega istituzioni pubbliche per aggirare i vincoli e creare delle sacche di corruzione private—le fondazioni e le associazioni, ma anche altri strumenti. Vengono presentati come panacee, perché al pubblico cattivo si sostituiscono i virtuosi del privato.

È un trend che ha coinvolto alcuni musei, ma che in prospettiva coinvolgerà università, scuole, ospedali: la grande progressiva alienazione delle funzioni fondamentali che la Costituzione affida allo stato. Che si chiamino consorzi, fondazioni o altro, l’idea è di non rispondere a nessuno e di attribuire ciò che è di tutti a una nuova oligarchia che si costituisce proprio in prossimità degli apparati dello stato. È un paradosso.

Quindi la privatizzazione del patrimonio culturale è indice di una tendenza più vasta?
In Italia la costituzione dello stato ha sempre avuto un problema dovuto alla formazione tarda dell’assetto unitario, al Vaticano, alla presenza importante della chiesa cattolica, alla pluralità di tradizione degli antichi stati italiani. Il secondo fattore è lo smantellamento dello stato: un fenomeno che interessa tutta l’Europa, e che a seguito di un’ideologia neoliberista ha espugnato anche la sinistra quasi in tutti gli stati europei. E poi l’autodigestione e scomparsa della sinistra.

Il modello francese, a cui lei faceva riferimento prima, consiste di uno stato forte a cui i privati si affiancano, senza sostituirlo—anche se poi il Louvre qualche scivolone l’ha fatto. Anche il modello inglese pare funzionale, seppure un esito estremo della privatizzazione.
Quello inglese è un modello in cui lo stato si è ormai ritirato ai minimi storici, certo, funziona, ma ricordiamoci che non c’è la costituzione nel Regno Unito. La Francia è un modello vicino a noi come tipo di patrimonio, un patrimonio in parte pubblico, monumentale, le città storiche, ma è anche l’esempio di uno stato che c’è.

Io propongo di riprendere il modello di crowdfunding, di mecenatismo popolare francese, ma anche il modello di repubblica francese. Cioè lo stato deve fare la sua parte. Accanto allo stato, per fare di più, in Francia si riesce a raccogliere con il mecenatismo un miliardo in un anno. Da noi la società autostrade quando ha detto che avrebbe finanziato il mantenimento e la manutenzione dell’Appia antica, la prima cosa che ha fatto lo stato è stato togliere il finanziamento pubblico. Da noi se ci va bene è un gioco a somma pari, se ci va male è a somma negativa.

Abbraccia il Battistero è l’iniziativa promossa dalla Unicoop di Firenze per raccogliere i fondi per il restauro del battistero (foto via)

Quindi l’esito di una privatizzazione del patrimonio pubblico in Italia è la scomparsa dello stato, non un lavoro sincrono tra pubblico e privato. Però leggevo della movimentazione a Firenze per il battistero: in seguito alla polemica per l’apposizione di cartelloni pubblicitari sui ponteggi, la Unicoop si è mossa per rendere l’arte ai suoi cittadini.
Questo è un esempio molto positivo, perché va d’accordo con la nostra costituzione. A Firenze l’Opera del Duomo, una ONLUS proprietaria del battistero e della cattedrale, voleva restaurare il battistero mettendoci sopra le pubblicità di prodotti commerciali perché gli imprenditori pagassero come sponsor. Quando il comune di Firenze ha detto no, in un raro momento di lucidità, gli sponsor si sono tirati indietro perché se non in cambio di riscontro economico non avrebbero fatto nulla.

Allora Unicoop ha deciso di organizzare una raccolta fondi senza marchio, senza sottintesi pubblicitari. Si è innescato un meccanismo di restituzione popolare del battistero, attraverso la conoscenza e il coinvolgimento dei cittadini. Questo è un esempio di azionariato diffuso del patrimonio.

La gestione attuale del patrimonio è affidata alle soprintendenze. È un sistema che funziona?
Le soprintendenze sono un sistema eccellente, se solo lo si mettesse in grado di funzionare. È una straordinaria magistratura del patrimonio e del territorio fondata sulla scienza e la coscienza che per molti anni ha fatto egregiamente il suo mestiere.

Prima si è cominciato a smontarlo tagliando personale, soldi, legittimazione sociale, stipendi, poi si è cominciato a dire che non funzionano, sono burocratiche e Renzi ha scritto nel suo libro che soprintendente è la parola più brutta del vocabolario italiano. Sarebbe come dire che magistrato è la parola più brutta del vocabolario italiano. Io credo che sia un grave errore, anzi un crimine, aver smontato progressivamente le soprintendenze. Anche la riforma voluta da Franceschini, che pure aveva delle buone intenzioni e qualche buona idea, si sta rivelando un disastro.

Nel 2013 il Ponte Vecchio di Firenze è stato affittato alla Ferrari per una cena societaria. La bufera che ne è generata ha toccato sia i temi “etici” della transazione sia i temi “monetari”: il prezzo era stracciato (foto via)

Se stiamo andando in questa direzione di privatizzazione il problema è anche culturale. In Italia la storia dell’arte non si insegna.
La situazione è piuttosto scandalosa anche per colpa della mia corporazione di storici dell’arte universitari, in generale di storici dell’arte. Nel ’44, dopo il bombardamento di Genova, Roberto Longhi che era il più grande storico dell’arte italiano scrisse una bellissima lettera al suo migliore allievo Giuliano Briganti dicendo “è colpa anche nostra se non si è protetto bene il patrimonio artistico italiano durante la guerra, avremmo dovuto spiegare bene agli italiani cosa c’era da proteggere. Avremmo dovuto essere popolari.” Lo diceva nel ’44. Non lo siamo mai stati popolari, siamo stati sempre aristocratici, elitari, oppure siamo passati allo svacco totale delle mostre, dall’etilismo al marketing di massa senza alcun valore culturale.

Nemmeno gli storici dell’arte hanno ben capito che la loro funzione non è quella di fare gli esperti più o meno prezzolati attaccati al carro della politica, ma è quella di lottare e dare ai cittadini italiani gli strumenti per lottare, che sono gli strumenti della conoscenza.

Cosa possiamo fare allora per scongiurare una mercificazione completa del nostro patrimonio culturale? Mi pare di capire che le soprintendenze siano alla base della sua proposta per il futuro.
Credo che il modello italiano quando funzionava ibridato con certi aspetti di quello francese potrebbe essere ottimale. Non occorrono grandi riforme, basta fare funzionare quello che abbiamo. Bisognerebbe spendere per il patrimonio culturale almeno quanto spende la media degli stati dell’Unione Europea, questo risolverebbe il 90 percento dei problemi. Poi c’è un problema di formazione del personale, io ho proposto di istituire una scuola del patrimonio, un istituto del patrimonio.

La retorica delle riforme, che sta distruggendo l’ordinamento politico italiano, non serve. La banalità è quella di far funzionare l’esistente che avevamo costruito. La vera rivoluzione sarebbe la capacità di educare e coinvolgere i cittadini italiani nell’amore e nella conoscenza del patrimonio. L’unica rivoluzione di cui c’è bisogno è questa.

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