Dietro l’incredibile ascesa dell’hijab porn

Mia Khalifa. Immagine

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L’anno scorso, la casa di produzione pornografica statunitense BangBros ha diffuso un filmato che aveva come protagonisti un “motociclista,” la sua “fidanzata mediorientale” e la “matrigna” di lei—entrambe indossavano il velo. Inutile dirlo, nel video i tre non stavano seduti a tavola a discutere della questione mediorientale. Scopavano.

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Lo stesso titolo era abbastanza esplicito: Mia Khalifa Is Cumming for Dinner, un gioco di parole sulla celebre commedia americana Indovina Chi Viene A Cena, che affronta la tematica del “matrimonio interraziale” e che, per l’epoca, era abbastanza rivoluzionaria. Probabilmente BangBros sapeva che quel tipo di interazione messo in scena non sarebbe piaciuto a tutti. Di fatto, anche dal suo punto di vista era stata una scommessa.

La stessa Mia Khalifa—la pornostar protagonista del video, nata in Libano ma cresciuta e residente negli Stati Uniti—sapeva o intuiva che quella scena avrebbe potuto scandalizzare qualcuno. Ha scelto di girarla proprio per questo motivo? Ho cercato di mettermi in contatto con lei e col sito che la rappresenta, PornHub, ma quest’ultimo ha preferito non commentare.

Nel giro di pochi mesi, Khalifa è diventata una specie di simbolo dell’industria pornografica americana—superando persino Lisa Ann, ritiratasi di recente, come pornostar più apprezzata su PornHub. In un’era in cui il porno su internet è dominato dai siti di streaming gratuito, non c’è riconoscimento migliore. E Khalifa deve gran parte di questo successo a quella scena in cui indossa l’hijab.

Come prevedibile, l’utilizzo del velo islamico—che in quel caso non era niente più che una provocazione—ha scatenato l’indignazione popolare. In molti, su Twitter, hanno riempito Khalifa di insulti, mentre qualcuno è passato alle minacce. Un tizio ha persino trovato il tempo di photoshoppare la faccia di Khalifa su un corpo con una tuta arancione, in un chiaro riferimento alle decapitazioni dell’ISIS.

Anche la sua famiglia è stata coinvolta nel dibattito. “È il prezzo da pagare per aver vissuto lontano dal nostro paese; i nostri figli si sono dovuti adattare a una società che non condivide la nostra cultura, le nostre tradizioni e i nostri valori… Speriamo che lei possa ritornare sui suoi passi, dato che la sua immagine disonora sia la nostra famiglia che il Libano.”

Dal canto suo, Khalifa sembra averla presa bene, forse perché i suoi fan continuano ad aumentare e il duo americano Timeflies le ha persino dedicato una canzone con più di 1,4 milioni di click su SoundCloud. A un tizio che minacciava di tagliarle la testa, ha risposto così: “Meno male che non vuoi staccarmi le tette. Quelle mi sono costate un bel po’.” A un altro, che le ha detto che sarebbe “andata all’inferno,” ha risposto, “In effetti avrei bisogno di prendere un po’ di sole in questo periodo.”

Anche se sembra aver preso la cosa alla leggera, in varie interviste Khalifa—che non è musulmana—ha detto che prima di realizzarla non poteva immaginare la quantità di implicazioni culturali conseguenza di quella scena. Ha raccontato al Washington Post che la scena con l’hijab era “satirica” e che “i film di Hollywood dipingono i musulmani in modo di gran lunga peggiore rispetto a qualsiasi scena potrà mai produrre la BangBros.”

Alla fine, ha cercato di risolvere la questione con un tweet: “Il Medio Oriente non ha cose più importanti a cui pensare? Tipo trovare un presidente o contenere l’ISIS?”

Preso nel suo contesto, tutto questo dibattito sembra solo uno spreco di byte e tempo. Ma che lo vogliate o no, quel video continuerà a far discutere. A gennaio, la regista pornografica Jacky St James è stata intervistata da Salon ed etichettata come “La donna che ha conquistato il mondo del porno.” Nell’intervista ha detto di ritenere che la scena di Khalifa abbia “tutte le caratteristiche di una trovata pubblicitaria” che “ha chiaramente raggiunto il suo scopo, ossia scatenare una polemica.” Ma non è convinta del fatto che l’uso dell’hijab nel mondo del porno possa diventare una moda.

“Dipenderà solo da quanto venderà,” ha detto. “Con tutta la pirateria che affligge il settore di questi tempi, la sopravvivenza di generi e mode dipende solo da questo.”

Ma alcuni settori dell’industria pensano che possa funzionare, come suggerisce il moltiplicarsi di scene del genere. Prima c’è stata quella di BangBros. Poi, a febbraio, l’attrice Chloe Amour ha interpretato una donna degli Emirati in una scena per Fantasy Massage (in cui insiste per avere una massaggiatrice, finisce per ottenere un massaggiatore uomo e indovinate dove si va a parare). Il mese scorso, infine, TeamSkeet ha pubblicato Cream Filled Middle Eastern Beauty.

Molte di queste scene giocano sull’idea delle donne mediorientali oggetti sessuali innocenti ma allo stesso tempo obbedienti e devote, succubi dell’uomo e disposte a esaudire ogni suo desiderio—che, nella maggior parte dei casi, si riduce a un pompino. In tutti questi video l’hijab viene usato come un simbolo, per indicare che la donna in questione è “mediorientale,” e di conseguenza, senza troppe sottigliezze o senso della realtà, sessualmente repressa, pronta e vogliosa di concedersi al “padrone” occidentale.

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Ma si può considerare l’hijab unicamente come un accessorio scenico, come un costume da cheerleader o un paio di occhiali da segretaria? Visto il continuo dibattito sul velo, la religione e i diritti delle donne in Medio Oriente, non è un po’ difficile vedere l’hijab fuori contesto?

I commentatori del forum di Adult DVD Talk non sembrano pensarla così. “Finché i musulmani saranno così severi in fatto di sessualità, ci sarà sempre mercato per questo tipo di porno,” ha scritto un utente che risponde al nickname “Bellens.”

Ma su cosa si basano gli stereotipi secondo cui il Medio Oriente, in fatto di sessualità, sarebbe una landa desolata? “Per quanto mi riguarda, la supposta licenziosità dell’Occidente sarà sempre in contrasto, e in molti modi, con l’aridità sessuale del Medio Oriente,” ha detto a Salon nel 2010 John R. Bradley, autore di Behind the Veil of Vice: The Business and Culture of Sex in the Middle East.

Behind the Veil of Vice, ha spiegato, era un tentativo di minare le fondamenta “degli stereotipi sulla sessualità nel mondo arabo che hanno attecchito nel mondo occidentale” e di “sfatare l’idea, diffusa da gente come Martin Amis, che il terrorismo islamico possa essere spiegato semplicemente come reazione a una repressione sessuale, in termini di maschi arabi invidiosi che scaricano la loro tensione sessuale facendo schiantare degli aerei contro grattacieli dalla forma fallica.”

Il libro afferma che guardare video porno “non è più una cosa così strana per i giovani del Medio Oriente, non più strana di quanto non lo sia per i giovani americani” e che “chiunque in Medio Oriente ha un collegamento satellitare può guardare porno.” Ci sono delle statistiche che lo provano. Secondo i dati raccolti da Google, sei dei paesi dove si fanno più ricerche su tematiche riguardando il mondo del porno sono a maggioranza musulmana (Pakistan, Egitto, Iran, Marocco, Arabia Saudita e Turchia). Nel 2014, i dati sulla chiave di ricerca più popolare per quanto riguarda il porno riflettono l’ascesa dell’hijab—che è stata la quarta parola più cercata in Marocco e la quinta più cercata in Algeria.

Per cui, la domanda c’è. Digitando la parola “hijab” nella tab di ricerca di Pornhub o xvideos si trovano un sacco di video di donne velate—un po’ fatti con la webcam, un sacco di video amatoriali e diversi video di studi di produzione a basso budget. “In tutto il mondo arabo, molti uomini e donne non si limitano a guardare i porno, ma si filmano mentre fanno sesso o si masturbano e pubblicano i video su internet,” ha scritto di recente Eyal Sagui Bizawe in un articolo sull’argomento pubblicato dal quotidiano israeliano Haaretz. “Questi video vengono visti da arabi di diversi paesi, persone che vogliono vedere porno nella loro lingua e sono stanche del modello di bellezza rigido e monotono propagandato in Occidente.”

I contenuti di questo tipo, creati dagli utenti stessi e pubblicati su piattaforme come Vine e Periscope, sono l’antitesi dei porno prodotti in studio. Non c’è un mercato né un profitto. C’è solo il contenuto, creato da una persona per un’altra persona e spesso condiviso in segreto o involontariamente. Non c’è alcuna repressione, solo pura e semplice rappresentazione.

“A prescindere dall’opinione che si può avere sul velo, ci sono milioni di donne che lo indossano, per cui la sua presenza nei porno dimostra solo la diversità degli esseri umani,” mi ha detto la dottoressa Chaunelle Tibbals, sociologa e autrice del libro—di prossima uscita—Exposure: A Sociologist Explores Sex, Society, and Adult Entertainment.

Ma possiamo dire davvero che la presenza dell’hijab nel mondo del porno—anche in quelli amatoriali—ci aiuti ad avere un’idea meno stereotipata della sessualità femminile in Medio Oriente (posto che non tutti i mediorientali sono musulmani e che una donna musulmana non indossa sempre il velo, e quasi certamente non lo fa a letto)?

“Sì, e se tra queste persone vere che producono porno amatoriali ci sono anche—per esempio—delle donne mediorientali, allora queste rappresentazioni ci mostrano alcuni aspetti della loro sessualità,” ha continuato Tibbals. “Anche solo il fatto che ci sono persone interessate al porno in zone del mondo dove noi occidentali non pensiamo che possano esserci.”

I produttori di BangBros hanno girato Mia Khalifa Is Cumming for Dinner per fare soldi giocando sugli stereotipi occidentali. Ma prestandosi a questo prodotto, Khalifa ha scatenato un dibattito che ha messo in luce anche le contraddizioni di questi stereotipi.

“L’industria pornografica è molto più sfaccettata di quanto le persone non comprendano,” ha detto St James. “Ci sono categorie che valorizzano una grande varietà di aspetti femminili: la taglia, la grandezza del seno, le dimensioni del sedere, la razza, i tatuaggi, l’età.” Insomma, il porno non è più solo la bionda slavata con le tette giganti che fa pratiche sessuali estreme. Come ha detto St James: “Quel modello non è più una rappresentazione fedele dell’industria pornografica.”

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