Come Milano ha abbandonato le sue periferie

Il sottopassaggio di Bonola. Foto di Stefano Santangelo.

Sono nato e cresciuto in una zona all’estrema periferia nord-ovest di Milano, il quartiere Gallaratese—conosciuto anche come Bonola, dal nome del mastodontico centro commerciale che rappresenta l’unico punto di aggregazione degno di questo nome nel raggio di chilometri. Il Gallaratese è uno dei quartieri più grandi costruiti ex novo in Italia. Quando i miei nonni si sono trasferiti a Milano dalla Basilicata, dove oggi ci sono i palazzoni di dieci piani c’erano le pecore e il corso fetido dell’Olona; negli anni Sessanta, entrambi hanno dovuto lasciare spazio a un nuovo quartiere fatto quasi solo di case popolari, pensato per ospitare circa 60.000 persone.

Schiacciato tra la tangenziale ovest, il cimitero maggiore, il Monte Stella e l’enorme parco di Trenno, fin da piccolo ho sempre percepito il quartiere come un luogo a sé stante, parte della città solo da un punto di vista formale. Non sono mai uscito da qui fino al mio primo giorno di liceo. Crescendo, ho scoperto che anche i ragazzi di altri quartieri periferici di Milano—dai relativamente vicini Baggio e Quarto Oggiaro al più distante Barona—avevano la mia stessa impressione.

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Le case popolari di via Ardissone, in

zona piazza Prealpi.

Del resto, quasi tutte le periferie di Milano sono nate nello stesso periodo—tra gli anni Cinquanta e Sessanta—per far fronte alla grande ondata migratoria proveniente dal Meridione. E quasi tutte sono cresciute sulla spinta di una forsennata e irrazionale speculazione edilizia, trasformandosi molto spesso in quartieri dormitorio isolati dal resto della città.

È proprio da questo isolamento che nasce il senso di appartenenza che i ragazzi di questi luoghi sviluppano per il posto dove sono nati e cresciuti—testimoniato dal fatto che praticamente ogni quartiere periferico di Milano ha il suo inno, che sia una canzone di Marracash o un video di gente che balla in piazza sgasando coi motorini. Da questo punto di vista, le periferie si assomigliano un po’ tutte.

Il parcheggio della stazione di Bisceglie, a

Baggio.

Durante gli anni di piombo, questi quartieri a maggioranza operaia erano tra i più politicizzati—e pericolosi—della città. Mio padre mi racconta spesso di come all’epoca, quando non c’era ancora la metropolitana e l’unico collegamento con il resto della città era una linea di autobus che terminava la corsa al calar del sole, persino i tassisti evitassero di entrare in zona. Anche negli altri quartieri era così: Baggio ha una lunga tradizione di antifascismo, mentre è tra Lorenteggio e Quarto Oggiaro che si sono costituite le Brigate Rosse. Per quanto riguarda il Gallaratese, è possibile che i racconti di mio padre siano un po’ esagerati, ma le varie testimonianze di gente sprangata a pochi metri dal portone di casa mia sono abbastanza evocative, così com’è evocativa la lapide in memoria di un attivista di sinistra che sorge ancora oggi, poco distante dalla fermata della metropolitana.

Lo scheletro di quella che sarebbe dovuta essere la nuova stazione di

San Cristoforo.

Col tempo, però, i protagonisti di quella stagione sono morti o invecchiati, e il maggior benessere economico ha favorito il deteriorarsi della coscienza sociale dei residenti. Quando non sono cadute nelle mani di mafia e ‘ndrangheta, queste zone si sono trasformate da quartieri-dormitorio a quartieri-ospizio. È quello che è successo nel Gallaratese, dove ci sono ben cinque parrocchie, dieci farmacie e due strutture per anziani, ma neanche un locale che rimanga aperto di sera.

Tutto ciò non ha fatto che accrescere l’isolamento di queste zone. I collegamenti con il resto della città sono stati ridotti e gli autobus di quartiere sono stati soppressi dopo le dieci di sera, oppure non arrivano più fino al capolinea perché i conducenti hanno paura di venire aggrediti. Allo stesso tempo si è dato nuovo impulso all’edilizia popolare, di pari passo alla riqualificazione di determinate zone più o meno centrali che, in vista di Expo, sono state riempite di grattacieli residenziali fuori mercato—come quelli di City Life, da 8.000 euro al mq, in zona Amendola.

Via Terzaghi, a QT8

Anche stavolta, però, si è costruito secondo gli stessi criteri: palazzoni orrendi in zone prive di servizi, isolate e dove il racket delle occupazioni abusive è un fenomeno endemico. È il caso delle nuove abitazioni popolari di via Appennini, nel Gallaratese, sorte a due passi dai palazzoni di via Bolla, dove la metà degli inquilini sono abusivi, i pochi regolari pagano bollette della luce enormi per via degli allacci abusivi e pare persino che i consiglieri di zona facciano da tramite tra chi gestisce il racket e chi cerca casa. A detta di chi le ha progettate, le popolari di via Appennini sono luoghi dove “il concetto di abitare non si estingue nella superficie minima dell’appartamento ma si estende agli spazi comunitari,” ma questi fantomatici “spazi comunitari” sono un giardinetto desolato, un centro commerciale a quasi un chilometro di distanza, e un sushi—di cui i ragazzini della zona si divertono a prendere a sassate le vetrine un giorno sì e l’altro pure.

Le nuove

case popolari di via Appennini, nel Gallaratese.

Tutto questo mentre molte zone periferiche di Milano sono piene di ruderi, palazzi abbandonati da anni o mai finiti. Me ne sono accorto passando un paio di giorni in giro per i vari quartieri della periferia ovest, parlando con residenti e visitando i luoghi simbolo delle varie zone, che in molti casi sono anche il simbolo del loro abbandono—è il caso di strutture come l’ex mercato comunale di QT8, l’ex Palasharp a Lampugnano, l’Istituto Marchiondi a Baggio e quella che doveva essere la nuova stazione di San Cristoforo a Lorenteggio.

QT8, un quartiere periferico costruito nel 1947 in occasione dell’ottava triennale di Milano, doveva essere un quartiere modello, fatto di villini a due o tre piani, strade pedonali e parchi, ma per la scarsità di servizi—in tutto il quartiere non c’è un solo negozio, né una banca—si è trasformato in una zona morta. Il mercato comunale, l’unico spazio comunitario del quartiere oltre alla chiesa, è fallito ed è rimasto abbandonato: da mesi ci vivono dei senzatetto e girano voci che vi si tengano combattimenti clandestini di cani. Sono andato a vedere con i miei occhi, ma sono stato costretto ad andarmene quando un tizio si è messo a urlarmi addosso e mi ha aizzato contro il suo cane.

L’ex mercato comunale di QT8.

Molto simile è stato il destino del Palasharp, tensostruttura “temporanea” rimasta in piedi per decenni con vari nomi, che un tempo ospitava concerti e feste dell’Unità. Per qualche tempo è stato usato come luogo di culto dalla comunità musulmana milanese e poi è stato abbandonato; oggi se ci si passa di fronte si ha la sensazione di trovarsi all’interno di una puntata di The Walking Dead. La giunta Moratti voleva farne “il nuovo polo dello sport milanese,” dopo la vittoria di Pisapia si era deciso di demolirlo in vista dell’Expo, ma è ancora lì. Secondo alcune testimonianze, sarebbe diventato un rifugio di eroinomani e senzatetto, ma non sono entrato a controllare.

Il

Palasharp.

Sono invece entrato nell’Istituto Marchiondi, a Baggio—o in quel che ne rimane. Costruito negli anni Cinquanta, è considerato un capolavoro dell’architettura brutalista italiana, tanto che il plastico dell’edificio è esposto al MoMA di New York. È stato prima un riformatorio, poi un centro di formazione professionale e poi, all’inizio degli anni Novanta, è stato abbandonato. Nel 2009, un campo rom sorto nel frattempo nelle vicinanze è stato sgomberato: c’era un progetto di recupero della struttura che avrebbe dovuto ospitare la nuova sede della facoltà di architettura del Politecnico di Milano e uno studentato da 200 posti, ma alla fine non se n’è fatto più nulla per i costi eccessivi.

L’interno dell’

ex riformatorio Marchiondi, a Baggio

Oggi, è uno scenario post-apocalittico degno di La Terra dopo l’uomo. Tra calcinacci, soffitti crollati e finestre rotte, l’unica traccia di presenza umana nell’edificio è rappresentata da alcune scritte sui muri di ispirazione fascista risalenti agli anni Settanta e Ottanta, svastiche e inviti a votare l’MSI.

Scritte all’interno

dell’ex riformatorio Marchiondi, a Baggio.

Parlando con i residenti della zona, ho avuto la conferma che il lento emergere di tendenze criptofasciste non è un fenomeno in atto solo nel mio quartiere, ma anche in molte altre periferie milanesi—anche se, di zona in zona, assume caratteristiche diverse. In quartieri come il mio e come Baggio, le nuove generazioni hanno seguito un percorso di crescita più o meno simile: figli della classe media, con i genitori laureati, cresciuti in luoghi isolati e abbandonati a loro stessi, dove gli unici punti di ritrovo e gli unici spazi di aggregazione sono gli oratori. Se sviluppano tendenze estreme è per reazione a tutto questo; non è un caso che i principali movimenti di estrema destra a Milano abbiano tutti sede in periferia—Casa Pound a Quarto Oggiaro, Lealtà e Azione a Bollate—così come non è un caso che, nel mio quartiere, molti ragazzi dell’oratorio ostentino simpatie di un certo tipo—quando non proprio tatuaggi di Mussolini. Non è un caso nemmeno se ogni tanto, sulle auto della zona, compaiono dei volantini del Movimento Fascismo e Libertà.

Le case popolari in via Gigante, in

zona San Siro.

Stando a uno studio, Milano è la città italiana con la più alta presenza straniera, il 17,4 percento degli abitanti, e con la più alta concentrazione di immigrati in periferia, il 95 percento del totale—eppure, in questi quartieri, a far presa non è tanto la retorica anti-immigrazione, quanto quella dell’antipolitica.

“In molti quartieri periferici di Milano la presenza di immigrati è un fenomeno diffuso e radicato, molti dei ragazzi sono di seconda generazione,” mi ha detto un ragazzo di Baggio che frequenta gli ambienti del centro sociale Soy Mendel. “Questo genere di argomenti qui non fanno tanto presa per questa ragione.” A suo dire, l’unica zona in cui la retorica anti-immigrazione sembra funzionare è quella di Loreto e di via Padova—proprio in questa zona, in piazza Aspromonte, ha sede la sezione milanese di Forza Nuova.

L’ex gasometro della Bovisa.

Al di là di questo, la cosa che più colpisce se si fa un giro panoramico delle periferie milanesi è il comportamento delle istituzioni: sembra infatti che dietro la gestione degli spazi cittadini ci sia una specie di progetto politico—che diventa palese se si osserva la differenza tra come si è costruito, ad esempio, in Porta Nuova e come si costruisce in periferia.

Mentre le zone intorno al centro vengono riqualificate e gentrificate, la periferia diventa il luogo in cui spostare ogni possibile causa di disagio e conflitto sociale. In queste zone, la presenza di tensioni sociali è usata per creare consenso, legittimare e perpetuare questa politica di separazione.

Al contempo, nell’ambito dello stesso progetto per ripulire l’immagine della città si cerca di nascondere la polvere sotto il tappeto intervenendo sui luoghi più degradati—come il parcheggio della stazione di Bisceglie, dove andavamo a comprare l’erba da ragazzini e che fino a pochi anni fa era letteralmente tappezzato di siringhe—e osteggiando apertamente tutte le iniziative sociali sorte dal basso come reazione a questa situazione.

È anche per questo motivo che, nell’ultimo periodo, si è dato nuovo impulso agli sgomberi: da quelli delle case Aler occupate a San Siro, Giambellino e Lorenteggio, a quelli di vari centri sociali, tra cui lo stesso Soy Mendel, sgomberato questo mercoledì. Così, isolate dal resto della città, prive di servizi e attrattive, le periferie milanesi vengono ridotte a discariche a cielo aperto dove mettere tutto ciò che potrebbe disturbare la vista del Bosco Verticale.

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