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Da Bolzaneto a Santa Maria Capua Vetere: vent’anni di tortura in Italia

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In occasione del ventennale dei fatti del G8 di Genova, abbiamo deciso di dedicare una serie di articoli e approfondimenti a quella che ancora oggi rimane una delle pagine più nere della storia d’Italia.

Per tutta la durata del G8 di Genova di vent’anni fa, la caserma di Bolzaneto si era trasformata in una prigione degna di un regime militare.  

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L’elenco delle angherie subite dalle centinaia di persone fermate (spesso illegalmente) è sterminato: posizioni vessatorie da tenere per ore, come quella della “ballerina” (sulle punte dei piedi o su una gamba sola); pestaggi seriali e ripetuti; percosse ai genitali; “corridoi umani” dentro i quali i prigionieri venivano massacrati dagli agenti; insulti a sfondo sessuale e razzista; costrizione a inneggiare al fascismo, al nazismo e alla dittatura di Pinochet… Agli arrestati provenienti dalla “macelleria messicana” della Diaz è stato riservato un ulteriore trattamento: la “X” sul viso col pennarello, una “marchiatura” per identificarli in mezzo agli altri.

Per la Corte Europea dei Diritti Umani, quello che è accaduto dentro Bolzaneto ha un solo nome: tortura. La giustizia italiana, però, non ha potuto contestare quel reato perché ancora non era contemplato nel codice penale. Il risultato è che molti responsabili non sono mai identificati o sono stati salvati dalla prescrizione.

A vent’anni di distanza da quei fatti, è impressionante constatare come gli abusi e le torture di una parte delle forze dell’ordine continuino a far parte della realtà—e anzi, in alcuni casi abbiano raggiunto una gravità simile a quella di Bolzaneto, soprattutto in carcere.

“La tortura è ancora una pratica di sistema,” mi ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. “Ed è di sistema quando le istituzioni tutte non prendono le distanze da quanto accaduto, quando lo spirito di corpo prevale sulla dignità della persona e il rispetto dell’habeas corpus, quando si commettono atti di questo tipo contando che ‘tanto la si fa franca’.”

Tuttavia, almeno un cambiamento significativo dal punto di vista legale c’è stato. Dal 2017 l’Italia infatti prevede il reato di tortura, anche se il testo non ha rispecchiato tutte le aspettative: e infatti, diverse associazioni per i diritti umani non lo ritengono del tutto adeguato e conforme alla Convenzione Onu.

Da quando è entrato in vigore, comunque, sono stati aperti diversi procedimenti penali in tutto il paese—alcuni arrivati al primo grado, altri ancora fermi alle udienze preliminari o alle indagini. Basandomi su un recente dossier compilato dall’Associazione Antigone, qui di seguito ne ripercorro alcuni.

La prima condanna per tortura al carcere di Ferrara

Nel gennaio del 2021, per la prima volta dall’introduzione del reato, un agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere di Ferrara è stato condannato in primo grado a tre anni di reclusione per tortura.

I fatti risalgono a settembre del 2017. Secondo la ricostruzione, tre poliziotti (il condannato e altri due, anche loro sotto processo) entrano nella cella d’isolamento in cui si trova un detenuto per una perquisizione. Uno di questi si mette di guardia nel corridoio; all’interno i colleghi fanno inginocchiare il recluso, lo ammanettano e lo picchiano selvaggiamente.

Al termine del pestaggio, gli agenti si allontanano lasciandolo ammanettato e senza prestare alcuna cura. Significativamente tra gli indagati figura anche l’infermiera del carcere, accusata di favoreggiamento e falso per aver dichiarato di aver visto il detenuto sbattere la testa contro la porta blindata della cella.

I dieci agenti condannati per tortura al carcere di San Gimignano

Un mese dopo la sentenza di Ferrara, altri dieci agenti—questa volta in servizio al carcere di San Gimignano (Siena)—sono stati condannati in primo grado per tortura.

I poliziotti erano accusati di aver picchiato un detenuto durante il trasferimento da una cella all’altra, nel 2018. L’uomo è stato trascinato per il corridoio del reparto d’isolamento e preso a pugni e calci. “Sentivo le urla,” ha raccontato un altro detenuto, “poi lo hanno lasciato svenuto [in un’altra cella]. Il giudice ha parlato di un “trattamento inumano e degradante” e di “crudeltà.”

Oltre agli agenti è stato condannato anche un medico del carcere perché si era rifiutato di visitare e refertare il detenuto abusato.

Le torture dei carabinieri della caserma “Levante” di Piacenza

Un’altra condanna per tortura è arrivata più recentemente, e si riferisce alla nota inchiesta sui carabinieri della caserma “Levante” di Piacenza—integralmente sequestrata lo scorso anno con una decisione giudiziaria senza precedenti.

I cinque carabinieri (su un totale di oltre venti imputati) che hanno scelto il rito abbreviato sono stati ritenuti colpevoli di una sfilza impressionante di reati. Quello che era ritenuto il capo della banda, l’appuntato Giuseppe Montella, da solo ne aveva ben sessanta.

Secondo l’accusa, poi confermata dalla sentenza di primo grado, gli agenti avevano allestito un vero e proprio “sistema parallelo” fatto di traffico di sostanze stupefacenti, minacce, copertura dei pusher amici, arresti illegali per gonfiare le statistiche, e per l’appunto tortura nei confronti di alcune persone fermate.

Come aveva sottolineato la procuratrice Grazia Pradella dopo gli arresti, “tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi nel lockdown. Faccio fatica a definire questi soggetti ‘carabinieri’, perché i comportamenti sono criminali.”

“Tu devi morire qui”: il carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino

Nell’autunno del 2019 sei agenti della polizia penitenziaria del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino sono messi ai domiciliari con l’accusa di tortura. In tutto, gli indagati per quel reato (e altri illeciti) salgono a 25. Anche il direttore del carcere finisce tra gli indagati, accusato di favoreggiamento personale e omessa denuncia: sapeva, ma avrebbe coperto le condotte dei poliziotti.

In base all’inchiesta, che riguarda fatti avvenuti tra il 2017 e il 2019, le guardie carcerarie si sfogavano soprattutto sui detenuti più fragili. Questi venivano picchiati tra le risate, obbligati a spogliarsi e ripetere frasi come “sono un pezzo di merda” o “tu devi morire qui.”

A un detenuto è stato rotto il naso, quasi sfondata l’orbita di un occhio e spezzato di netto un incisivo superiore. Quando poi i reclusi erano troppo malconci e dovevano farsi visitare in infermeria, gli agenti li costringevano a mentire e dichiarare che erano stati altri detenuti a picchiarli.

L’indagine era partita da una segnalazione del Garante dei detenuti del Piemonte, Monica Gallo, che aveva raccolto testimonianze e voci che circolavano all’interno della struttura. Al momento dev’essere ancora fissata la prima udienza preliminare.

“Estrema crudeltà”: i fatti nel carcere di Sollicciano

Nel giugno del 2021 la procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti di polizia penitenziaria e due medici, di servizio al carcere di Sollicciano (Firenze). Le accuse contestate a vario titolo sono quelle di tortura e falso in atto pubblico. A gennaio dello stesso anno tre agenti erano finiti agli arresti domiciliari.

L’inchiesta è partita nel 2019 dalla denuncia di un’ispettrice, che aveva sostenuto di essere stata aggredita da un detenuto. In realtà, era tutto falso. Come ricostruito dagli inquirenti, erano gli agenti ad aver picchiato “un uomo solo, inerme, ultracinquantenne e di costituzione esile agendo, nell’arco di un’ora, con estrema crudeltà”.

Per la paura il detenuto si era orinato addosso, ma gli agenti non gli avevano consentito di lavarsi e cambiarsi. L’uomo è stato inoltre rinchiuso in una cella di isolamento e senza vestiti.

L’“orribile mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

L’ultimo caso preso in esame riguarda quello del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta).

Il 5 aprile del 2020, nel pieno della prima ondata della pandemia, circa 150 detenuti si impossessano delle chiavi di sei sezioni e le occupano per protesta a seguito di alcuni casi di contagio. Dopo lunghe trattative, all’alba del giorno dopo si ristabilisce l’ordine.

Nel pomeriggio, però, 300 agenti entrano nel padiglione Nilo per eseguire una “perquisizione straordinaria”—in realtà una selvaggia spedizione punitiva.

I detenuti vengono fatti inginocchiare in uno stanzone, picchiati e umiliati. Come si vede dai video pubblicato dal quotidiano Domani, alcuni sono costretti a passare in mezzo ai famigerati “corridoi”, dove vengono tempestati di calci, pugni e manganellate. Persino un disabile in sedia a rotelle viene colpito con i manganelli.

Nelle chat private, gli agenti dicono cose come “li abbattiamo come vitelli” e “domate il bestiame.” Stando a una testimonianza, una guardia avrebbe detto a un detenuto: “questo è Santa Maria, il capolinea. Qui ti uccidiamo.”

L’inchiesta è partita dopo le denunce delle famiglie dei detenuti e gli esposti di Antigone. A giugno del 2020 la procura ha notificato avvisi di garanzia a 44 agenti per tortura, abuso di potere e violenza privata; alcuni di questi salgono sul tetto del carcere in segno di protesta. Un anno dopo, il 28 giugno del 2021, ben 52 agenti sono raggiunti da misure cautelari per quella che il gip definisce nell’ordinanza una “orribile mattanza.”

Per Antigone, quella avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è “una delle più gravi violazioni dello stato di diritto nella storia repubblicana del paese.”

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