Il celebre slogan della “Milano da bere” ha influenzato l’immaginario ben oltre gli anni Ottanta, e quel mito riecheggia ogni volta che si parla di una città frenetica, dinamica, all’avanguardia in tutti i campi; il centro morale, economico e internazionale del paese, insomma.
Ma prima di tutto ciò, negli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta Milano era una “capitale del crimine” attraversata da ogni tipo di criminale. Praticamente ogni giorno c’erano rapine, evasioni, sequestri di persona e omicidi: la situazione era così esplosiva, selvaggia e fuori controllo che i giornali dell’epoca paragonavano Milano alla Chicago degli anni Venti del secolo scorso.
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Sebbene si tratti di un passato non troppo remoto, è stato praticamente rimosso dalla memoria collettiva della città. E chi è nato dopo ne sa poco o nulla, anche perché a livello cinematografico o audiovisivo la produzione non è poi così vasta.
Recentemente è uscita una docuserie che prova a colmare questo vuoto: si chiama La Mala. Banditi a Milano ed è andata in onda su Sky, dove si può ancora vedere on demand. È stata diretta da Chiara Battistini e Paolo Bernardelli (autore di Sanpa), che hanno anche curato la sceneggiatura insieme al giornalista Salvatore Garzillo.
Come mi ha spiegato Battistini in una conversazione su Zoom, l’idea è nata “mentre stavamo sfogliando un libro dell’archivio del quotidiano La Notte, e da lì è partita la ricerca delle immagini e dei superstiti che potessero testimoniare in prima persona.” Bernardelli ha aggiunto che volevano anche “capire cos’era di mitologico e di reale in quell’epoca, perché le due cose si fondono in maniera anche aggressiva.”
Il documentario, attingendo a un vasto materiale d’archivio e con interviste inedite, ripercorre in cinque episodi la “storia criminale della città” dal 1970 al 1987 concentrandosi sulle storie di tre banditi—Angelo Epaminonda detto “il tebano,” Francis “faccia d’angelo” Turatello e Renato Vallanzasca, soprannominato “il bel Renè”—su chi ha dato loro la caccia, ossia poliziotti e magistrati, e sui giornalisti che hanno raccontato quella fase convulsa.
Qui di seguito ho raccolto i cinque episodi più significativi e meno noti della malavita milanese, consultandomi anche con Battistini e Bernardelli.
Renato Vallanzasca ha formato la sua banda attraverso evasioni e assalti alle prigioni
Uno dei protagonisti indiscussi del documentario (nonché uno degli intervistati) è per l’appunto Renato Vallanzasca, che attualmente si trova nel carcere di Bollate a scontare quattro ergastoli. Per Bernardelli, se una storia del genere “l’avessero avuta gli americani ci avrebbero fatto almeno dieci serie.”
Cresciuto nel quartiere Giambellino, Vallanzasca inizia la sua carriera criminale da adolescente. A 17 anni finisce al carcere minorile Beccaria, mentre nel 1972 (ad appena 22 anni) è arrestato per la rapina in un supermercato di viale Monterosa insieme ad altri complici. Nel 1976 mette a segno la sua prima evasione dall’ospedale Bassi, dove si era fatto ricoverare per una finta epatite virale.
Da latitante inizia ad assemblare la sua banda (che i quotidiani chiamano “la gang dei drogati”) attraverso evasioni e assalti alle carceri. Lo stesso Vallanzasca racconta nel documentario che “sono andato a prendere i detenuti per portarli fuori dal carcere, perché se mi faccio la batteria […] doveva essere imbattibile.” In brevissimo tempo, la cosiddetta “banda della Comasina” mette a segno decide di rapine e lascia dietro di sé una lunga scia di sangue.
La statura criminale di Vallanzasca diventa subito leggendaria, e per vari motivi: oltre a essere molto efficiente sul campo, coltiva con attenzione la sua immagine di bandito “romantico” e piacente—una sorta di ultimo erede della “ligera”, la prima malavita milanese del Dopoguerra—ma al tempo stesso sfrontato e senza paura. Il mito è cementato anche dalle sue incredibili evasioni (come quella dall’oblò di un traghetto nel 1987) e da gesti provocatori e inauditi, tra cui l’intervista telefonica a Radio Popolare mentre è ricercato.
Nonostante ciò, Vallanzasca è stato capace di crimini davvero brutali: su tutti l’omicidio di Massimo Loi, ucciso nel 1981 nel carcere di Novara perché aveva deciso di collaborare con la giustizia. Il poliziotto Achille Serra, che all’epoca era dirigente della squadra mobile di Milano, ricorda nel documentario che “gli tagliarono la testa, ci giocarono a pallone nel cortile e poi la misero nel water.”
A Milano c’era una media 150 omicidi all’anno
Oltre alla “banda Vallanzasca,” quelle più importanti e attive a Milano sono guidate da Francis Turatello e Angelo Epaminonda.
Turatello, che secondo alcune voci era il figlio naturale del boss mafioso italo-americano Frank Coppola (detto “Frank tre dita”), scala in fretta le gerarchie criminali della città e riesce a controllare gran parte delle bische clandestine e del giro della prostituzione.
Epaminonda, nato a Catania e trasferitosi da piccolo con la famiglia in Brianza, muove i primi passi all’interno del gruppo di Turatello, salvo poi staccarsene e diventare il referente milanese di Cosa Nostra, anche grazie al narcotraffico e all’arresto dello stesso Turatello (avvenuto nel 1977; “Faccia d’angelo” sarà ucciso in carcere nel 1981 in circostanze mai chiarite del tutto).
Spesso e volentieri le bande sono in conflitto tra loro per il controllo del territorio e delle varie attività illecite, senza esclusione di colpi. Il risultato è che per un decennio Milano registra una media di 150 omicidi all’anno, una cifra del tutto inconcepibile per i nostri tempi.
Il gruppo di fuoco più efferato è quello del “tebano”: composto da malviventi catanesi chiamati “gli indiani,” commette circa 60 uccisioni in pochi anni e diverse stragi—tra cui quella al ristorante “La strega” di via Moncucco, che il magistrato Alberto Nobili ha descritto come “la strage più cruenta che c’è stata a Milano.”
All’una di notte del 3 novembre del 1979, gli “indiani” entrano nel locale per uccidere il boss pugliese Antonio Prudente (legato a Turatello) ma finiscono con lo sterminare tutti i presenti—ossia altre sette persone, inclusa la cuoca.
L’anno successivo, il 1980, sparano all’impazzata al bar Gianni in piazzale Cuoco contro gli avversari del clan Mirabella; ne nasce un inseguimento armato che arriva fino a Porta Venezia. Nel 1981, per vendicarsi di una rapina a una bisca, uccidono in via delle Rose tre spacciatori e un benzinaio che non c’entrava nulla.
Parlando degli “indiani,” un collaboratore di giustizia intervistato ne La Mala dice che “erano tutti pazzi, tutti: la sera si inventavano chi dovevano andare ad ammazzare gratuitamente. Non è una barzelletta.”
Epaminonda ha regalato un cucciolo di leone a Bettino Craxi
Nella prima puntata del documentario si racconta una vicenda davvero curiosa, che vede protagonisti Epaminonda e l’ex presidente del consiglio Bettino Craxi.
Dopo l’arresto del 1984, il “Tebano” decide di collaborare con la giustizia per evitare l’ergastolo. A un certo punto sostiene di aver parlato con il segretario del Partito socialista, al fine di garantirsi una copertura politica per l’apertura di un casinò. Di fronte allo stupore degli inquirenti, Epaminonda spiega di avergli addirittura regalato un leone.
L’episodio è confermato nella docuserie da Lello Liguori, il proprietario di molti locali notturni frequentati da malavita, imprenditoria e alta borghesia milanese. Liguori dice infatti che Epaminonda si era presentato al Covo di Nord Est a Santa Margherita Ligure con un cucciolo di leone, e gli aveva detto di farlo avere a Craxi.
Alla fine, prosegue, il leone viene effettivamente portato nell’appartamento di via Foppa dalla figlia Stefania. Dopo una settimana, tuttavia, Craxi chiama Liguori chiedendo di riprendere l’animale “perché aveva rovinato tutta la casa.”
Anni dopo, come ripercorre nel documentario il magistrato Piercamillo Davigo (che all’epoca si occupava di criminalità organizzata e riciclaggio insieme al collega Francesco Di Maggio), i carabinieri trovano nello zoo di Fasano una leonessa donata da Stefania Craxi.
In appena undici anni ci sono stati oltre 160 sequestri di persona
La stagione dei sequestri di persona è al centro della terza puntata de La Mala, e costituisce una delle pagine più cupe della storia della malavita milanese.
Dal 1973 al 1984, infatti, sono oltre 160 le persone rapite a Milano e dintorni. Nel 1977 si raggiunge il picco, con ben 34 sequestri consumati solo nella città.
I rapimenti spargono ulteriormente il terrore in un territorio già provato da rapine e omicidi. Di fronte a questa ondata di sequestri, imprenditori e industriali corrono ai ripari, dotandosi di armate o mandando i propri figli a studiare all’estero. Il magistrato Giuliano Turone, lo stesso che nel 1981 ha scoperto l’esistenza della loggia massonica P2, confida nel documentario di non aver voluto figli per non essere ricattabile e non esporli a questo rischio.
L’industria dei sequestri è particolarmente redditizia sia per i gruppi autoctoni (Turatello arriva addirittura a mettere in piedi una rete di sequestri simulati per “proteggere” gli imprenditori), sia soprattutto per la ‘ndrangheta—la più attiva ed efficace su questo fronte.
La criminalità organizzata calabrese investe i proventi dei riscatti nell’acquisto di cocaina, per poi riciclare i soldi del narcotraffico in attività legali. In altre parole: è grazie ai rapimenti di quegli anni che la ‘ndrangheta diventa una potenza del narcotraffico globale, riuscendo a radicarsi nel Nord Italia.
L’ultimo atto della mala milanese è stato un’incredibile sparatoria nell’aula bunker, durante il processo
Il 1987 è un anno che fa da spartiacque: Vallanzasca viene arrestato per l’ultima volta in Friuli-Venezia Giulia, Turatello è morto da tempo e a Milano si apre il maxi-processo scaturito dalle dichiarazioni di Epaminonda.
In tutto gli imputati sono ben 122; molti di questi, consapevoli di finire all’ergastolo, decidono di usare il palcoscenico dell’aula bunker di piazza Filangieri per regolare i conti con i propri avversari.
Il 5 ottobre dello stesso anno, mentre il pubblico ministro Francesco Di Maggio sta recitando la sua requisitoria, l’imputato Nuccio Miano estrae una pistola e spara sette colpi da dietro le sbarre. L’obiettivo sono altri due imputati, Antonino Faro e Antonino Marano, che però rimangono illesi; vengono invece feriti due carabinieri, che sopravvivono.
La giornalista Marinella Rossi, che seguiva il processo per Il Giorno, racconta nel documentario che “era così surreale quello che stava accadendo, che non si è avuta neanche l’immediata sensazione che si trattasse propriamente di una sparatoria.” Tra l’altro, non si è mai riuscito a capire come Miano abbia portato quella pistola nell’aula.
Di fatto, la sparatoria è l’ultimo atto della mala milanese degli anni Settanta—quella dei banditi che, mi dice Chiara Battistini, “vivevano veramente alla giornata, con lo spirito di vivere al cento percento quello che poteva offrire la città.”
Al contempo, aggiunge Paolo Bernardelli, quei personaggi sono stati in qualche modo degli “anticipatori”: da un lato perché, pur essendo nel mezzo della stagione dell’impegno politico, pensavano solo ed esclusivamente ai soldi; dall’altro perché hanno fatto da “ponte” verso un tipo di criminalità più strutturata dedita al narcotraffico, alla corruzione e ai crimini finanziari.
E infatti, conclude Battistini, è proprio in quel periodo che sono stati gettati i semi che hanno portato alla “Milano scintillante di oggi, dove però le organizzazioni criminali fanno ormai parte in maniera sotterranea del meccanismo economico della città. La criminalità non spara più e non è visibile, ma questo non significa affatto che non ci sia.”
Nelle foto qui sotto, tre supertisti della “banda Vallanzasca” intervistati nel documentario: Osvaldo Monopoli, Tino Stefanini e Renato Vallanzasca.