Milano è una città che con la cucina giapponese ha un rapporto viscerale, e strano allo stesso tempo. Chiedi a studenti e giovani lavoratori qual è la loro cena tipica e probabilmente la maggior parte ti risponderà “Sushi All You Can Eat“.
“Sai quanti locali giapponesi ci sono a Milano”, mi chiede in maniera retorica Aya: “Più di 400. E sai quanti di questi sono gestiti da giapponesi?”. Io tiro a indovinare “30?”, e Aya ridendo mi dice: “9, con questo 10”.
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All’inizio qualcuno mi ha chiesto se avremmo fatto sushi, ma anche pizza e cucina cinese.
Aya non mi ha detto quanti servono sushi di questi 400 ristoranti, ma nella mia testa ipotizzo almeno il 90%. E così gli italiani quando pensano al Giappone immaginano distese di sushi a prezzi stracciati, mentre chi ama la cultura culinaria nipponica conosce la sua ricchezza fatta di cibo cotto, fermentato ed essiccato. Non solo pesce crudo insomma.
A Milano, come nel resto d’Italia, i ristoranti che offrono sushi all you can eat sono gestiti generalmente da imprenditori cinesi o italiani, e quasi tutti all’interno delle loro cucine non hanno cuochi giapponesi; gli altri ristoranti sushi bar – dai costi decisamente più alti – ne hanno almeno uno, ma anche qui la proprietà non è nipponica.
Per questo il caso della prima gastronomia giapponese a Milano che non offre sushi, Yamamoto, mi ha incuriosito, e mi ha incuriosito soprattutto capire la reazione dei milanesi, abituati a vedere sushi in ogni angolo della città, davanti alla cucina proposta da Yamamoto: piatti casalinghi, qualche panino (e che panino!) e come unica cosa vagamente vicina al sushi, gli Onigiri con pesce cotto o prugna, i triangolini con alga tipico street food giapponese.
“Le alghe servivano per tenere in mano e mangiarli anche per strada” mi spiega Aya.
Ho appuntamento con Aya Yamamoto a mezzogiorno, prima che il locale apra al pubblico: siamo fra Missori e Duomo – via Amadei 5 – in pieno centro città e fra gli uffici della Milano che conta: il locale è aperto dal 15 settembre [2017] con l’intento di far assaggiare la cucina casalinga nipponica in due modalità. Gastronomia vecchio stile, dove prendi per poi mangiare a casa o in ufficio, e ristorante dove mangiare anche qualcosa di caldo e diverso dal solito.
Niente salsa di soia sui tavoli; non ce la faccio più a vedere la gente che annaffia il cibo con la soia.
I ristoranti giapponesi che offrono altro dal sushi non sono rari a Milano, ma Aya prova a portare un formato completamente diverso in città: “Questo è un ristorante che potrebbe benissimo esistere in Giappone, altri no, perché da noi esistono generalmente ristoranti specializzati solo in determinati piatti: i ramen bar, i sushi bar, le izakaye (trattorie) e poi posti come questi”.
Entro e l’atmosfera è informale, mi accoglie una vetrina di specialità del giorno. “Gli italiani sono sempre un po’ spaventati dalla cucina straniera, soprattutto quando ordini da un menu e non sai cosa ti arriverà, per questo ho deciso di farlo vedere: non fa paura se la esponi. È pollo, salmone, riso, verdure”. Mi spiega Aya.
E infatti appena entri c’è una vetrina con i piatti del giorno. E poi aggiunge Aya: “Niente salsa di soia sui tavoli; non ce la faccio più a vedere la gente che annaffia il cibo con la soia”.
Quando arrivo ci sono già i primi curiosi che chiedono informazioni e sono evidentemente sorpresi da un locale giapponese diverso dal solito. Le reazioni degli italiani sono fra le più varie. Aya mi racconta “Sono venute 4 ragazze che lavorano in un centro estetico qui vicino, una di loro dice “io non mangio giapponese” e intanto curiosava, forse perché non vedeva i soliti maki e uramaki”. Forse voleva dire che non mangia sushi, ma questo non lo sapremo mai.
E continua: “All’inizio qualcuno mi hanno chiesto se avremmo fatto anche pizza e cinese, e un’altra volta un ragazzo alla mia domanda se avesse mai mangiato giapponese ha risposto con “Si, una volta mi hanno portato dal cingalese””.
Ma basta stare seduti un attimo nel tavolino di fronte la gastronomia per assistere alle reazioni più disparate: “Due signore entrano e confabulano. Prendono un po’ di verdure non proprio convinte di quello che hanno ordinato, sebbene Aya nelle spiegazioni sia insuperabile. Una delle due dice “Pensavo che il sushi fosse il piatto tipico del Giappone…”.
Aya è giapponese, ma naturalizzata milanese: si trasferisce per questioni di lavoro del padre a 4 anni con la famiglia, mamma e sorella. Poi nel 1998 il padre viene a mancare e la madre, allora casalinga, decide di rimboccarsi le maniche e mettersi a cucinare, gestendo nel 2004 il primo ristorante giapponese ad aver il coraggio di togliere il sushi e il sashimi dalla carta. Poi altre avventure ristorative, per poi approdare a Yamamoto, con figlia e due ottimi cuochi giapponesi al suo fianco. “Difficilissimo trovarli” dice Aya. Il più giovane è Himeno Shun, che fino a pochi mesi fa lavorava in un ristorante giapponese di alto livello e che ha solo una regola “No Maki Policy”.
Dopo aver fatto sushi per anni, Shun desiderava fare altro, e non nasconde “vorrei aprire un locale come questo un giorno, un locale che può benissimo esistere anche in Giappone”.
Intanto entrano sempre più curiosi, chiedono cosa c’è da mangiare, all’inizio sono per l’asporto, ma poi si fermano a mangiare. Fra le cose più gettonate la bento box, Aya me ne tiene una da parte: costa 12 euro ed è un pranzo completo: sgombro grigliato, alghe, funghi, frittata giapponese, riso con fiori secchi sopra. Cambia ogni giorno, ma meglio prenotarla per non perdersela. Gustosa e sana.
Fra i piatti che mi fa provare Aya anche un panino che è diventato ufficialmente uno dei miei panini milanesi preferiti: il Katsu Sandu. Si consuma freddo, e viene servito con una cura per i dettagli con fiori edibili ed erbe e in mezzo una bella cotoletta di maiale fritta, il piatto tipico del Giappone (si, ancora una volta non è il sushi).
Entrano dei ragazzi vegetariani: Aya spiega cosa possono mangiare e dice che in realtà ci sono molti piatti vegetariani in Giappone, ma sono più che altro i monaci che non mangiano la carne e il pesce. Arriva un altro ragazzo, aperto a suggerimenti “Mangio tutto tranne il tofu” e Aya lo indirizza verso un misto di verdure e un classico Onigiri con la prugna dentro.
Clientela giovane, magari affascinata dai manga giapponesi, dove si mangiava cibo tipico giapponese che adesso si ritrova da Yamamoto. Per pranzo si spendono anche 10 euro, e vista la media dei bar e dei ristorantini del centro di Milano mi sembra un ottimo affare.
Fra i piatti che Aya sa di non poter mai togliere c’è il salmone: “Non c’è nulla da fare, gli italiani lo vogliono sempre”.
Intanto intercetto i commenti di due signori accanto a me un po’ in là con l’età “Buono vero?” dice lei, e lui risponde “Si, non so cos’è, ma è buono”. Sono le 13.20 e i panini katsu sandu sono già finiti. Gli onigiri vanno per la maggiore. Due amiche entrano: una ha la faccia con un grosso punto interrogativo sopra, leggermente schifata. Ordina l’amica, lei non si fa convincere. Sono sicura che prenderà un panino triste al bar all’angolo.
Intanto vicino a me si siede un amico di Aya, o meglio quello che pensavo esserlo. Ci parlo e scopro che Andrea è il suo commercialista, o meglio lavora alla Confesercenti di Milano, dove Aya ha fatto ricerche prima di aprire la sua attività. È la prima volta dall’apertura che Andrea prova Yamamoto: “È sicuramente diverso dal solito, mi ci è voluta una vita a convincermi a mangiare sushi, adesso mi abituerò anche a questo.”.
Più guardo Aya più mi convinco di quanto questa ragazza di 30 anni sia la sintesi perfetta di due culture: la precisione e la meticolosità giapponese, che si mischia all’estro un po’ più italiano. Sorride, è gentile ma non manca d’intraprendenza. E a chi le chiede sushi per la decima volta dall’inizio del servizio del pranzo non si stanca mai di rispondere cortese: “No, mi spiace. Qui niente sushi”.