Le attrattive, dall’esterno, sembravano davvero minime. Nei primissimi anni Novanta i concerti erano cosa per pochi adepti e il pubblico si componeva al 97 percento di individui di sesso maschile. Lentamente—e inesorabilmente—dal debutto in società, l’hardcore made in Roma è divenuto una sorta di modello, senza sottostare ad alcuna regola scritta. From scratch, per dirla all’inglese, persone così distanti—per background o semplicemente gusto musicale—hanno trovato accoglienza sotto i tetti dei maggiori centri sociali cittadini, sviluppando una fitta rete di contatti che avrebbe in seguito permesso l’approdo di band culto dagli States e dal resto d’Europa.
Quei luoghi non esistono più, il Blitz a Colli Aniene è stato abbattutto, non ho idea di cosa ci sia al posto del Breakout a Primavalle mentre in luogo del Sisto Quinto (zona Conca D’oro) sorge un supermercato della catena Il Castoro.
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Con RMHC, Giulio Squillaciotti ha fermato su pellicola un momento cruciale, la fiamma che avrebbe acceso una moltitudine di sommovimenti underground a venire. Nulla di autocelebrativo, solo il desiderio di indagare sull’amore per la musica nei tempi in cui il web era quello dei fumetti dell’Uomo Ragno.
A due anni dall’uscita, il film è ora disponibile in DVD. Abbiamo deciso di riproporre questa intervista in occasione della presentazione ufficiale (vedi sotto per ulteriori informazioni).
VICE: Il documentario mi ha dato l’idea di una dimensione pionieristica ma fortemente rustica. Quanto è stato intenzionale il focus sugli ambienti, dall’intimità di una cucina a quella della cosiddetta ‘cameretta’?
Giulio Squillacciotti: Direi che è stata un’altalena tra la spontaneità e la decisione ferma sul dove girare chi, senza imposizioni di sorta. A prescindere da questo volevo far stare la gente a proprio agio, e a volte l’ambiente casalingo risulta essere il migliore per lo scopo. Mettici anche che il film è stato girato in maniera casuale, con luoghi e orari pensati quotidianamente, mischiando gli impegni, i tempi e le esigenze di tutti. L’idea di rusticità non era intenzionale, è la nostra vita a esserlo, nell’accezione più positiva del termine.
Mi piace l’assenza completa di filtri, immagino che anche l’editing non sia stato affatto severo.
Volevo veramente sapere delle cose di cui ero curioso, “famme na chiacchierata” con chi c’era stato prima, ma non avevo in mente uno schema preciso. Al montaggio sono stati dolori. È in quel momento che è arrivata la vera fase di scrittura, con il montatore Alessandro Giordani. Quando ci siamo accorti che poteva essere una storia che non parlava solo a noi, ma che poteva essere interessante per più persone. Un po’ di severità per far quadrare il filo logico della narrazione c’è stata, in realtà. Calcola anche che ho raccolto più di 250 ore di interviste
Tra le righe—e a memoria, visto che ero lì—appare evidente come la scena dovesse affrontare delle vere e proprie barriere architettoniche e ideologiche. Mi sembra che l’aspetto artigianale e volitivo sia stato in qualche misura immortalato.
È stata proprio la scintilla delle barriere, senza eroismi, a farmi scattare la voglia di sapere come si facevano le cose prima che ci fossi io. La metafora dello skate calza sempre a pennello per questioni del genere, soprattutto a Roma. La gente non aveva skatepark e allora si è inventata il foro italico, gli archivi, il Pigorini, l’EUR, la fontana di Villa Paganini, tirando fuori un proprio stile. Lo stesso vale per l’Hardcore. Ti arrivano un po’ di dischi, vedi due foto, poi metti tutto da parte e ti inventi il tuo, per te e gli amici.
I Concrete al Vort’n Vis a Ieper, in Belgio, fine anni Novanta
Tanto è vero che la ‘trasposizione’ romana è stata spesso più goliardica, o quantomeno disincantata.
“Disincanto romano” è una frase che è uscita fuori più volte durante le interviste, anche fatte a distanza di anni. Mi sono sorpreso, sembrava lo avessero tutti molto chiaro in testa mentre ne parlavano. A posteriori c’è stata una vera e propria presa di coscienza verso quello che si è fatto, senza neanche troppa autoepica. Quello era un aspetto che volevo davvero indagare.
Ai tempi c’era una certa antipatia tra chi apparteneva alle classi meno abbienti e chi aveva origini medio-borghesi. A distanza di anni e dalle testimonianze raccolte, mi sembra che anche questa differenza sia stata azzerata.
Immagino sia un azzeramento a posteriori, da adulti, a parte rari casi. In fondo, far parte di una scena del genere voleva veramente dire di sceglierla e di sbattersi per portarla avanti. Come ha detto qualcuno nel film, c’è un momento effettivo in cui “arrivi alla cassa” e si marca una linea tra chi può andare all’università e chi deve andare a lavorare. Oggi, invece, sembra si sia tornati al rispetto reciproco per il solo fatto di aver condiviso certe cose che nel mondo fuori (di adesso e di allora) non erano contemplate.
Ora mi sento distante anni luce da quell’estetica, soprattutto dal punto di vista musicale, eppure quell’attitudine, l’idea di “muovere dal basso”, per me rimane un comandamento.
Credo sia proprio una questione di esperienza umana, rispetto soprattutto a quello che c’era intorno—ripeto, senza eroismi. La musica che si ascolta o si suona, il modo di vestirla e di vestirsi, passa tutto, resta l’idea di aver fatto una cosa da soli, da zero, che è cresciuta e cambiata sulla bocca di tanti altri.
Stage Diving a un concerto degli Evidence al primo Circolo degli Artisti di Via La Marmora, Roma 1994
A posteriori mi chiedo ancora con quale coraggio si facessero le cose. Tra l’altro, tutti i contributi inseriti sono pre-Facebbok.
Nel film si parla addirittura di MySpace e di come avesse facilitato, in tono bacchettone, la vita dei gruppi giovani. Non esisteva neanche Facebook quando l’ho girato, e questo per dire come in cinque anni le cose siano cambiate molto rapidamente, mentre nei 15 di cui si parla nel film si sono vissute allo stesso modo e in un certo senso con un’evoluzione piuttosto lenta. La cosa esisteva se tu eri lì, altrimenti non c’era foto, video o resoconto fanzinaro che tenesse.
E proprio questo mitizzare ha spesso ingigantito le cose, soprattutto fuori dal circondario romano. Un’idea amplificata dal passaparola, che magari il documentario aiuta a ridurre a più logici confini.
Certo, a volte ripenso ai toni con cui parlo di questa faccenda a chi non ne sa niente, come fossero stati i moti carbonari. In realtà è una storia semplice, di gente che si è data da fare per costruirsi un micro mondo. Qualcosa che è durato abbastanza, ma che non ha certo cambiato il mondo o il modo di vedere le cose degli “altri”. Di questo micro mondo non esistevano storie tramandate se non quelle tra i soliti, ed era interessante per me raccoglierne il più possibile e darle a tutti.
C’era molta semplicità nei gesti, la logica dell’improvvisazione era regola d’oro. Ricordo quando durante il servizio civile io e altri amici prendemmo in prestito un palchetto in Croce Rossa, poi utilizzato al tempio Hare Krishna di Tor Tre Teste per il concerto di Shelter/Growing Concern/Open Season.
È un po’ l’attitudine con cui è stato realizzato tutto il documentario, in fondo. E penso venga proprio da quel passato la forza di sbattersi così, gratis, per realizzare un film. Non lo avrei fatto per altre cose.
Il nucleo della primissima scena romana, la Roma Crew. Primi anni Novanta, Csoa Blitz Roma
Per chiudere seccamente e forse rivendicare quel tipo d’appartenenza: oggi non c’è modo di replicare negli intenti quanto è stato.
Ma è giusto così, quelle cose si raccontano e rimangono lì, non mi sono mai piaciuti i revival. Resta però quel sentore di fondo di poter sempre dire, come canta er Gipsy, “shit on the table and take off”.
Domenica 21 dicembre 2014 alle 18.00, l’Hellnation Record Store di Roma ospiterà la presentazione ufficiale del DVD (cliccate qui per tutte le informazioni), mentre al Big Star dopo le 22.00 ci sarà la proiezione del film con DJ set di Lavi. Per acquistare il DVD online andate sul sito di RAWRAW.
Per tutte le info, consultate la pagina facebook di RMHC. Segui Giulio su Twitter: @giulio_sq