Morti sospette e camicie di forza: cosa non funziona più nei TSO in Italia

Il 5 agosto del 2015 Andrea Soldi era seduto sulla sua solita panchina in piazza Umbria, a Torino, quando i vigili sono intervenuti per sottoporlo a un trattamento sanitario obbligatorio.

Lo hanno ammanettato, stretto per il collo e caricato sulla barella a pancia in giù. È morto soffocato ancora prima di arrivare in ospedale.

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Neanche una settimana prima, il 30 luglio, è stato il turno di Mauro Guerra, inseguito e ucciso da un carabiniere che lo stava prelevando per portarlo in ospedale.

L’8 giugno è toccato invece a Massimiliano Malzone, nel salernitano, deceduto in SPDC per un eccesso di farmaci.

Tre decessi in poco più di un mese, che hanno contribuito a riaccendere l’attenzione su una procedura che ha parecchie zone d’ombra.

Prima di loro c’era stato Giuseppe Casu, morto all’ospedale di Cagliari nel 2006 dopo essere rimasto legato al letto per una settimana. E Francesco Mastrogiovanni, il maestro definito “anarchico,” deceduto a Vallo della Lucania nel 2009 dopo quattro giorni di contenzione ininterrotta che Costanza Quatriglio ha raccontato nel film “87 Ore,” diffuso dalla Rai a dicembre.

Proprio di questi giorni invece è stata la protesta dei migranti, passata pressoché inosservata dai media, e pensata per denunciare l’uso improprio del TSO come strumento di repressione e non di tutela.

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È il 13 maggio 1978 quando la legge Basaglia (n. 180) segna la fine di un’era. Chiudono i manicomi, con i loro ricoveri coatti a tempo indeterminato, e viene istituito il TSO.

Cos’è il TSO

Il trattamento sanitario obbligatorio consiste nel sottoporre una persona a cure mediche contro la sua volontà. In pratica, il paziente è prelevato – di solito dalla sua abitazione – e ricoverato presso i reparti di psichiatria degli ospedali pubblici, gli SPDC (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura), che dalla legge Basaglia in poi sono diventati i luoghi deputati alla cura dei malati psichiatrici.

Non più “lager” separati dalla società, in cui rinchiudere gli “alienati” e buttare la chiave, ma veri e propri reparti ospedalieri, integrati con il resto della struttura sanitaria. Almeno apparentemente.

Secondo la legge 180, può essere sottoposta a TSO una persona che necessita di cure mediche, le rifiuta e non può essere curata a domicilio.

Si tratta di una pratica delicatissima, che sospende in modo temporaneo la libertà e la capacità di autodeterminazione dell’individuo.

La procedura da seguire è quindi volutamente complessa, e prevede l’intervento di diverse forze: un primo medico che deve richiedere il TSO, un secondo medico (tassativamente psichiatra) che deve convalidarlo, il sindaco (o più verosimilmente qualche suo sottoposto) che deve predisporre l’ordinanza, ambulanzieri e forze dell’ordine che la facciano eseguire, e un giudice tutelare che entro 48 ore convalidi il trattamento.

Quest’ultimo può durare al massimo una settimana. Un’eventuale richiesta di proroga deve essere presentata per tempo e convalidata dal sindaco. Spesso si cerca di commutare il ricovero forzato in trattamento volontario; e altrettanto spesso i pazienti accettano, non tanto per reale convinzione, ma perché si tratta del primo passaggio verso le sospirate dimissioni.

La minaccia di un nuovo TSO poi rende la volontarietà del ricovero più formale che sostanziale.

Nonostante – o proprio a causa – della complicata burocrazia, le zone grigie di questa prassi restano moltissime, e fanno sì che la sua applicazione cambi molto da regione a regione, o addirittura da ospedale a ospedale, secondo una discrezionalità territoriale che rende difficile descrivere in maniera univoca i passaggi della procedura.

“Lo strumento del TSO,” spiega a VICE News lo psichiatra Piero Cipriano, “non è necessariamente sbagliato, anzi. È stato concepito come il massimo della tutela possibile per una persona che ha un disturbo psichico grave. Tutto dipende dall’uso che se ne fa.”

Cipriano è uno psichiatra sui generis. Ha lavorato in vari dipartimenti di salute mentale, e da alcuni anni esercita in un SPDC di Roma.

Ha anche scritto due libri – un terzo è in uscita – che traggono ispirazione dalla sua esperienza professionale e che rivelano tutta l’insofferenza del medico nei confronti di alcune pratiche psichiatriche “moderne,” come l’uso dei farmaci per scopi non terapeutici ma unicamente sedativi (“contenzione chimica”) o la cosiddetta “contenzione meccanica,” che consiste nel legare il paziente. Con letti muniti di cinghie o con le vecchie camicie di forza.

Per Cipriano, se si mette la 180 in mano a qualcuno che ha ancora un’ideologia manicomiale, questo strumento democratico rischia di assumere caratteri che sono ancora fondamentalmente polizieschi, come all’epoca del manicomio.

Secondo uno psichiatra che ha preferito restare anonimo e che esercita in un grande ospedale milanese, il TSO – se eseguito in modo corretto (e solo quando è realmente necessario) – è un efficace strumento di tutela per la salute del paziente. I problemi insorgono quando è effettuato senza seguire i passaggi alla lettera, soprattutto da parte degli psichiatri, che restano i primi responsabili del buon andamento della procedura.

A suo parere, sono tre i limiti fondamentali della legge 180 per quanto riguarda il TSO.

Innanzitutto non c’è un regolamento che disciplini in modo univoco e puntuale la procedura da seguire. Non è inoltre chiaro chi debba eseguire materialmente l’ordinanza del sindaco: se vigili, polizia o carabinieri.

Infine anche l’operatore – medico e non – può trovarsi in difficoltà rispetto ai propri ruoli e responsabilità, perché non bisogna dimenticare che trattandosi di una pratica così invasiva per la libertà personale, il confine con il sequestro di persona e la violenza privata è labile. Come lo è, all’opposto, il rischio di omissione di soccorso e di abbandono di incapace.

Cosa succede durante un TSO

Ma al di là delle questioni legali, cosa succede concretamente durante un ricovero forzato?

Naturalmente ogni storia è diversa dall’altra, come diversi sono gli oltre 10mila individui che ogni anno, in Italia, subiscono un TSO.

Per prima cosa il paziente deve essere prelevato per il ricovero. A questo proposito VICE News ha parlato con due soccorritrici di un’associazione ONLUS che opera nel settore della pubblica assistenza a Milano.

“Quando ci chiamano per un TSO,” raccontano, “sappiamo già che la cosa andrà molto per le lunghe.” Questo perché la fase di contrattazione con il paziente, in cui si cerca di convincerlo a ricoverarsi in modo volontario, è spesso lunga e difficile. Ma soprattutto perché la polizia, chiamata contemporaneamente all’ambulanza, spesso arriva con moltissimo tempo di scarto, rendendo impossibile procedere.

“È importante sottolineare,” spiegano le due soccorritrici, “che il TSO non riguarda solo i malati psichiatrici.”

Raccontano che una volta hanno soccorso un’anziana signora che si era rotta il femore nel suo appartamento. Non voleva farsi ricoverare per nessuna ragione, addirittura l’ambulanza era stata chiamata dai vicini che avevano sentito l’odore del gas causato da un pentolino rimasto a bruciare sul fuoco.

Viveva sola ed era impensabile lasciarla in quelle condizioni, così, spiegano le ragazze, “abbiamo chiamato la centrale operativa e abbiamo chiesto di avviare la procedura per disporre il TSO.”

Le facce, stando ai soccorritori, sono spesso le stesse. Una volta dimessi, i pazienti tornano a casa, magari in una situazione familiare difficile, il tempo passa senza miglioramenti e ad aspettarli dietro l’angolo c’è un nuovo TSO. E magari un altro.

Spesso capita anche che durante i TSO programmati – cioè non decisi all’arrivo dell’ambulanza – i “veterani” del trattamento sanitario obbligatorio non si facciano trovare in casa, oppure si nascondano, rendendo la procedura ancora più lunga e complicata.

Altre volte i pazienti stabiliscono un rapporto con la polizia e il personale dell’ambulanza, tanto che all’arrivo in ospedale hanno l’impressione di aver perso un punto di riferimento. Questo perché forze dell’ordine e soccorritori sono i primi con cui il paziente entra in contatto, e se il lavoro è svolto in maniera efficace, la lunga fase di mediazione fa sì che tra i soggetti si instauri una relazione.

Per Andrea, 25 anni, non è andata così. È stato ricoverato in preda a un “delirio mistico,” e a causa del suo stato di agitazione è stato ammanettato dalla polizia, che lo ha strattonato per trascinarlo giù dalle scale di casa, tanto che a sei mesi di distanza è ancora ben visibile sul polso il segno provocato dalle manette.

Andrea non ha un ricordo preciso dei suoi primi giorni di degenza. Ma ricorda che appena arrivato all’ospedale gli hanno “sparato una siringa nel braccio” e si è risvegliato legato al letto.

Risvegliarsi così, senza possibilità di muoversi, è un’esperienza comune a moltissimi pazienti sottoposti a TSO.

Francesco, 31 anni, racconta che ha subito due trattamenti sanitari obbligatori a Verona. Il primo nel 2013, il secondo l’anno successivo.

Del primo riferisce: “Non stavo manifestando nessuna reale aggressività se non agitazione verbale per essere trattenuto contro la mia volontà senza una valida spiegazione. Mi hanno sedato e mi sono svegliato legato al letto. Nella mia ignoranza, pensavo che nemmeno si facesse più.”

Nel nostro paese la contenzione è una pratica diffusa, come denuncia il Comitato nazionale per la bioetica. Ed è ben conosciuta anche negli istituti che si occupano di anziani e nei luoghi che accolgono bambini e adolescenti.

È impossibile sapere quante persone, negli ospedali, nelle case di riposo e nelle cliniche private subiscono questo trattamento. “Quello che sappiamo,” spiega Piero Cipriano, “è che l’80 per cento dei 323 SPDC italiani è attrezzato per la contenzione. E dunque possiamo presumere che venga praticata.”

Alcune regioni e strutture si sono date delle linee guide per regolamentare la pratica in modo stringente, come il monitoraggio ogni 15 minuti, l’obbligo di slegare un arto a rotazione ogni mezz’ora, o di far camminare il paziente ogni due ore. Ma si tratta solo di protocolli locali.

Francesco racconta che, durante il suo primo ricovero, le fasce contenitive sono state tra le cose più fastidiose. Spiega che a lui è anche andata bene, perché non manifestando reale aggressività e avendo un carattere mite è rimasto legato “solo” una decina di ore.

Durante il secondo ricovero però ha visto la cosa durare per giorni: “C’era questo ragazzo mezzo ucraino e mezzo italiano che aveva delle difficoltà a esprimersi ed era molto agitato. Urlava, manifestava bisogni, voleva una sigaretta o dell’acqua, e a me sembrava disumano che fosse ignorato. Così ogni volta che potevo entravo in camera sua e cercavo di stabilire un rapporto con lui.”

Le alternative

Ma ci sono altri modi di intervenire, anche in casi di agitazione grave? “Certo,” spiega Cipriano: “Altrimenti che senso avrebbero le professionalità formate e specializzate?”

Una strada percorribile è quella della contenzione fisica: bloccare fisicamente la persona, fare holding — come si fa con i figli quando si agitano.

Un’altra possibilità sono i farmaci. “Non si può essere manichei, e considerarne l’uso una contenzione chimica a prescindere,” spiega lo psichiatra: “La contenzione chimica si ha quando il paziente viene ridotto in stato letargico, non se si cerca di placarne l’ansia.”

Ma per Cipriano l’aspetto fondamentale, il metodo vincente, rimane instaurare una relazione con il paziente: “C’è al fondo l’idea che il folle sia folle e non guardi in faccia nessuno, ma non è così. Io pur lavorando in un posto dove si lega, da ben sette anni non uso le fasce. E lo stesso si può dire degli SPDC no restraint, a porte aperte, come quello di Trieste.”

La scarsa relazione tra personale e pazienti è un aspetto che questi ultimi lamentano spesso.

È d’accordo anche una delle soccorritrici interpellate, che nella vita fa anche la psicologa. Descrive il reparto di psichiatria come “una specie di limbo dove i malati vagano come zombie senza fare mai nessuna attività.”E questo perché la terapia messa in atto è unicamente farmacologica.

Luca Negrogno, ex sociologo presso il Dipartimento di Salute Mentale, impegnato in progetti di inclusione sociale per i malati psichiatrici, individua un problema tanto semplice quanto cruciale: la drammatica carenza di personale. La mancanza di ascolto, i sedativi e le fasce sono diretta conseguenza anche di questo.

Durante entrambi i suoi ricoveri, durati il primo un mese e il secondo due settimane, Francesco dichiara di non essere stato sottoposto nemmeno a una seduta di psicoterapia. Vedeva i medici solo per 5-10 minuti al mattino, durante il giro di viste.

Naturalmente questa è solo la sua esperienza e non è possibile trarne una legge generale. Ma è proprio l’ampia discrezionalità di applicazione che ha fatto sì che nelle fessure di una legge democratica potessero resuscitare strumenti e pratiche della vecchia cultura manicomiale. Con il rischio di trasformare uno strumento di tutela in un mandato di cattura che – come si è visto nei casi di questa estate – può anche essere letale.

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Questo articolo è apparso originariamente su Vice News.