Fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha usato tutti i mezzi a sua disposizione per aumentare il supporto alla causa ucraina e sensibilizzare le opinioni pubbliche occidentali.
Ha così pubblicato moltissimi videomessaggi, ha parlato più volte ai Parlamenti nazionali (incluso quello italiano), è apparso sulla copertina di riviste patinate, è intervenuto in programmi televisivi e ha partecipato a eventi culturali di massa—nel gennaio del 2023, ad esempio, è stato trasmesso un suo breve video ai Golden Globes.
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Non c’è nulla di strano in tutto ciò; ed è del tutto normale che abbia accettato l’invito a Sanremo. La sua partecipazione, che dovrebbe avvenire alla fine del Festival con un breve video registrato, ha però sollevato uno tsunami di prese di posizione, petizioni e indignazione.
Ne elenco un po’ qui di seguito, giusto per farsi un’idea: a Sanremo si canta e basta, non c’è spazio per la politica; il festival è un “contesto leggero” che deve parlare solo di cose “leggere”; la partecipazione di Zelensky è un “boomerang” e rischia di far diventare “antipatica” la popolazione ucraina; è propaganda di guerra di una parte, bisognerebbe ospitare anche dei russi; e così via.
Vista l’intensità delle polemiche, credo che la questione vada ben al di là di Sanremo e dell’opportunità di ospitarlo o meno. Commenti di quel genere sono il sintomo di una profonda insofferenza nei confronti di Zelensky—un’insofferenza quasi atavica, direi, che a volta sfocia nell’odio politico.
Stando ad alcuni sondaggi, in Italia almeno metà della popolazione non solo non supporta, ma proprio non sopporta il presidente ucraino. E gli imputa nefandezze di ogni tipo, arrivando addirittura ad accusarlo di essere il responsabile della guerra.
Certi giudizi sprezzanti si basano sull’immagine distorta data dai media italiani (che hanno un grosso problema con la propaganda russa), oppure su vaghe impressioni slegate dalla conoscenza del personaggio, o peggio ancora su teorie del complotto e notizie platealmente false—tipo quella secondo cui Zelensky consuma cocaina durante le videochiamate.
Altri, invece, hanno radici politiche e ideologiche più marcate. Nell’analizzare l’avversione italiana nei confronti del presidente ucraino, pertanto, è utile partire da qui.
Motivo 1: il filoputinismo
Non è un mistero, infatti, che l’Italia sia uno dei paesi più filorussi e filoputiniani d’Europa per ragioni storiche, economiche e culturali.
Nell’aprile del 2021 il Pew Research Center ha rilevato che la quota di fiducia verso Vladimir Putin è del 36 percento, contro una media europea del 22.
Il culto dell’autocrate russo abbraccia un vasto spettro politico: si va dalla politica istituzionale—Silvio Berlusconi e Matteo Salvini in primis—fino agli ambienti dell’estrema destra e una parte (residuale) della sinistra radicale, passando anche per i circuiti complottisti.
Putin è visto come il baluardo della “tradizione” e della “cristianità” contro il decadimento liberal dell’Occidente, oltre che un leader machista che sa quello che vuole e raggiunge sempre i suoi obiettivi.
Per chi ripete a pappagallo la propaganda russa, dunque, Zelensky è un nemico da spazzare via, un leader corrotto a capo di un esercito di “nazisti” (poco importa che sia ebreo), nonché un “pupazzo” manovrato dagli americani.
Motivo 2: l’antiamericanismo a senso unico
E qui arriviamo al secondo motivo dell’insofferenza verso il politico ucraino: l’antiamericanismo a senso unico.
Se è indubbio che la resistenza ucraina sia possibile grazie al sostegno militare ed economico di Stati Uniti ed Unione Europea, l’idea che Zelensky e il suo paese siano soltanto una pedina utilizzata dalla Nato nell’ambito di una “guerra per procura” contro Mosca è piuttosto forzata—e tra l’altro è la linea ufficiale di Putin e dei suoi ministri.
Molte inchieste hanno dimostrato che né gli Stati Uniti né i paesi europei volevano che scoppiasse una guerra in Ucraina. E nei primi giorni dell’invasione a Zelensky era stato offerto un aereo per scappare dal paese, dando implicitamente per scontata e inevitabile la vittoria russa.
Già questo episodio evidenzia come il rapporto tra le potenze occidentali e l’Ucraina non sia affatto quello che intercorre tra un servo e un padrone; piuttosto, si muove in una scala di grigi piuttosto variegata.
Lo dimostrano molte altre vicende, tra cui l’uccisione di Daria Dugina (la figlia del filosofo di estrema destra Alexander Dugin) a Mosca, presumibilmente compiuta dai servizi ucraini senza avvertire le controparti statunitensi o europee; la disputa con la Germania sulla fornitura dei carri armati Leopard 2; e la riluttanza del presidente americano Joe Biden di dare gli F-16 all’esercito ucraino.
Come ha ricordato sulla newsletter Comment is Freed lo storico e professore emerito Lawrence Freedman, il concetto di “guerra per procura” è apparentemente semplice—qualcun altro combatte per te facendo i tuoi interessi—ma è spesso fuorviante.
In questo caso, gli obiettivi militari li stabilisce il governo di Kyiv. E il principale è quello di liberare il territorio nazionale dall’invasore, non certo quello di distruggere la Russia.
Tra l’altro, se si considera Zelensky un burattino di Biden allora bisogna fare lo stesso anche con il resto della popolazione ucraina. Nel senso che gli ucraini sarebbero delle pedine—consapevoli o meno—di Washington e della Nato, del tutto sprovvisti di volontà o autodeterminazione.
Ovviamente, non è così. Il punto, ha spiegato l’attivista socialista ucraino Taras Bilous, è che “la decisione di opporsi all’occupazione russa non è stata presa da Joe Biden, o da Zelensky, ma dal popolo ucraino, che si è sollevato in massa nei primi giorni dell’invasione e ha fatto la fila per procurarsi le armi.”
Se il presidente fosse davvero scappato, continua Bilous, “sarebbe stato screditato agli occhi della maggior parte della popolazione, ma la resistenza sarebbe continuata” in altri modi.
Motivo 3: la mancata resa di Zelensky e dell’Ucraina
Ed eccoci dunque all’ultima ragione, che probabilmente è la più diffusa: a Zelensky non viene perdonato il fatto di non essersi arreso.
Secondo un sondaggio di Ipsos dell’ottobre del 2022, circa la metà degli italiani è contraria al sostegno militare dell’Ucraina e sollecita concessioni territoriali alla Russia per porre fine al conflitto.
Al netto dei nobili discorsi sulla pace—chi non la vorrebbe?—questa posizione è estremamente cinica ed egoista, perché si basa sulla convinzione che la resa di Kyiv eliminerebbe le difficoltà economiche, abbasserebbe le bollette e ci riporterebbe alla “stabilità” pre-febbraio 2022.
Peccato che sia una convinzione a dir poco sballata. La capitolazione dell’Ucraina causerebbe ancora più instabilità e rischierebbe di allargare il conflitto in maniera del tutto incontrollata.
È chiaro la guerra in Ucraina fa paura: per la sua brutalità, per gli effetti sulle nostre vite quotidiane (nulla di minimamente comparabile con quello che stanno passando gli ucraini, sia chiaro) e per le sue possibili conseguenze sul lungo termine.
Ma non va mai dimenticato che non l’ha decisa Zelensky. Il presidente ucraino, come il resto della sua popolazione, la sta subendo. È la vittima della situazione.
E negarlo, dipingerlo come un pupazzo o non farlo parlare a Sanremo non sposterà la realtà di un millimetro.