La provincia italiana può essere dura e alienante, la distanza dalle grandi città a volte sembra incolmabile e non è per niente facile uscirne. È una dimensione ristretta, che sa essere soffocante ma ti obbliga a venire a contatto con realtà incredibilmente diverse, creando ibridi sperimentali e contaminazioni in grado di rivaleggiare con la produzione creativa delle grandi capitali europee.
La storia di Lorenzo Senni è fatta di incontri e di un’attenta capacità di osservazione, tra la realtà dello studio e i corpi sudati sui dancefloor internazionali. Se Lorenzo è arrivato a produrre la sua “trance puntinista” su un’etichetta come Warp, garanzia britannica di avanguardia elettronica e qualità, è proprio grazie agli anni vissuti tra una sala prove di Cesena e le discoteche di Rimini e Riccione.
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La provincia italiana può essere dura e alienante, la distanza dalle grandi città a volte sembra incolmabile e non è per niente facile uscirne.
“In provincia le cose sono meno divise,” ci ha raccontato, “magari non ti rivolgi la parola a scuola, però al bar ti ritrovi con tutti”. E infatti, nonostante suonasse in band punk hardcore straight edge, Lorenzo si trovava spessissimo a fare serata al Cocoricò o in un rave sulla Riviera: così fuori luogo da essere perfettamente a suo agio.
Grazie alla sua scelta di rimanere completamente sobrio, riusciva ad osservare la scena dei club quasi in terza persona, andando a gettare le fondamenta della sua idea di “Rave Voyeurism” che ha accompagnato negli anni tutta la sua produzione musicale. A quel punto il mix letale era pronto: un passato di chitarre distorte, una cultura musicale enorme e un riscoperto interesse per i suoni matti di uno dei generi più vituperati di sempre, ovvero la trance.
L’importanza di Lorenzo Senni sta proprio nella sua capacità di assorbire qualcosa da tutte le realtà con cui entra in contatto, e di tradurre l’esperienza in musica. Dal club più grezzo al concerto punk, dalla performance nella galleria d’arte al festival enorme davanti a migliaia di persone, i suoi suoni sono il frutto dell’incontro—non sempre amorevole—di questi mondi così lontani.
D’altronde, la musica elettronica più “avanguardistica” di questi anni è caratterizzata proprio dall’essere indefinibile, un calderone di generi e culture diversissimi, e di altrettanti modi differenti di godere questi suoni. Producer dancehall e studiosi di sound design condividono spesso la stessa console negli scantinati affollatissimi e umidicci, per poi ritrovarsi a suonare di nuovo insieme a un opening in una galleria di Berlino.
In un momento in cui i confini dell’elettronica sono sempre più decostruiti, la musica di Lorenzo Senni è sempre più rilevante. In occasione dell’uscita di Scacco Matto, il suo primo album completo per l’etichetta che ha prodotto tra gli altri Autechre e Aphex Twin, ho chiamato Lorenzo per farmi raccontare come si fa a far convivere musica concettuale e dancefloor, e soprattutto ad andare ad un rave senza buffalo né pasticche.
Dal club più grezzo al concerto punk, dalla performance nella galleria d’arte al festival enorme, i suoni di Lorenzo Senni sono il frutto dell’incontro di mondi lontani.
Noisey: Come sei arrivato su Warp?
Lorenzo Senni: È successo in maniera molto organica e naturale. Ho cominciato a suonare spesso a Londra, in contesti quali gallerie d’arte e opening di mostre, e bazzicando la città mi sono avvicinato alla loro orbita. Erano i tempi di Quantum Jelly e Superimpositions, ma la prima volta che li ho incontrati ho scoperto che in realtà erano dei fan sfegatati di un altro mio progetto, Stargate, che era uscito per la nostrana Hundebiss. Per assurdo è stato questo il primo legame tra noi. Nel 2015 ho poi suonato al Sónar a Barcellona davanti ad alcuni di loro, e lì mi sono sentito sotto esame. Dopo mi fecero i complimenti e da quel momento cominciai ad avere dei contatti più solidi con loro, finché in un altro incontro a Londra non mi hanno chiesto di sentire altro. Da lì è nato abbastanza velocemente Persona, un EP che doveva essere una prova a tutti gli effetti. Quando è arrivato il riscontro positivo abbiamo deciso di lavorare a un album vero e proprio, come avevo sperato sin dall’inizio. Ho sempre guardato a Warp come un punto di arrivo, ma non ho mai creduto davvero di arrivare a lavorare con loro.
E come va la collaborazione?
Sono molto strutturati, coordinano decine di persone e proprio per questo è una figata. Ero abituato a essere da solo o avere a che fare con realtà molto più piccole. Però è vero che ho idee che vanno spesso un po’ in contrasto con il classico approccio alla promozione. Per esempio, io non ho mai voluto fare video, e questo all’inizio li ha sconvolti. Ma la maggior parte dei video musicali sono molto deludenti, non aggiungono niente e anzi limitano la visione dell’artista. Gli ascoltatori dovrebbero crearsi un immaginario senza che nessuno dica loro quello che devono vedere. E poi non ho mai trovato qualcuno con cui volessi davvero realizzare un video, senza contare che per un buon lavoro c’è bisogno di un budget alto che preferisco investire in altro. Comunque sono entusiasta, guardandoli lavorare ho imparato moltissimo anche per la mia etichetta, la Presto!?.
“Anche dietro alla musica matta degli Autechre o di Aphex Twin ci sono le dinamiche di un comparto industriale che funziona al meglio. Qualcosa che da noi è più frammentato, e meno radicato.”
Perché in Italia non funziona allo stesso modo?
Ci sono diversi fattori da considerare. Sicuramente nel Regno Unito il mercato musicale è più sviluppato. Anche dietro alla musica matta degli Autechre o di Aphex Twin ci sono le dinamiche di un comparto industriale che funziona al meglio, un vero mercato: i manager e i promoter, le etichette e le venue fanno parte di un meccanismo ben oliato. Qualcosa che da noi manca. O, meglio, da noi è tutto più frammentato, molto meno forte e radicato. Perché se è vero che la club culture ha avuto un peso in Italia, è vero anche che è sempre stata più legata al turismo. Io vengo da Cesena, quindi vicino a Cesenatico, Rimini e Riccione, dove è sempre stato pieno di club. Non è cosa da poco avere il Cocoricò stracolmo di 6-7000 persone, però forse non si è riusciti a creare anche una sorta di “catena di montaggio”, come in UK.
E allora perché sei rimasto qui in Italia?
Si tratta di una scelta di natura personale. Londra è bella e capisco che magari ai tempi della jungle o della drum’n’bass ci si andava perché era il posto giusto. E lo stesso può valere per la techno e Berlino. Però è ancora più utile andarci con le giuste energie, e poi tornare a casa. A volte queste metropoli ti ammazzano se sei un artista emergente. Non è così facile venire fuori, e dopo un paio di mesi magari ti trovi senza soldi e svuotato. Devi confrontarti con la realtà. E poi ho un po’ di orgoglio musicale squisitamente italiano, abbiamo tanti bei progetti che non escono dai confini nazionali, ma non certo perché non hanno valore artistico. Prendi i Primitive Art, che per me dovevano essere delle rockstar. Sono sicuro che se fossero andati a Londra avrebbero avuto molte più opportunità di venir fuori. Alla fin fine si può mettere tutto online, le foto in cui sei figo e il minuto di live in cui spacchi, ma incontrare le persone giuste resta un passo ancora fondamentale.
Il titolo del tuo nuovo disco, Scacco Matto , è molto forte dal punto di vista simbolico. Cosa vuole significare?
In un’intervista i Cure dicono che sono riusciti a finire Disintegration, il loro capolavoro, solo quando hanno trovato il titolo: a quel punto tutti sapevano cosa fare, cosa significava per loro quell’album. Non voglio dire che sono come i Cure, però… ha! Ma è vero, mi sono trovato in una situazione simile quando ho pensato alle parole Scacco Matto. Da un lato volevo continuare a essere coerente con le idee sviluppate negli album precedenti, ma allo stesso tempo volevo liberarmi e sperimentare cose nuove. Alla fine, proprio come in una partita di scacchi, mi sono ritrovato a portare un pezzo in una direzione per poi riportarlo su altri binari. Si è trattato sempre di una partita con me stesso, fino ad arrivare al punto di rottura, quando a furia di tirare mi rendevo conto di aver finito un brano. Questo disco è il risultato della sperimentazione in altre direzioni, il tentativo di fare cose nuove pur pensando a quanto fatto prima. Il risultato è un vero Scacco Matto.
Ci sono suoni da videogioco?
Sì, ed è un aspetto interessante, visto che non ho mai cercato questo effetto. Se mi dici anzi che la mia musica sembra 8bit chiptune mi prendo male. Però, se mi metto nella posizione dell’ascoltatore, mi rendo conto che certi suoni in effetti sono vicini a questo mondo. Ma non è uno stile che è stato minimamente cercato! In ultima analisi, si tratta anche un po’ di onestà artistica, di saper accettare il risultato del proprio lavoro.
“A volte queste metropoli ti ammazzano se sei un artista emergente. Non è così facile venire fuori, e dopo un paio di mesi magari ti trovi senza soldi e svuotato.”
Invece, come lo vedi in relazione ai tuoi dischi precedenti?
È diverso e ci tengo che sia così, che la mia musica si evolva. Di Quantum Jelly rimangono certi aspetti tecnici, come ad esempio l’utilizzo del sintetizzatore Roland JP8000 e di certi suoni molto secchi, mentre da Persona ho attinto tanti altri aspetti e sonorità. In Scacco Matto spingo tutto al massimo e anche in una direzione più song-oriented. L’ho detto spesso, avrei potuto comporre dieci dischi come Quantum Jelly, perché la ricetta era chiara: una melodia forte ripetuta a lungo nel tempo e qualche progressione. Potevo farli con lo stampino. Però non è quello che volevo fare. Scacco Matto lo sento come un punto di arrivo. Non voglio dire che è un capitolo conclusivo ma mi sono trovato a spremermi e ora voglio provare cose nuove.
Partendo dal tuo approccio a un genere come la trance, come vivi questo rapporto complesso tra la musica da ballare e quella concettuale?
È un aspetto e una considerazione che mi interessano moltissimo, perché provengo da un contesto legato all’accademia e alla sound art. Un ambiente che negli ultimi anni si è dimostrato molto conservatore, pur presentandosi come piattaforma per l’innovazione. Quando ho scoperto la trance per la prima volta non mi interessava, sinceramente, era solo la colonna sonora di certi momenti della mia vita, qualcosa a cui non davo importanza. Ai tempi suonavo in band punk hardcore, ma vivevo a Cesena e spesso finivo al Cocoricò dove i miei amici seguivano dj per me di nessuna rilevanza. Non ho mai avuto l’obiettivo esplicito di rivalutare questa musica, o ridarle credibilità in un contesto più sperimentale. E tuttora la trance non m’interessa granché, a dirla tutta, anche se sono diventato un esperto a furia di ascolti. Sono però sempre stato affascinato da certi suoni e aspetti specifici di questo genere, in particolare i build up, la parte dei brani trance senza cassa che collega le strofe coi beat. Ai tempi ritagliavo proprio questi frammenti per trasformarli in mix lunghi da suonare live, prima del mio set.
E come è andata?
Volente o nolente ho finito per dare nuova vita a questo genere e portarlo in effetti ad altri ascoltatori e in un altro ambito, più di ricerca. Spero di esserci riuscito e di aver trattato questi materiali con coerenza, tramite delle idee molto semplici che però penso abbiano funzionato, anche perché erano oggettive e semplici da capire. Basta che ascolti la mia musica per constatarlo. Tra l’altro io ho un background accademico, ho studiato musicologia. Lì però non c’era niente di pratico, si trattava solo di fare cose quali analizzare Bach, la cadenza delle sue composizioni o il motivo per cui era considerato un genio. Solo teoria musicale e analisi del lavoro degli altri.
E cosa ti rimane dei rave?
Diciamo che ho avuto una duplice vita. Come dicevo, ho suonato in band punk hardcore straight edge, anche se non ero un hardliner e non giudicavo gli altri. Proprio per questo i miei più cari amici erano allo spettro opposto: gabber e hardcore warrior, quindi proprio estremi. Bisogna anche ammettere che si tratta di una particolarità del vivere in provincia, si è meno divisi e se anche non ti rivolgi la parola a scuola però al bar ti ritrovi con tutti, a prescindere dagli interessi. Soprattutto in Romagna, quando la club culture era molto presente nella vita quotidiana. Quindi io finivo in questi club non sapendo nemmeno chi suonava e senza che me ne fregasse niente. I miei amici erano tutti spacciatori finiti in galera un paio di volte, con le buste di pasticche nascoste dentro le mutande e vestiti con corpetti di plastica di motocross a petto nudo, oltre alle Buffalo. Io, invece, ero completamente sobrio, e spesso ero l’unico ad esserlo. Era divertente, però, e di certo non me ne rimanevo seduto sul divanetto. Era pieno di belle ragazze, d’altronde, e mi ascoltavo la musica che anni dopo mi ha dato l’idea del “Rave voyeur”.
“I miei amici erano tutti spacciatori finiti in galera un paio di volte, con le buste di pasticche nascoste dentro le mutande e vestiti con corpetti di plastica di motocross a petto nudo, oltre alle Buffalo”
Di cosa si tratta?
Io in quel contesto ero un voyeur a tutti gli effetti, e in pratica lo sono ancora adesso. Infatti, anche se la mia musica fa riferimento a quel mondo ed esce per un’etichetta che ha fatto la storia dell’elettronica, e per quanto i miei set suonino nei festival dove le persone vogliono ballare, io e la mia musica non rispondiamo esattamente a quello stesso ambiente. Proprio da questo fatto nasce l’idea di voyeur, a cui ho cercato di dare coerenza in tutti gli aspetti del mio lavoro, compreso il modo in cui mi presento ai live. Ad esempio, non ho mai voluto i visual dietro di me, bensì questo banner statico in PVC che va in controtendenza rispetto ad elementi luccicanti e mobili.
Questo aspetto si lega anche alla dinamica tra club e mondo dell’arte. Hai letto l’articolo di Simon Reynolds sulla cosiddetta “conceptronica”?
Sì, anche perché sono citato. L’articolo non mi ha gasato più di tanto, credo generalizzi troppo, anche se mi ha chiamato in causa insieme ad artisti con cui ho condiviso festival e serate. Qualche tempo fa parlavo con Hans-Ulrich Obrist—critico, storico d’arte e curatore—e mi ha chiesto se ci fosse una scena a cui mi sento vicino. È difficile ora parlarne in questi termini, mai ai tempi, prima che SOPHIE diventasse una popstar e Arca un’icona, ci siamo ritrovati davvero tutti negli stessi backstage e negli stessi club. Quindi probabilmente era davvero una scena. In generale, però, non mi piacciono i termini usati nell’articolo, “conceptronica” in primis. Anche se di solito mi piace trovare delle keywords per descrivere le cose.
“Prima che SOPHIE diventasse una popstar e Arca un’icona, ci siamo ritrovati davvero tutti negli stessi backstage e negli stessi club”
E rispetto al processo d’intellettualizzare i generi che invece partono dalla fisicità?
A me non interessa, personalmente. Per quanto qualcuno possa pensare altrimenti, non sono partito da questo aspetto, visto che i concetti e la musica per me devono avere la stessa valenza. Se ascolti un pezzo di Quantum Jelly è importante che ti piaccia al primo impatto, senza sentire il bisogno di un libretto delle istruzioni. Deve funzionare dal punto di vista prettamente musicale. Poi va benissimo se ci sono delle idee da scoprire successivamente, cose che possono farti gasare ancora di più, ma la musica non deve averne bisogno per esistere o essere completa. Io lo faccio solo perché per me è un piacere personale e fa parte del mio processo, non riesco proprio a lavorare se non in sincronia con un’idea che voglio portare avanti. Non ce la faccio.
Come si rispecchia sul tuo lavoro?
L’artista deve fare delle scelte. Io, purtroppo, sono venuto su in un ambiente accademico. Quindi se mi metto al computer e decido di usare un suono, anziché un altro, non lo faccio solo in base al mio gusto, ma devo trovare una coerenza dietro che faccia funzionare il tutto, mi serve essere un po’ limitato nelle scelte che faccio. Questo ultimo aspetto per me è essenziale: devo avere delle limitazioni, trovare una coerenza e delle idee che sostengano quello che faccio. Ciò mi aiuta poi ad andare avanti.
Ti chiedo di un paio dei tuoi pezzi in particolare. Uno è “Canone infinito”.
Si tratta di un brano che ho inserito quando stavo per finire il disco, perché sentivo il bisogno di una canzone molto emo da infilare a metà della tracklist. Per fortuna, è uscito esattamente come mi aspettavo. Il titolo è nato in maniera molto semplice: trovo sia un brano molto uplifting, ascoltandolo mi ha sempre dato l’idea di salire verso l’alto, come un vortice che s’innalza. Due anni fa ho creato un’installazione permanente dallo stesso titolo, nei corridoi della terapia intensiva dell’ospedale di Bergamo.
Si tratta dello stesso brano?
Il pezzo di Scacco Matto a dire la verità non ha niente in comune a livello musicale con quello dell’ospedale, che era una piccola melodia ambient, neutra e delicata. Trattandosi di un’installazione permanente in un reparto così delicato, dopo essermi confrontato con il personale abbiamo deciso di optare per qualcosa di leggero. Anche perché si tratta di corridoi di servizio, dove passano medici e infermieri ma i visitatori in teoria non possono sostare. Le sale di attesa però sono distanti e famigliari e amici aspettano comunque in questi corridoi molto brutti e freddi, senza sedute. L’idea quindi è stata quella di realizzare un intervento sonoro non invasivo, realizzato con uno strumento acustico. Adesso suona ogni 45 minuti, in loop, per la quantità di tempo necessaria a percorrere tutti i corridoi.
“Io, purtroppo, sono venuto su in un ambiente accademico. Quindi se mi metto al computer e decido di usare un suono, anziché un altro, devo trovarci una coerenza dietro”
E di “Wasting Time Writing Lorenzo Senni Songs”, pezzo dal titolo incredibile, cosa puoi dirmi?
C’è sempre un aneddoto nei miei titoli. Devo ammettere che una delle cose più divertenti di fare un disco è proprio inventarseli. Questa, in particolare, è una citazione degli Anal Cunt, una band grindcore storica per il genere. Sono davvero i peggiori, perché amano fare umorismo spinto e nero su temi sui quali non si può scherzare, come omosessualità o nazismo… ma hanno anche i migliori titoli in assoluto, davvero. Tipo: “Morrissey Is Gay” o “Your Kid Committed Suicide Because You Are A Loser”, cose così, a caso. Tra gli altri hanno anche un pezzo che si chiama “Wasting Time Writing Anal Cunt Songs”. Per questo motivo l’ho scelto, perché in quel momento di scrittura ero nella fase “scacco matto”, cioè in crisi. Nel frattempo ascoltavo un sacco di composizioni di Arvo Pärt, che ha ispirato il mio approccio pointillista alla musica, e ho rielaborato un suo brano, il “De Profundis”, riuscendo grazie a lui a concludere il mio pezzo. Quando poi ho dovuto scegliere il titolo mi sono ricordato della condizione pietosa in cui ero quando lo stavo terminando, chiuso in studio e noncurante della mia igiene personale, e ho pensato che ispirarmi agli Anal Cunt fosse perfetto.
Invece com’è andata con l’artwork di John Divola?
Si tratta di una foto che ho scoperto tanti anni fa, che fa parte di una serie di fine anni ‘70 intitolata Zuma. Ce l’ho da tanto, sia sul desktop che attaccata sul muro dello studio. L’ho scoperta perché per due anni sono andato tutti i giorni a casa di questo fotografo amico di famiglia, Guido Guidi, che mi ha mostrato lavoro di Divola: non l’ho mai più dimenticato. Negli ultimi tempi ho iniziato a guardare tutto con questo duplice punto di vista, concettuale ed emotivo, sempre cercando l’equilibrio tra questi due aspetti. Per questo quell’opera era come se mi parlasse: lo sguardo rivolto verso l’esterno di un emozionante tramonto californiano, ma dall’interno di una casa abbandonata e distrutta, dove l’artista ha realizzato diversi graffiti. Conteneva quindi l’idea di vandalizzare dei posti disabitati, ma sempre in maniera pointillista, fatta di puntini e lineette. Mi è sembrato un ritratto perfetto del mio lavoro.
Pensi che in qualche modo ti abbia influenzato?
Credo proprio di aver sviluppato il mio stile anche grazie al lavoro di Divola, leggendo i suoi testi e approfondendo le sue interviste. Facendo un parallelo con il mio disco, il tramonto è la parte emotiva, incorniciata dall’idea di vandalizzare e al contempo documentare. Il fatto che si veda la mano dell’artista rende il tutto più emozionante, almeno per come l’ho interpretata io. Poi ho avuto la fortuna di chiudere il cerchio: l’ho incontrato. Sono andato a L.A. a trovarlo e mi ha portato in un posto abbandonato dove lui ha realizzato i suoi graffiti. Qui mi ha scattato le foto davanti alla sua opera e io le ho utilizzate per la press release.
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