Nell’estate 2021 Facebook—che ora si chiama Meta—ha presentato Horizon Workrooms, un ufficio virtuale nel metaverso accessibile sul suo visore per la realtà virtuale Oculus… no si chiama Meta pure lui ora… Meta Quest 2. E ho pensato: perché non provo a scrivere un articolo nell’ufficio del futuro?
In un 2021 segnato dalle rivelazioni dell’ex dipendente Frances Haugen, dalla scoperta di una fuga di dati di cui non sono state avvertite 533 milioni di vittime, dalla stagnazione dell’utenza e dal cambio delle politiche di Apple nel tracciamento dei dati, Facebook ha annunciato di non essere più una compagnia incentrata su piattaforme social: ora è una compagnia incentrata sulla creazione del metaverso. Il fondatore Mark Zuckerberg ha definito il metaverso “un internet […] in cui siete dentro l’esperienza e non vi limitate a guardarla.” Una serie di “spazi digitali e interconnessi” dove in futuro giocheremo, socializzeremo e lavoreremo come facciamo con l’internet attuale—ma attraverso tecnologie come realtà virtuale e aumentata—senza confini tra fisico e virtuale e con la sensazione di essere veramente insieme, l’una accanto all’altro. In ufficio. Quindi, grazie a un visore Meta Quest 2 mi preparo a scoprire come sarà il lavoro del domani promesso da Zuckerberg.
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Installo Horizon Workrooms nel visore. Entro, creo il mio avatar e definisco una superficie come scrivania: il Meta Quest 2 ha delle telecamere esterne e può usarle per aprire una specie di finestra nel mio ufficio virtuale e mostrarmi gli oggetti fisici che stanno sulla mia normale scrivania. Per esempio, può mostrarmi una tastiera. Sul Quest 2 posso spesso usare una tastiera virtuale, su cui prima punto i tasti e poi li aziono premendo un pulsante dei due controller del visore. Per intenderci, è come scrivere usando solo gli indici su una tastiera sospesa verticalmente a un metro da me. Praticamente ci ballo il Tuca Tuca. Esistono già tastiere Bluetooth che vengono visualizzate in realtà virtuale come modello 3D, ma con le telecamere esterne posso vedere la mia normale tastiera, anche se per ora solo in bianco e nero e a una risoluzione bassissima.
Su queste telecamere devo aprire una parentesi. Meta ha dichiarato di non conservarne le registrazioni, perché vengono usate principalmente per mappare lo spazio e calcolare la mia posizione al suo interno. Non è neanche possibile immortalare quello che riprendono in screenshot o video: per produrre le immagini che vedete in questo articolo ho dovuto fare un giro lunghissimo che vi risparmio. E diciamo che mi fido. Ora Meta ha pure detto di voler essere “la compagnia più trasparente di internet.” Ma è anche un’azienda famigerata per il lungo elenco di modi in cui negli anni ha cercato di violare la nostra privacy e di approfittare della fiducia di utenza e istituzioni. Considerato infine che anche Zuckerberg copre con nastro adesivo telecamera e microfono del suo Mac, se avete dubbi a riguardo vi capisco, ecco.
Poi Workrooms insiste perché lasci stare i controller e usi solo le mani, sfruttando la capacità del Quest 2 di tracciarle e di interpretarne i movimenti. Il tracciamento delle mani è una di quelle cose che non riesci a credere che funzionino prima di averle provate. Poi la provi, e in effetti non funziona. Ho continuato a usare i controller, che sono pure obbligatori per certe attività di Workrooms.
Ed eccomi finalment… ah no. Devo creare un account dal mio computer e associarci il visore tramite un codice. Mi tolgo il visore, entro sul sito, mi iscrivo e creo il mio ufficio virtuale. A questo punto devo inserire il codice, ma il codice è nel visore. Rimetto il visore, guardo il codice, lo ripeto ossessivamente per non dimenticarmelo mentre ritolgo il visore, lo dimentico, ririmetto il visore, riguardo il codice, riritolgo il visore e inserisco il codice. Intanto ho dimenticato anche i broccoli sul fornello: sono rimasti a bollire per un’ora. Riririmetto il visore ed entro finalmente nel mio ufficio virtuale.
Una scrivania, uno schermo virtuale e intorno a me quasi il vuoto infinito. Sul pavimento ci sono però alcune piante, tra cui quelli che ipotizzo essere ficus. Con tutta la gamificazione del lavoro che va di moda oggi, magari con un prossimo aggiornamento i ficus aumenteranno di numero man mano che aumenterà il mio livello nell’app. Come ne Il secondo tragico Fantozzi di Paolo Villaggio, dove la scalata aziendale è rappresentata dal crescente numero di piante di “ficus, simbolo di potere,” in ufficio.
Al momento non c’è molto da fare alla scrivania (l’app è in beta). Ma se installo sul PC uno specifico software di Oculus posso collegarlo al Quest 2. Lo schermo del mio computer appare nel metaverso, e finalmente inizio a scrivere il mio articolo. Posso persino scriverlo nella sala riunioni personalizzabile del mio ufficio del futuro. In teoria potrebbero unirsi a me altre persone sia in realtà virtuale sia via webcam, ma non ho nessuno da invitare e stare in una sala riunioni vuota mi mette addosso una tristezza indicibile. Dovrebbero fare spazi di coworking in realtà virtuale.
Dopo una crisi di pianto nella sala riunioni vuota (piangere con un visore addosso non è molto pratico) torno a lavorare alla mia scrivania. C’è una certa latenza tra il computer e il visore, un ritardo nell’aggiornamento dello schermo virtuale. Procedo lentamente, facendo un sacco di errori, anche perché o conoscete a memoria i pulsanti della tastiera che state usando o non c’è modo di distinguerli nelle immagini sgranate della telecamera.
A un certo punto ho provato a usare una minuscola tastiera Bluetooth che non tocco mai e questo è stato il risultato: “Un-alra alyrrtnwwyiba [ scrivere usabdi il btossr di oCULUS una yasira bueooth ma anche qui o conodcryr prtgryysmrnyr ls ysdyirts hr dysyr undoo difficilmnrnyr.fe.” Non so se avete visto La casa, ma vi consiglio di non leggerlo ad alta voce.
Inoltre, il Quest 2 ha 2-3 ore di autonomia se non lo caricate mentre lo avete addosso, e pur essendo piuttosto comodo forse non è ancora adatto a un uso più prolungato. Insomma, mentre nei videogiochi la realtà virtuale sta già mostrando le sue potenzialità—come può testimoniare qualsiasi persona che abbia provato Beat Saber su un Quest—è decisamente troppo presto per traslocare il mio ufficio nel metaverso. Alla fine ho dovuto fare le ultime correzioni usando il vecchio e noioso schermo del computer.
Neanche Zuckerberg comunque pensa che la realtà virtuale sarà l’unico modo di interagire con il metaverso: si affiancherà alla (per ora in gran parte solo immaginata) realtà aumentata, agli smartphone, ai PC e alle console. Come Zuckerberg sa che la tecnologia non è ancora pronta a farci lavorare tutto il giorno in realtà virtuale.
Ma non è chiaro quali problemi questa tecnologia voglia risolvere. Davvero la socialità che perdiamo lavorando non in ufficio ma da remoto si recupera facendo le riunioni in realtà virtuale? E forse non dovremmo aspettarci soluzioni da una compagnia che non credo sia controverso definire “controversa” come Facebook/Meta, soprattutto in ambiti ancora così deregolamentati come la digitalizzazione del lavoro.
Con la pandemia chi ha potuto ha iniziato a lavorare da casa, e questa situazione ha provocato un’ondata di panico nelle aziende, che temevano un crollo della produttività (in realtà è aumentata). Da questo panico è derivata una crescita nell’uso di software già da tempo disponibili per sorvegliare l’attività di chi lavora, a volte senza che lo sappia. I dati raccolti possono essere analizzati e usati per ottimizzare il lavoro—o più banalmente per decidere chi licenziare—in processi guidati da algoritmi non dissimili da quelli che usano Uber e Amazon. I visori per la realtà virtuale e il metaverso possono diventare ulteriori strumenti di sorveglianza sul lavoro, una sorveglianza totale che riguarda tutto il nostro corpo. E in fondo anche Meta è interessata al metaverso per trovare nuovi modi per registrare, monetizzare e influenzare i comportamenti della sua utenza, come ha sempre fatto.
Ecco, ho l’impressione che l’ufficio del futuro non voglia piacere a me: vuol piacere ai miei futuri datori di lavoro.