Che il 25 aprile, la giornata in cui si celebra la Liberazione d’Italia dall’occupazione nazifascista avvenuta nel 1945, sia una ricorrenza poco tollerata da alcuni non è una novità.
Se oggi ci sono leader politici che annunciano non lo festeggeranno mai perché è “divisivo”, mentre opinionisti di varia estrazione lamentano una “congiura del silenzio” sui lati più oscuri (un po’ come succede con le foibe), l’offensiva revisionista sulla Resistenza è iniziata sin dal Dopoguerra, è proseguita con intensità variabile per i decenni successivi ed è esplosa negli anni Novanta—conoscendo poi la consacrazione definitiva nei Duemila, specialmente dopo il grande successo editoriale di alcuni libri divulgativi (su tutti Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa).
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Per la storica Chiara Colombini dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, si tratta di una memoria della Resistenza fondamentalmente “drogata e deformata” di cui parla in Anche i partigiani però…, un saggio uscito per Laterza nella collana di fact-checking diretta da Carlo Greppi.
Basandomi sul lavoro della storica, ho riunito cinque tra i falsi miti più diffusi su partigiani e Resistenza, provando a contestualizzarli e smontarli.
Mito #1: i partigiani erano tutti “rossi” e volevano instaurare un altro totalitarismo
Una delle argomentazioni più gettonate dai critici è che tutti i partigiani fossero comunisti—o comunque controllati dai comunisti—e che dietro l’intera guerra partigiana ci fosse un obiettivo ben più sinistro: l’instaurazione di un altro totalitarismo al posto di quello fascista.
Come scrive però Colombini, la prima cosa da fare quando si parla di Resistenza è “evitare di considerarla come un blocco compatto” e quindi appiattirla su lettere di comodo. Anzitutto, il movimento partigiano è stato attraversato fin dalla sua nascita da tantissimi percorsi, ideali e motivazioni che hanno convissuto in un difficile equilibrio di “discordia concorde.”
E se da un lato non è stata solo una “cosa da rossi,” come sostiene la vulgata, di sicuro il contributo delle Brigate Garibaldi (legate al Partito Comunista Italiano) è stato cruciale. Secondo le stime degli storici, le sole Garibaldi hanno fornito alla Resistenza il 50 percento dei combattenti. Il 20 percento veniva da Giustizia e Libertà (collegate al Partito d’Azione); mentre il restante 30 dalle Formazioni Autonome (di ispirazione militare e monarchica), dalle Matteotti (Partito socialista) e dalle cattoliche.
Tuttavia, sottolinea Colombini, il rapporto tra le formazioni e il partito corrispondente è meno automatico di quanto possa sembrare a prima vista. Le bande in larga parte nascono per iniziativa spontanea, e i partiti riuniti nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) arrivano a coordinare una cosa che era già sorta dal basso.
E infatti, prosegue la storica, “non tutti i combattenti di una formazione legata a un partito ne sono per ciò stesso membri o militanti”. Molto spesso, chi sceglie una formazione invece di un’altra lo fa per amicizie, rapporti di parentela, appartenenza territoriale, casi fortuiti e quant’altro.
Poi, certo: i militanti ci sono eccome. E una parte dei partigiani delle Brigate Garibaldi—nonché di altre formazioni d’ispirazione comunista non legate al Pci—effettivamente combatte anche una “guerra di classe,” nella convinzione che l’abbattimento del fascismo sia il primo passo per arrivare alla rivoluzione e al rovesciamento dell’ordine sociale.
Ma di fatto, ricorda la storica, dall’aprile del 1944 (cioè dopo il ritorno di Togliatti in Italia dall’Unione Sovietica) i vertici del Pci adottano un’altra strategia politica con la cosiddetta “svolta di Salerno,” mettendo davanti a tutto la guerra di liberazione nazionale insieme alle altre forze antifasciste.
Sembra quasi banale dirlo, ma l’obiettivo primario della Resistenza è sempre stato la sconfitta dei nazifascisti—e quindi la fine di un lunghissimo conflitto armato che aveva devastato l’Italia.
Mito #2: i partigiani erano tutti piccoli criminali
Quando non sono bollati come pericolosi sovversivi comunisti, i partigiani sono descritti come delinquenti che rubavano agli onesti cittadini e taglieggiavano i contadini (da qui l’epiteto di “rubagalline”).
Se questa argomentazione ha avuto successo è perché, molto subdolamente, richiama un problema reale: quello della non facile convivenza tra comunità contadine e formazione partigiane, imposta dalle drammatiche e mutevoli condizioni della guerra.
Avere “in casa” i partigiani, scrive Colombini, è rischioso sia per la vita che per la proprietà, e può esporre a terrificanti ritorsioni. Il terrore che provocano queste ultime da un lato “è tale da spezzare legami di fiducia e solidarietà,” ma dall’altro “ricade anche e soprattutto su chi lo provoca.”
In cima alla scala dell’avversione e della diffidenza, infatti, non ci sono i partigiani ma nazisti e fascisti—che col passare del tempo sono “percepiti come l’ultimo ostacolo prima di poter raggiungere la pace.” È anche per questo motivo che, afferma la storica, “la popolazione delle campagne, più o meno di buon grado, sostiene le formazioni.”
I vertici del Cln ne sono consapevoli, e si muovono per preservare un buon rapporto con loro. Non c’è infatti la minima tolleranza nei confronti di chi—sfruttando il caos della guerra e dell’occupazione—compie furti o atti di prevaricazioni: i provvedimenti adottati sono severissimi, e arriva fino alla fucilazione.
Senza il sostegno della popolazione, un movimento di lotta armata clandestino non potrebbe semplicemente esistere.
Mito #3: oltre che ladri, i partigiani erano brutali assassini
Un’altra accusa riguarda l’uso della violenza, con l’idea che tedeschi e i fascisti saranno stati brutali, d’accordo, ma pure i partigiani non erano da meno—specialmente a cavallo della Liberazione del 25 aprile 1945 e oltre. Di conseguenza, se tutti sono colpevoli allora nessuno è colpevole.
Per Colombini, questa accusa funziona perché intercetta il rifiuto della violenza che oggi fa parte della nostra sensibilità. Al contempo, rende impossibile calarsi nella realtà del conflitto e provare a comprenderla.
La premessa fondamentale da cui partire, continua la studiosa, è che non sono i partigiani a creare la violenza: la “accettano come mezzo perché già esiste”; è la condizione della “guerra totale” in cui si trovano a vivere e fa parte integrante dell’ideologia nazifascista a cui si oppongono.
Chi diventa partigiano, quindi, entra nell’illegalità accettando il rischio di morire e di uccidere. Eppure, nonostante la situazione estrema, la Resistenza si sforza di darsi delle regole per non cadere nell’arbitrio. In una circolare emanata nell’agosto del 1944, ad esempio, il Comando militare unico per l’Emilia-Romagna intima di evitare “crudeltà inutili” perché “combattiamo una guerra di liberazione dal brutale, barbaro tedesco e dalla dittatura fascista: non degradiamoci mai al livello del nemico.”
Con la proclamazione dell’insurrezione generale, però, gli argini non reggono; era impossibile che lo facessero. Tra il 20 aprile e il 10 maggio si apre così la fase della “violenza insurrezionale,” nella quale si moltiplicano gli attori in campo e in cui “l’elemento partigiano è solo uno fra i tanti che agiscono”.
Il ruolo da protagonista lo gioca la folla: persone esasperate dalle privazioni della guerra, piegate dei bombardamenti, terrorizzate dalle angherie nazifasciste e desiderose di rivalsa. Insieme alla gioia per la fine di incubo, ricorda Colombini, esplode così una rabbia che “non è possibile arrestare a comando.”
La violenza è inoltre direttamente proporzionale alla durezza dell’occupazione nazifascista, tant’è che i luoghi in cui avvengono le esecuzioni dei fascisti ricalcano la mappa degli eccedi di civili o partigiani. L’esposizione dei cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e i gerarchi fascisti a Piazzale Loreto—dov’erano stati lasciati i corpi di 15 antifascisti fucilati nell’agosto del 1944—è la rappresentazione più visibile di questa logica.
Strascichi residuali di violenza si consumano ancora tra l’estate del 1945 e quella del 1946, in un contesto ancora molto difficile e carico di tensione. A destare scalpore sono alcune azioni di matrice comunista, soprattutto quelle legate al “triangolo rosso” in Emilia-Romagna e alla “volante rossa” nel milanese.
Tuttavia, conclude Colombini, sono iniziative di frange molto limitate del movimento partigiano. Che ormai, per la stragrande maggioranza, ha accettato di lasciarsi alle spalle la lotta armata adottando “le nuove regole del vivere civile cui la loro lotta ha permesso di nascere.”
Mito #4: la Resistenza è stata inutile dal punto di vista militare
Uno dei più radicati pregiudizi sulla Resistenza è che sia stata totalmente irrilevante sul piano militare, soprattutto rispetto all’intervento degli Alleati.
In realtà, il quadro è decisamente più complicato. I partigiani non possono competere con un esercito regolare come quello tedesco, che aveva messo a ferro e fuoco l’intera Europa; il compito concreto della Resistenza, puntualizza Colombini, è dunque quello di “molestare in continuazione” tedeschi e fascisti, “renderli malsicuri, […] ostacolare i loro collegamenti e rifornimenti,” e sottrarre risorse altrimenti destinate al conflitto principale con gli Alleati.
In più, conta l’aspetto psicologico: l’azione dei partigiani impedisce ai nazisti di “sentirsi padroni indisturbati nel territorio che occupano.” Non a caso, il comandante nazista Albert Kesserling giudica una “peste” le formazioni partigiane, e ordina di colpirle senza pietà.
A ogni modo, il loro apporto non è stato di valore solo simbolico; lo dimostra il fatto che gli Alleati hanno attivamente sostenuto la Resistenza in vari modi, consci della sua importanza strategica e—in ultima istanza—militare.
Mito #5: le stragi nazifasciste contro i civili sono colpa dei partigiani
Un’altra tesi è che la guerra partigiana sia stata sconsiderata e vile, perché avrebbe provocato una guerra fratricida tra italiani. Vista così, insomma, la Resistenza sarebbe stata un fenomeno prettamente terroristico.
Ma anche in questo caso, leggere fatti storici con le lenti del presente oblitera il contesto in cui sono maturati. E nel caso di specie—come ha rilevato l’Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia—parliamo di una “violenza costante e diffusa nel territorio” scatenata dai nazisti e dai fascisti nei venti mesi che intercorrono tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, con una media di 40 morti e oltre nove eccidi al giorno.
L’occupazione disegna un mondo, nota Colombini, dove esiste solo la sopraffazione. Le azioni dei partigiani, pertanto, “si inseriscono in una spirale di violenza e possono alimentarla, ma non la creano.”
Sul punto, cioè la relazione tra attentati e rappresaglie, le polemiche antipartigiane si rovesciano con la massima potenza sui Gap (Gruppi di azione patriottica), i nuclei di matrice comunista che combattevano nelle città ed erano concepiti per “dimostrare a tutti che resistere è possibile, che il nemico non è invulnerabile e che il suo potere non è legittimo.”
L’episodio più simbolico e discusso è l’attacco in via Rasella a Roma del 23 marzo del 1944, quando una squadra di 12 gappisti uccide 33 soldati del terzo battaglione di polizia SS “Bozen.” In risposta, il giorno dopo i nazisti fucilano 335 prigionieri nelle fosse Ardeatine (dieci italiani per ogni tedesco) prelevati dalle carceri di Regina Coeli e di via Tasso.
Sin da subito si fanno strada delle versioni infamanti che avranno vita lunghissima: i partigiani potevano consegnarsi ed evitare la mattanza, ma non l’hanno colta per vigliaccheria. E pur sapendo che la rappresaglia sarebbe stata spietata, non si sono fatti troppi problemi.
Secondo la storiografia, non è stato così: quella richiesta non solo non è mai esistita, ma l’azione gappista e la rappresaglia sono due eventi distinti collegati da una decisione politico-militare. In altre parole, come ha ricostruito l’accademico Alessandro Portelli (autore di un celebre saggio di storia orale sull’accaduto), la strage delle fosse Ardeatine è una “scelta deliberata” dei nazisti, e la proporzione di 1 a 10 per una rappresaglia è totalmente arbitraria.
Insomma: addossare ai partigiani la responsabilità delle stragi nazifasciste è senza dubbio l’accusa più velenosa, che ribalta completamente la storia. Dopotutto, scrive Colombini, la Resistenza rimane “un’avventura che ha saputo riscattare il nome di un’Italia che fino ad allora era stata un paese aggressore e occupante.”