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La serie di 'The Last of Us' è una bomba quanto il videogioco

Il primo episodio della serie 'The Last of Us', tratta dal gioco d'azione omonimo, mette le cose subito in chiaro: non è un adattamento qualsiasi.
Giulia Trincardi
Milan, IT
the last of us serie tv
Immagine: HBO / SKY

La serie TV post-apocalittica The Last of Us—tratta dall’omonimo videogioco d’azione sviluppato da Naughty Dog e pubblicato nel 2013 da Sony Computer Entertainment—è iniziata su Sky a metà gennaio 2023 con un primo episodio dai chiari intenti: smarcarsi dalla maledizione dell’adattamento da videogioco a serie (storicamente difficile, se non disastroso), soddisfare le nostre fantasie di sopravvivenza alla fine del mondo come solo il genere apocalisse zombie sa fare, e ancorare il tema del prodotto originale (una terrificante infezione su scala globale) a una realtà che—reduce dalla pandemia di Covid-19—non può più guardare a questo argomento con occhi ingenui.

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Ognuna delle scelte compiute in questo primo episodio dagli autori—Neil Druckmann, già autore del gioco originale, e Craig Mazin, autore della miniserie Chernobyl—merita attenzione, ma c’è qualcosa di particolarmente degno di nota nel prologo: con un talk show ambientato alla fine degli anni Sessanta che ragiona su pandemie e crisi climatica, The Last of Us offre un monito dal passato che riecheggia nel presente in modo tutt’altro che fantascientifico.

Attenzione: da qui in poi troverete spoiler sul primo episodio della serie e sul videogioco del 2013. Procedete con cautela se non li avete visti/giocati.

La differenza tra serie e videogioco di ‘The Last of Us’

A differenza della serie, il gioco originale apre in medias res: dopo una brevissima scena cinematografica—la telefonata tra il protagonista Joel e il fratello Tommy, la figlia Sarah che dà il regalo di compleanno a Joel—, il giocatore inizia controllando Sarah, che si sveglia sola di notte per un’altra telefonata di Tommy e i primi segni di caos nelle strade. Lei è assonnata e spaventata, dunque manovrarla è complesso; quei primi minuti di gioco sono costruiti per farci immedesimare in lei, vivere il suo personaggio come protagonista (o quasi)—finché non accade l’irreparabile e Sarah diventa piuttosto il trauma emotivo che Joel porterà con sé (e noi con lui) per il resto del gioco.

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Se il videogioco sfrutta le meccaniche di interazione proprie del mezzo per costruire questa illusione, la serie lo fa comunque magistralmente seguendo Sarah durante la sua giornata—a casa, a scuola, in un negozio, dai vicini e di nuovo sola a casa—assegnandole tutto lo spazio narrativo (e intuizioni e presagi) di una protagonista. Funziona così bene che, nonostante io sapessi benissimo cosa sarebbe successo dopo, per un attimo ho creduto che la scena della sua uccisione non sarebbe arrivata davvero.

Ma la serie non apre subito con Sarah. Si prende uno spazio in più, prima.

I primi minuti sono dedicati al set di un talk show andato in onda nel 1968, dove due epidemiologi discutono con il presentatore—man mano sempre più a disagio—di un futuro pandemico. Mentre il primo scienziato parla di virus e batteri, il secondo postula sui funghi, sostenendo che, nonostante gli agenti citati dal collega abbiano storicamente generato pandemie anche gravissime, l’umanità è in qualche modo sempre sopravvissuta. Ma i funghi rappresentano un altro ordine di minaccia: una che punta a insidiarsi all’interno delle specie viventi e controllarle fino all’ultimo esemplare, piuttosto che semplicemente decimarle. E, benché funghi capaci di controllare gli esseri umani non esistano, prosegue, un cambiamento nelle condizioni ambientali—come un innalzamento delle temperature medie del pianeta—potrebbe far insorgere nuove mutazioni.

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A un gioco del genere, conclude il secondo scienziato, il nostro destino sarebbe perdere e basta.

Cosa c’è di vero nella pandemia di ‘The Last of Us’

Nel raccontare quel momento di televisione di un passato fittizio, The Last of Us compie un’operazione di paradossale realismo storico: sul finire degli anni Sessanta, infatti, la comunità scientifica era davvero già consapevole di un cambiamento climatico creato dall’umanità e delle conseguenze del salto di specie (dagli animali all’uomo) di virus e batteri, abilitato da un’urbanizzazione violenta e dall’incremento e maggiore velocità degli spostamenti internazionali.

Nel 1972, un gruppo di scienziati, umanisti e imprenditori legati dalla comune preoccupazione per la situazione mondiale fondò un’associazione nota come Il Club di Roma e pubblicò un trattato di 200 pagine intitolato “I limiti dello sviluppo”—in cui venivano descritti una serie di potenziali scenari catastrofici se l’umanità non avesse posto un limite ai ritmi di crescita e consumo. Lo scenario peggiore aveva previsto il collasso della civiltà senza scampo prima della metà del Ventunesimo Secolo.

50 anni dopo, le previsioni e i modelli del Club di Roma sono stati messi alla prova da nuovi studi sulla base di dati empirici aggiornati. Risultato: il testo originale—diventato un best-seller e tradotto in decine di lingue, ma oggetto anche di una campagna di derisione e screditamento—ci aveva azzeccato alla grande.

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Ancora, negli anni Sessanta non c’era solo la memoria storica delle grandi pandemie batteriche e virali—come peste (la cui seconda “ondata” durò letteralmente secoli), tifo (che aveva decimato i soldati di Napoleone in Russia, ma anche moltissime persone recluse nei campi di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale), colera, e influenza (la Spagnola da sola uccise 50 milioni di persone tra il 1918 e il 1920); c’era anche una nuova consapevolezza del potere di vaccini e metodi sanitari di contenimento: per esempio, proprio tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta, la massiccia campagna di vaccinazioni portò all’estinzione del virus del vaiolo, che aveva ucciso—si stima—mezzo miliardo di persone solo nel Ventesimo secolo.

Ora, per quanto The Last of Us basi la sua pandemia di finzione su un fungo molto reale (il Cordyceps è davvero un genere di funghi parassiti che non vuoi incontrare se sei un artropode), è ovviamente soprattutto un’opera di fantasia, che si prende tutte le dovute libertà del genere e non deve essere confusa né con la realtà presente, né con qualsivoglia futuro. Un’apocalisse fungo-zombica d’azione, d’altronde, è molto più appassionante da raccontare rispetto a una fine del mondo fatta di caldo umido, smog, deforestazione, zecche e microplastiche cancerogene.

Probabilmente (chissà) non ci aspetta un futuro come quello di The Last of Us. Ma il passato di consapevolezza che è stata ignorato in favore di uno sviluppo insostenibile nella serie è esattamente lo stesso che ci guarda da lontano nel nostro presente. Non è un caso, forse, che nel codice che Joel usa con i suoi contatti alla radio e che Ellie riesce a decifrare nell’episodio, trasmettere musica proprio degli anni Sessanta significhi “nothing in,” “niente di nuovo.” Quello che sappiamo ora è quello che sapevamo anche allora.

Nell’ancorarsi alla realtà con questa introduzione, la serie non si sta solo rendendo più credibile—rinunciando a quell’ingenuità del genere “zombie” dove sembra sempre che i personaggi non abbiano mai visto un film di Romero quando incontrano il primo morto che cammina; si sta anche facendo portavoce di un “avremmo dovuto ascoltare la scienza dall’inizio” che suona fin troppo familiare oggi. E, senza dubbio, ha ragione.