A transmasculine person waiting for the bus
Immagine: The Gender Spectrum Collection, VICE
Tecnologia

Le città non aiutano donne, minoranze e poveri. Come renderle inclusive?

Abbiamo chiesto ad alcune urbaniste femministe come cambiare le grandi città post Covid-19, e farlo in favore di una vita più comunitaria e sostenibile.
Alessandro Pilo
Budapest, HU

Questi mesi di pandemia stanno aggravando disparità sociali ed economiche già note, ma offrendo anche un'occasione per mettere in discussione molti aspetti della nostra vita che non funzionano, compresa l'architettura delle città. Non possiamo più far finta di nulla dopo che per mesi mura domestiche e quartieri circoscritti sono diventati l'unico spazio vitale possibile, e abbattere barriere (letteralmente e non) nei centri urbani potrebbe favorire una ripresa economica più rapida e sostenibile.

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Le grandi città portano i segni delle rivoluzioni industriali degli ultimi secoli e dei fenomeni di gentrificazione più recenti: sono state progettate separando i quartieri delle industrie e delle aziende da quelli residenziali, con un tragitto che favorisce storicamente l'uso della macchina e si è basato per decenni sull'idea che fossero soprattutto i padri di famiglia a lavorare.

Oggi, però, sempre meno persone posseggono un'auto, le modifiche ai quartieri centrali in favore di un turismo di consumo ha spinto molti in periferia (spesso più simili a ghetti che a quartieri) e il mondo del lavoro è molto più precario.

Con lo scopo di rendere gli spazi delle città più accoglienti e funzionali per tutti, un movimento di architette e urbaniste propone un approccio alla pianificazione urbana intersezionale e di genere. Ovvero: per rendere una città più democratica, questa deve essere in pratica pensata per le esigenze delle donne e delle minoranze, come persone LGBTQ+, migranti, disabili, anziani e bambini—o più semplicemente: di tutti.

Se il coronavirus ha costretto a ripensare il modo in cui viviamo lo spazio pubblico, ora più che mai dobbiamo evitare che i centri abitati post-COVID accentuino ancora di più le disparità. Così, ho contattato alcune esperte di urbanistica femminista per parlare dei rischi e delle potenzialità di questo momento storico.

Considerato che in Italia una donna su tre dichiara di essere stata vittima di molestie, e che l'88 percento delle donne italiane intervistate in un studio internazionale ha detto di aver cambiato percorso per tornare a casa in seguito a molestie subite in strada, la sicurezza è un problema onnipresente. Adriana Cicoletto, membra del collettivo catalano di urbaniste femministe Punt6, mi spiega che quando una strada fa sentire una donna poco sicura, è per via di tre fattori: le attività che si svolgono, la visibilità, e la dimensione sociale, ossia chi le frequenta. “Inoltre bisogna distinguere tra la violenza comune—quella di una rapina, per intenderci—e quella esercitata con occhiate o parole, che impedisce alle donne di godere dello spazio pubblico liberamente”. Un problema pressante anche per le persone LGBTQ+ o nere, particolarmente vulnerabili alle aggressioni verbali o fisiche a causa di pregiudizi omofobici, transfobici o razzisti.

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Il collettivo di urbaniste Punt6. Immagine per loro gentile concessione

Una strada vivace e frequentata è solitamente più rassicurante, ma questi due elementi potrebbero presto venire a mancare: per via della crisi economica post-COVID molte attività commerciali rischiano di non riaprire, mentre per ciò che riguarda il traffico pedonale Roberta Calcina, esperta di mobilità sostenibile, mi spiega che “negli ultimi mesi siamo stati bombardati dal messaggio che per uscire di casa dobbiamo avere un motivo valido, funzionale o produttivo. Ecco che di colpo stare in strada non ci sembra più un diritto e un piacere come prima; questo porterà a una riduzione del traffico pedonale e a vie meno ospitali, soprattutto per le categorie più vulnerabili.”

L’architetta Dafne Saldaña Blasco dello studio di architettura femminista Equal Saree chiarisce sarà fondamentale ripartire e investire a livello micro-comunitario. “Durante la quarantena la vita di quartiere si è rivelata essenziale. In chiave strategica bisognerebbe creare rioni compatti e di uso misto, in grado di offrire tutti i servizi basici a una distanza a piedi di 5-10 minuti, senza bisogno di spostamenti troppo lunghi per ottenere ciò che ci serve.”

La mobilità sarà un altro aspetto chiave. Vari studi mostrano infatti che gli uomini ricorrono generalmente all’auto, mentre le donne si spostano più frequentemente a piedi o con i mezzi pubblici. Ciononostante il trasporto urbano non è pensato per loro, visto che le corse si concentrano sulle ore di punta lavorative e trascurano altri momenti della giornata, per esempio quelli in cui è necessario fare la spesa o portare i bambini a scuola o dal dottore, compiti questi che statisticamente ricadono più frequentemente ancora sulle donne.

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Per non parlare della carenza di linee notturne, che toglie alle donne che lavorano in orari meno canonici—spesso donne migranti provenienti dalle periferie—il diritto di recarsi sul posto di lavoro in condizioni agevoli e sicure, e a quelle che escono la sera di farlo senza essere costrette a spendere soldi per un taxi.

Il coronavirus sta già peggiorando la situazione: durante la quarantena le aziende di trasporto pubblico hanno limitato la frequenza e la percorrenza. A Roma le corse notturne sono tuttora sospese, mentre un po’ dappertutto quelle giornaliere vengono attualmente offerte con limiti sulla capienza, il che allunga i tempi d’attesa dei passeggeri.

Unica nota positiva sul fronte della mobilità: la stagione calda sta favorendo le iniziative e comunali che incentivano gli spostamenti sicuri a piedi e in bicicletta, si va dal raddoppio della larghezza dei marciapiedi alla chiusura di corsie stradali per trasformarle in ciclabili ad uso esclusivo. Milano, almeno sulla carta, si sta rivelando all’avanguardia in Europa col suo progetto di trasporto alternativo.

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Intervento urbanistico dello studio di architettura Equal Saree a Santa Coloma de Gramenet, città nell'area metropolitana di Barcellona. Immagine per loro gentile concessione

L’urbanista femminista inglese Clara Greed ha affermato che “se vuoi sapere che ruolo occupano le donne in una specifica società, guarda la coda che si forma nei bagni.” Tra le questioni di genere legate allo spazio urbano, quella dei servizi igienici è una delle meno discusse. Per via dell’uretra più corta, del ciclo mestruale e di altri fattori le donne devono andare al bagno più frequentemente, e in media una donna ci passa tre volte più tempo di un uomo. Ma in un bagno maschile, grazie agli urinali sul muro, è possibile offrire a parità di spazio più postazioni.

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Ora che le città ripartono le donne si troveranno davanti a due problemi. Il primo sarà la mancanza di bagni disponibili: quelli pubblici già da anni sono una specie in via d’estinzione, restano i bar ma è un’incognita quanti saranno in grado di riprendersi dopo i mancati incassi di questi mesi, o adattarsi alle nuove direttive sul distanziamento fisico. Il secondo problema sarà la questione igienica: se disponibili, quanto sarà consigliabile usarli? Le toilette andranno totalmente ripensate, per esempio attraverso porte e rubinetti contactless. Potrebbe essere questa l’occasione per rivederne anche la parte strutturale.

Esisterebbe già un modo per ridurre la coda nei bagni e tenere a mente i diritti civili: i servizi unisex non solo uniformano i tempi d’attesa ma hanno il vantaggio di garantire alle persone transgender e non binarie—a rischio di aggressioni fisiche o verbali all’interno delle toilette tradizionali—il diritto di andarci in sicurezza. Ma nell’immediato si rischia che la mancanza di wc adeguati renda più complicati gli spostamenti fuori casa, limitando soprattutto la libertà di movimento delle donne.

Malgrado questi esempi rendano palese la necessità di ripensare vari aspetti del design urbano, l’urbanistica femminista spesso è oggetto di critiche. “Ci viene detto che nel pianificare un centro abitato non si dovrebbe tenere conto dei ruoli di genere, altrimenti si riproduce una disparità imposta dalla società. Ma noi partiamo da un dato di fatto: statisticamente certi compiti pesano soprattutto sulle donne, la progettazione urbana deve avvenire a partire dalle loro necessità attuali,” afferma Cicoletto.

“Guarda la situazione attuale, asili, scuole e centri per anziani saranno gli ultimi servizi a ripartire”, chiosa Blanca Valdivia, anche lei di Punt6. “Questa mole di lavoro domestico extra ricadrà soprattutto su persone che non l’hanno scelto, a cui spetterà comunque per il fatto di essere donne.” Non è un caso che il 72 percento dei lavoratori rientrati al lavoro in Italia il 4 maggio siano uomini.

Le due esperte catalane concordano che l’urbanistica non si sostituisce alla necessità di politiche pubbliche che eliminino queste disparità. Ma perlomeno una pianificazione intersezionale crea le condizioni ideali per centri abitati inclusivi, che generino benessere per tutte le categorie meno rappresentate.

“Il buen vivir, o come lo chiamiamo noi femministe ‘una vita degna di essere vissuta,’ dovrebbe essere uno degli obiettivi su cui basare le politiche di spazio pubblico attuale," conclude Saldaña Blasco. "Perché la salute dei cittadini andrebbe intesa in un senso più ampio, non solo come assenza di malattie.”