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Salute

Ho abortito in uno dei paesi più progressisti al mondo, eppure non mi sono mai sentita così sola

L’aborto non è mai senza stigma, neanche nei paesi più progressisti come l'Olanda.

È il marzo 2020 e io, completamente inebetita, sto fissando un test di gravidanza con due linee rosse che indicano un risultato positivo. La mia relazione era finita due giorni prima, avevo appena saputo che la mia coinquilina ed io saremmo state presto sfrattate dalla nostra casa e, per colpa di una lunga fase di procrastinazione, avevo solo un mese per finire la mia tesi del triennio.

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Restare incinta era l’ultimo di una lunga serie di eventi stravolgi-vita che non avevo previsto. Alla mia coinquilina, invece, era venuto il sospetto. Da settimane accusavo una stanchezza anomala, l’unico cibo di cui avevo voglia era il mango—che vomitavo subito dopo aver ingerito—e avevo reazioni ambivalenti a qualsiasi cosa. “Penso tu debba fare un test,” mi ha detto un giorno.

Vivo in Olanda, un paese che vanta alcune delle leggi sull’aborto più progressiste del mondo. Qui puoi abortire fino a 21 settimane dal concepimento e fino a 24 settimane in caso di rischi di salute per la persona incinta. Stando ai report del 2021 dell’European Abortion Policies Atlas—una rete di membri del Parlamento europeo impegnati a proteggere i diritti umani legati alla sessualità e alla riproduzione—, questa legislazione è tra le più permissive in Europa, dove la maggior parte dei paesi (13, tra cui Italia, Danimarca, Finlandia, Grecia e Irlanda) limitano il periodo in cui è possibile abortire a circa 12 settimane dal giorno dell’ultima mestruazione.

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In altri sette paesi, tra cui Austria, Germania, Francia, Belgio e Spagna, è possibile abortire fino a 18 settimane, mentre in Polonia e a Malta gli aborti sono di fatto illegali. Solo Svezia e—se consideriamo i paesi appena oltre il confine dell’Unione Europea—Regno Unito e Islanda hanno leggi sull’aborto paragonabili a quelle olandesi, consentendo l’accesso alla procedura fino a 24 settimane.

L’Olanda perde alcuni punti nella classifica dell’Atlas perché bisogna aspettare un periodo di cinque giorni di “riflessione” prima di poter accedere al servizio di cura. Altri otto stati membri dell’UE impongono periodi di attesa simili. Ma, se non altro, in Olanda l’aborto è completamente coperto dal sistema sanitario, cosa valida solo per 15 stati dell’Unione Europea.

In totale nel 2019 sono stati eseguiti 32.233 aborti in Olanda, che corrispondono a nove persone su 1000 tra i 15 e i 44 anni. È un dato molto al di sotto della media internazionale di 39 su 1000, che è peraltro una stima al ribasso e incompleta, considerato quanti aborti non sono registrati perché avvengono in contesti di illegalità.

È un fatto che trovo interessante, perché chi si oppone al diritto all’aborto ripete spesso che un accesso facile e sicuro comporterebbe per forza un numero più alto di interruzioni di gravidanza. Lo ripetono nonostante non ci sia alcuna prova della cosa, anzi: il tasso degli aborti in Olanda è crollato fino a stabilizzarsi ai dati odierni dagli anni Novanta in poi. Un dato che invece incide significativamente sulla frequenza degli aborti è lo stato socioeconomico e l’educazione sessuale delle persone fisicamente in grado di restare incinte. Come spiega un report dell’ONU del 2020 sulle leggi sull’aborto, “limitare l’accesso legale all’aborto non riduce il bisogno di ricorrere alla procedura, ma anzi è facile che porti a un aumento di persone che cercheranno di abortire in condizioni illegali e pericolose per la loro salute.”

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Anche gli Stati Uniti hanno leggi sull’aborto progressiste, ma a livello federale. Nella pratica, infatti, la legge cambia di stato in stato, con posti come il Texas che cercano da tempo di imporre un limite di sei settimane sulla procedura, per quanto la proposta sia stata rimbalzata più volte da vari tribunali. Per mettere le cose in chiaro: se sei una persona incinta da sei settimane, significa che hai un ritardo delle mestruazioni di due settimane, una cosa che capita facilmente anche per motivi di stress o di squilibri ormonali. Moltissime persone non hanno un ciclo regolare. Io stessa ero incinta di sei settimane quando ho fatto il test. Se fossi stata in Texas, lo stato avrebbe potuto costringermi a portare avanti la gravidanza.

Ci penso costantemente. Le persone che hanno più probabilità di richiedere un aborto hanno tra i 18 e i 29 anni di età. Io, con la mia gravidanza indesiderata a 25 anni, sono un caso da manuale. Ma nonostante avessi la legge e il sistema sanitario dalla mia parte, il percorso non è stato affatto facile.

Tutto l’opposto. Sono sempre stata pro scelta. Ho anche sempre desiderato diventare madre, ma solo quando la mia vita fosse stata stabile. Nonostante le circostanze in cui mi trovavo fossero del tutto incompatibili con l’avere un figlio, ero comunque attanagliata dai dubbi.

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Prima di prendere una decisione definitiva sentivo di voler parlare con qualcuno, ma non riuscivo a pensare a nessuno che avesse vissuto un’esperienza simile, nonostante le persone che mi circondavano fossero tutte piuttosto aperte. Stando a uno studio condotto nel 2020 dalla società di consulenza Ipsos e dalla ONG Humanistisch Verbond, il 69 percento delle persone che vivono in Olanda difficilmente ha parlato di aborto con qualcuno che fa parte della loro vita. Eppure, l’85 percento dice che l’argomento dovrebbe essere discusso più apertamente.

Tre giorni prima che scoprissi di essere incinta, l’Olanda è entrata in un “lockdown intelligente,” introducendo una serie di misure restrittive per contenere la pandemia di COVID-19. Nessuno sapeva ancora un granché del virus e mi è stato detto che se avessi avuto anche solo il più leggero dei sintomi, non mi avrebbero fatta entrare in una clinica per aborti, né vedere il mio medico di base. Nonostante lo stato di emergenza, il mio medico non poteva mandarmi per email la ricetta per la pillola abortiva. Ho dovuto mettermi in quarantena per due settimane nella mia piccola stanza e sperare di non sviluppare alcun sintomo da COVID-19, altrimenti avrei dovuto rimandare ulteriormente la procedura.

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Col passare dei giorni, la decisione diventava più complessa. Volevo essere abbracciata, ma avevo paura di toccare le mie coinquiline, perché avvicinarmi troppo a chiunque poteva mettere a rischio il mio appuntamento. Ero consumata dalla paura di dover tornare dai miei genitori e crescere un figlio lì. Continuavo a lottare contro senso di colpa e vergogna, ma non riuscivo ad aprirmi con amici e amiche, perché non mi sembrava giusto dare una notizia del genere al telefono.

Alla fine, sono riuscita a interrompere la gravidanza e a cominciare a rimettere a posto i pezzetti della mia vita. Ma desideravo ancora tantissimo poter avere una conversazione franca e dare senso a ciò che avevo passato. Così ho deciso di parlare con Eva de Goeij, fondatrice del programma Abortion Buddies, che fa incontrare persone che vogliono abortire con volontari e volontarie disposti ad accompagnarle in clinica e proteggerle da gruppi antiabortisti.

“Ho ragionato sulla mia decisione e mi sono mostrata coraggiosa, una volta in clinica, ma provavo anche tantissima vergogna. Ho pianto tantissimo,” mi dice de Goeij davanti a un caffè. Ho sentito anche io di dovermi dimostrare sicura e coraggiosa. Quando mi sono svegliata dopo la procedura, ancora un po’ in botta da anestetici, ha rassicurato i medici di poter camminare da sola fino al letto. La fase di recupero dura qualche ora, ma io ho chiesto di andare a casa dopo 15 minuti, per lavorare alla tesi. E una volta uscita, ho deciso di camminare fino a casa, perché non volevo disturbare nessuno chiedendo passaggi. Volevo che non diventasse una cosa troppo seria.

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Eppure, il mio corpo mi stava dicendo che non ero forte quanto avrei voluto. Nelle settimane prima dell’appuntamento, mi sentivo sempre stanca e sopraffatta dalle emozioni. “Le interviste fatte per le nostre ricerche mostrano che la gravidanza è un momento di enorme confusione per molte persone. Come se la loro testa fosse immersa nella nebbia,” mi racconta de Goeij.

Sentirsi insicura, incolpare me stessa per tutto e andare nel panico per nessuna ragione—ho collegato tutto a mie presunte mancanze. Ma, in realtà, gli ormoni in circolo nel sangue e lo stato costante di stress avevano avuto un impatto enorme. Ho faticato per un po’, anche dopo la procedura. Se avessi saputo che è possibile soffrire di depressione dopo un aborto (anche spontaneo), avrei saputo comprendere meglio i miei sentimenti.

Un’altra cosa che de Goeij ed io abbiamo in comune è la mutata percezione dei nostri corpi. All’improvviso, trovavo il mio corpo bellissimo nonostante avessi preso qualche chilo. Il seno era più pieno ed ero affascinata dalla pancia. “Posso assolutamente capire,” dice de Goeij. “Era un sentimento ambiguo, ero tanto orgogliosa quanto in preda alla vergogna. Mi sentivo super femminile e pensavo ‘guardami, guarda di che cosa sono capace’.”

Nel mio caso, i segni della gravidanza sono ancora visibili. All’inizio mi risultava difficile guardarmi allo specchio, perché dovevo confrontarmi col fatto che non ero più incinta né avevo partorito. Ora posso dire che non mi sono mai sentita così sicura del mio corpo. Quando lo guardo, penso a tutte le cose incredibili di cui è capace.

Come spiega de Goeij, prendendo in prestito le parole della filosofa olandese Trudy Dehue, il modo in cui parliamo di aborti è incentrato sul feto come entità separata, non come parte della persona incinta. Penso che questa decisione sia così stigmatizzata in Olanda e in altri paesi occidentali perché il conservatorismo cristiano è incorporato nel sistema legislativo, nel tessuto della nostra società e in qualsiasi dibattito.

Ad oggi, non sentiamo abbastanza storie di gravidanze indesiderate. Per me, parlare del mio aborto è stato incredibilmente d’aiuto (questo non significa che sia così per tutte le persone, ovviamente, e costringere chiunque a parlare sarebbe sbagliato). Se solo più persone condividessero esperienze e prospettive diverse, mostrando che sono tutte valide e capaci di coesistere una con l’altra, allora lo stigma inizierebbe a dissolversi.

Un approccio simile potrebbe anche incentivare sistemi medici basati su comprensione ed empatia, prima e dopo la procedura. Ecco perché, nonostante la mia vergogna, ho deciso di raccontare questa storia. Perché so quanto è importante capire che non si è davvero un caso isolato.