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Illustrazione per gentile concessione di Vincenzo Marino.
Cultura

Com'è invecchiare su Internet

Ne abbiamo parlato con Vincenzo Marino, autore della newsletter "zio" e del saggio "Sei vecchio."
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Fino a non troppi anni fa, Internet era considerato il dominio esclusivo dei millennial—ossia la prima generazione nata e cresciuta a cavallo tra l’era analogica e quella digitale.

Ora è cambiato praticamente tutto; e quella dei millennial è la prima generazione che si rende conto di star diventando vecchia su Internet, che ormai segue liturgie e trend dettati dalla cosiddetta Generazione Z.

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Da tempo Vincenzo Marino segue l’evoluzione del nostro modo di stare in rete con la sua newsletter zio, che ora è diventata anche un libro intitolato Sei vecchio (pubblicato da nottetempo). Per l’occasione gli ho fatto qualche domanda.

Vincenzo Marino presenterà il suo libro insieme a Leonardo Bianchi il 24 marzo alle 19 presso la libreria Sinestetica, a Roma.

Scorri in basso dopo l’immagine per leggere l’intervista.

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VICE: Ciao Vincenzo. Parto da un’immagine: è il 2013 e la rivista Time dedica la sua copertina ai millennial, definendola una generazione pigra e narcisista che però “ci salverà da tutto.” Dieci anni dopo, i millennial su Internet sono un gradino sotto i boomer, cioè una roba vecchia. Cos’è successo nel frattempo?
Vincenzo Marino
: È successo che siamo invecchiati: sia noi, che i nostri luoghi. È come quando torni a casa da fuorisede dopo tanti anni: coi locali che cambiano, e i “nuovi” giovani che si ritrovano in altri posti.

La differenza è che, rispetto a qualche tempo fa, siamo la prima generazione che ha avuto coscienza di sé in rete. E che per la prima volta si è vista invecchiare davanti a questo specchio, mentre gli nascevano sotto i piedi nuove piattaforme e nuovi linguaggi.

Quella che viene definita Gen Z—cioè quella di chi è nato fra il ’97 e il 2012—è nata e cresciuta con la rete, e su questa ha imparato da subito a ricrearsi nuove consuetudini e nuovi consumi culturali. Che a una lettura superficiale appaiono oggettivamente incomprensibili.

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Poi vabeh, anche di loro è stato detto che “ci salveranno.” Limitiamoci a dire “magari.”

Mentre i millennial invecchiano, si legge in alcune analisi che citi nel libro, Internet è diventato il regno assoluto della Generazione Z. Ma è davvero così? C’è una separazione così netta tra le generazioni?
La separazione non è così netta: alcuni dei creator più amati rientrano anagraficamente nel gruppo dei millennial. Altri, giovanissimi, si richiamano esplicitamente a youtuber della “prima repubblica” dei social—penso al King Ash e al suo successo fulminante.

La differenza, forse, sta più nel modo di concepire le nuove piattaforme: non più come rete di relazioni, sulle quali scambiarsi dati, informazioni e—anche—pezzi di intrattenimento, ma delle vere e proprie piattaforme performative: alla portata di tutti, e sulle quali chiunque può ambire di entrare nell’agone col proprio contenuto.

In questo senso, la rete è sì diventata dominio della Gen Z, ma per sovraccarico da intrattenimento.

Nel tuo saggio racconti alcune parabole davvero incredibili, tipo quella di Donato De Caprio o Saverio Riccelli—due sconosciuti che sono diventati famosi da un giorno all’altro. Donato stesso dice che “ho avuto successo e non so perché”. Ti sei fatto un'idea del perché, be’, abbiano avuto successo?
Bisogna distinguere due aspetti. Da un lato c’è quello “tecnico”: l’algoritmo di TikTok, basato più sui tuoi interessi e il tuo comportamento all’interno della piattaforma che sulle relazioni, ha riscritto le regole della viralità, concedendo a chiunque di riuscire a raggiungere platee quantitativamente inimmaginabili, apparentemente senza una motivazione specifica.

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Dall’altro, c’è un elemento “qualitativo”: a emergere sono sempre più i contenuti che mostrano contesti genuini, persone sinceramente innocue, calati in scenari che appaiono come “autentici”: la salumeria, la stalla, la pescheria, il negozio d’abbigliamento per bambini, lo stand dello street food.

L’unione di questi due aspetti ha probabilmente fatto da propulsore per Donato e Saverio: un quarantenne addetto ai panini in una salumeria, e un giovane pastore calabrese, con due parabole diverse ma rappresentative di cosa voglia dire la fama di internet oggi.

Un’altra tendenza che emerge con forza dal libro è che ormai tutto è content—nel senso che ogni aspetto della vita offline è potenzialmente traducibile in un contento da monetizzare, incluso il sonno. Pensi che sia responsabilità di Twitch o TikTok, cioè delle piattaforme, o c’è qualcosa di più profondo?
Le piattaforme di oggi offrono possibilità ben precise, e probabilmente incoraggiano anche una certa tendenza—un terzo dei ragazzi intervistati da varie ricerche sogna di diventare youtuber da grande, per dirne una.

Dormire in diretta su Twitch, come nel caso di GSkianto che racconto nel libro, risponde certamente a un’esigenza contenutistica che prima non esisteva—ossia la possibilità di mandare in streaming da casa qualsiasi cosa, e l’esistenza di un format specifico come le sleeping stream.

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Ma la sensazione che ho è che l’offerta di oggi, caratterizzata questa facilità nel poter diventare virali in modo quasi casuale, abbia intercettato una domanda preesistente, umanissima e ancora non pienamente ascoltata prima: il desiderio di essere visti da più persone possibile nel modo più semplice possibile. 

I creator di contenuti spesso parlano dei loro crolli emotivi e dell’enorme stress legato a questo lavoro. Pensi che ci sia una sensibilità diversi alla salute mentale rispetto alle precedenti generazioni? Oppure siamo di fronte a un altro content?
Entrambe le cose. Poco fa stavo guardando un video appena pubblicato da un noto youtuber italiano, e intitolato “La mia salute mentale.” La clip dura venti minuti, di cui quindici in cui l’autore racconta un po’ della sua vita e del suo curriculum. Per poi chiudere gli ultimi cinque minuti sui suoi stati d’ansia.

È chiaro che un discorso il più possibile pubblico su questi temi possa contribuire a combattere vecchi stigma e a normalizzare la discussione su terapia, psicofarmaci, depressione. Ma è altrettanto evidente, a giudicare dalla qualità spesso misera degli interventi in materia, che buona parte dei creator ne stia facendo un ennesimo content “genuino” da spacciare ai propri utenti.

Anche se TikTok è il social più grosso e moderno, molti dei suoi contenuti e format sono in realtà vecchi. Tipo gli scherzi telefonici, l’inseguimento delle borseggiatrici in stile Striscia la notizia, e tanti altri “esperimenti sociali” visti in tutte le salse. Ti sorprende questo aspetto?
Sì, è abbastanza sorprendente: a volte sembra di sentire la Gialappa’s durante le cosiddette video reaction, all’interno delle quali i creator commentano video altrui o show televisivi. Altre volte trovi robe che sembrano davvero girate dai video dei fratelli Lumière: ti sfido a guardare “l’innaffiatore innaffiato” del 1895 e a non vederci i Me Contro Te o alcuni prank di TikTok.

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Poi, l’evidente differenza rispetto a prima sta nel fatto che ognuno può accendere la camera su se stesso, quando vuole, e trasmettere. O sugli altri: come avviene in queste settimane nelle metro di Milano e Roma, con gli Staffelli improvvisati che riprendono presunte borseggiatrici—senza neppure il filtro editoriale di una redazione.

A proposito di cose che non spariscono mai, Silvio Berlusconi ha avuto una specie di terza (o quarta) vita su TikTok—sia come politico che come meme motivazionale. Ci puoi spiegare da dove viene questa ossessione con il mindset?
Da anni, in rete, circolano video in cui ci si spiega come fare i soldi. La novità è che da qualche tempo sembrano aver fatto un salto evolutivo, circolano su TikTok, Instagram e YouTube, e condizionano parte della produzione digitale di oggi—un tormentone mezzo meme, mezzo pensiero magico.

Sono messaggi per lo più epici, in cui si sprona il prossimo a mettercela tutti e a farcela ad ogni costo. Spesso vengono usate citazioni di personaggi famosi—talvolta fuori contesto, come lo youtuber FaviJ o il rapper Lazza—per arrivare a derivazioni ultra-liberiste, machiste, perfino aggressive.

E tra questi personaggi, Berlusconi è stato spesso adottato—ironicamente, ma anche no—come termine di paragone per una vera vita da “maschio sigma”, versione evoluta del già noto “alfa”: per spiegare come si dovrebbero “trattare” le donne, i nemici, il potere. E come, di conseguenza, ci si dovrebbe comportare per raggiungere l’emancipazione economica e personale.

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Per finire, si parla molto di era post-social o di morte dei social network. Ma siamo davvero alla fine di questa esperienza? Oppure ormai Internet coincide con i social, che a questo punto sarebbero l’acqua in cui sguazziamo?
In giro da mesi esiste questo vasto dibattito a riguardo: c’è chi sostiene che la stessa parola “social” non abbia più senso, alla luce del successo di meccaniche come quelle di TikTok. E chi invece ritiene che già adesso—come dici—sguazziamo in un’acqua fatta di reti di conoscenze e relazioni che non può non essere considerata, nella sua interezza, come “social”.

Non saprei dove posizionarmi, in questa dialettica. Per certo, impormi per mesi una dieta digitale molto ferrea—fatta di un’ora di TikTok, un’ora di YouTube, un’ora di Twitch al giorno—mi ha aiutato a intravedere un quadro: se per “social” intendiamo la relazione col prossimo, la mera comunicazione, forse siamo già un po’ più avanti.

Forse siamo nella fase dell’auto-rappresentazione. Che di “social”, se ci pensi, non ha poi così tanto.

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