Non sono mai stata una fanatica dei lievitati. Mentre sembrava che il mondo intero facesse pane in casa con la pasta madre, o andasse alla ricerca del cornicione più lievitato, io sbadigliavo a sentir parlare dell’ennesima bakery aperta in un quartiere periferico gentrificato o della pizza margherita a 25 euro. Poi nell’ultimo anno mi sono accorta di un fenomeno strano: in Emilia-Romagna, dove vivo, la bussola dei lievitati puntava decisamente verso gli Appennini. Mi si è accesa una scintilla di interesse e ho provato a capirne di più. E sì, per farlo ho consumato quantità invereconde di focacce, croissant ed erbazzoni.
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Dove tutto è cominciato
Il pane del Forno Calzolari per me è casa: è quello che compro con più regolarità, avendo vicino casa uno dei loro quattro punti vendita bolognesi, e soprattutto è quello che in città apprezzo di più. Per non parlare dei loro biscotti, come quelli allo sciroppo d’acero e sale di Cervia, o quelli vegani con nocciole e cachi. La loro storia comincia vent’anni fa a Monghidoro, un paesino dell’Appennino tosco-emiliano celebre perché ha dato i natali a Gianni Morandi, quando Matteo Calzolari rileva il forno di famiglia con un intento ben preciso: costruire una filiera locale che recuperasse l’antica cultura del grano e del fare pane artigiano.Quando gli parlo è reduce dal weekend di Forni e Fornai•e (a luglio invece si tiene il loro Mangirò): “È stato al di là di ogni aspettativa. Abbiamo creato una vera e propria squadra con gente da tutto il mondo. È incredibile se penso a dove abbiamo iniziato. È arrivato tutto molto gradualmente: prima dare il giusto valore al grano, poi intessere rapporti di fiducia con chi condivideva i nostri valori, infine costruire un gruppo che avesse uguali vedute e ideali.”
“Voglio dare un futuro ai nostri figli, che possano cercare un’occupazione bella e seria qui, e non approcciarsi all’agricoltura solo come sacrificio.”
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È stato soprattutto grazie al lavoro di Calzolari — ma lui, ci tiene a specificarlo, non ha mai fatto e non fa le cose da solo e ha una squadra con lui, una squadra quasi tutta di donne perché “il mondo del pane, vecchio e nuovo, è un mondo femminile” — che si è creata la Comunità Slow Food del Grano dell’Alto Appennino tra Bologna e Firenze. “Qui in Appennino l’agricoltura era stata marginale per anni,” racconta. “Abbiamo ribattezzato ‘alti’ i nostri grani: perché raggiungono anche un metro e mezzo d’altezza, perché vengono coltivati sopra i 400 metri di altitudine, e per il valore ‘alto’ che vogliamo assegnargli sul mercato.”La cosa di cui va più fiero degli ultimi anni sono “le veglie. Un tempo in Appennino ci si ritrovava di sera nelle stalle, al caldo, a raccontarsi storie e intrecciare il grano da vendere. Io ho rilanciate le veglie invitando insieme accademici, fornai, agricoltori. Dopo questa due giorni internazionale, se devo pensare a una parola che racchiude tutto, penso all’inglese. Heritage: prendere il nostro passato e trasformare nel futuro. Per me quello che faccio è dare un futuro ai nostri figli, che possano cercare un’occupazione bella e seria qui, approcciarsi all’agricoltura non con spirito di sacrificio. Il cambio di mentalità che provavamo a portare si è finalmente concretizzato.”
Altoforno Impasti Agresti: tutto molto bello (e molto veg)
Quando non compro il pane di Forno Calzolari mi faccio consegnare a casa quello di Altoforno Impasti Agresti. Un nome bellissimo per un posto bellissimo, all’interno del Parco dei Sassi di Roccamalatina, che fa produzione esterna ma anche servizio interno con apertura il weekend per pranzo e cena. Personalmente sono una fan sfegatata della loro focaccia di farro e dei loro biscotti vegan come quelli segale e fiocchi d’avena.
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Ho parlato con Agnese Prandi, fondatrice di Altoforno in cui lavora con il compagno Gabriele Malavasi, musicista dei Gazebo Penguins. “Abbiamo aperto il laboratorio sei anni fa,” mi racconta. “Volevo aprire un forno ma trovavo solo posti brutti e mi chiedevo: come posso lavorare tante ore in un posto brutto? Poi sono arrivata qui. Senza scadere nel fricchettone, i sassi sono potenti a livello energetico: è un luogo naturale che ha molto da dare, c’è uno scambio tra noi e loro.”
“Noi siamo tutti onnivori, però ci piace che ognuno possa trovare qualcosa che non sia solo un contorno”
Non si vergogna di dire che con i lievitati va “a intuito. Vengo da studi classici e ho una preparazione da autodidatta. Della pasta madre mi è piaciuto subito che fosse un ente variabile, imprevedibile, da curare. Mi hanno aiutato avere l’umiltà di chiedere aiuto, Internet e lo spirito di adattamento. Quello che so sui ruoli in cucina li ho imparati in Ratatouille.”Sul formato di Altoforno invece dice che “è una modalità originale di ristorazione. Se vai a mangiare fuori in zona i cartelli parlano chiaro: funghi, borlenghi, crescentine. Buona parte della fortuna che abbiamo avuto è stata avere una proposta completamente diversa. Il weekend facciamo un piatto unico, una modalità che ho sempre amato, con dolce e salato. C’è molto vegetale ma non ci darei un’etichetta: noi siamo tutti onnivori, però ci piace che ognuno possa trovare qualcosa che non sia solo un contorno, ma abbia una propria dignità.”
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La Vecchia Scuola di Montalto, una pizza per la montagna
“Lavoriamo con ragazzi tutti giovani, tutti del posto, che grazie a noi riscoprono il proprio territorio. Facciamo team building nei campi”
La Vecchia Scuola Montalto si trova nella vecchia scuola elementare della frazione di Montalto, provincia di Modena. A crearla Luca Gianferrari: “Dopo sedici anni di ristorazione a Bologna volevo andarmene. In questa vallata c’erano posti iper-economici e mi sono buttato. Dopo un anno in montagna o ci resti o scappi via: noi siamo restati. Vivere e lavorare qui ha cambiato il ritmo di vita, la testa, il modo di vedere le cose. A volte non devo tirare fuori un portafoglio per giorni. I vicini di casa ti regalano le uova. Queste cose qui.”Alla Vecchia Scuola hanno in carta qualche piatto (deliziosa la farinata di ceci e castagne) ma soprattutto pizze, da accompagnare a una bella selezione di birre e vini, sul versante naturale. Io ho fatto la degustazione di pizza, un bellissimo percorso tra diversi impasti e topping, dai più classici ai più creativi, a soli 22 euro: “Nel mercato della città la pizza era un prodotto importante nei numeri e nei quantitativi. C’era una gestione molto matematica dell’attività, legata al centesimo, al calcolo, alla posizione strategica. Ci siamo regalati una qualità di vita migliore ma soprattutto abbiamo creato una realtà per il posto.”
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La materia prima “più etica possibile” per Gianferrari è un mantra quasi quanto quello di “fare economia del territorio e pubblicità per la vallata. Tra queste colline vedo girare i camion sbagliati — carne polacca, funghi dell’Est Europa… poca stagionalità e molta attenzione al prezzo. Bisogna invertire la rotta. Noi percorriamo una strada spianata da Calzolari. Lavoriamo con ragazzi tutti giovani, tutti del posto, che grazie a noi riscoprono il proprio territorio. Facciamo team building nei campi, andiamo insieme a scegliere i vini.”Molto esemplificativa del suo lavoro La Montesina: patata di Montese, caciotta di Vacca Bianca Modenese, pancetta di Mora Romagnola, tartufo nero (quando si trova, mi specifica Gianferrari). Ma sono impazzita anche per la pizza al padellino con impasto di farro monococco integrale e ceci germinati, con topping come fiordilatte, salame all’Habanero, gorgonzola, funghi cardoncelli. “Da me arriva gente che fa un botto di strada,” conclude Gianferrari. “Sono imbarazzatissimo quando me lo dicono. Come minimo voglio dargli il massimo.”
Madré: la nuova generazione del pane
Non si deve comprare tutti i giorni per poi buttarlo via perché il pomeriggio è già un mattone. Il pane deve essere in grado di conservarsi a lungo
La prima volta che ho provato a organizzare l’intervista telefonica con Francesco Bonfiglioli mi ha chiesto se potevamo evitare il tardo pomeriggio: deve andare a dormire presto, anzi prestissimo, perché di notte lavora. Quando poi l’ho davvero chiamato, in sottofondo si sentivano i colpi ritmici della laminatura dei croissant. E quando infine sono andata a trovarlo a Madré, il micro-panificio a Castel San Pietro (Bologna), aperto insieme ad Arianna Dall’Olio e Gianluca Benesso, mi riusciva difficile pensare di trovarmi davanti a un ragazzo di soli 24 anni.
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Classe ‘98 lui, classe ‘97 e ‘94 gli altri due soci. Ce n’era abbastanza per fare sentire me, con otto anni e parecchia pigrizia in più sul groppone, completamente inadeguata. Il panificio è aperto da neanche un anno ma la qualità e la varietà della produzione sono già notevolissime: a pani speciali come quello zucchine e nocciole se ne affiancano di più ‘classici’ e poi croissant, dolci sfogliati, pizze e focacce (tutte vegetariane). Sfornano tutto in un piccolo laboratorio, con produzione a vista e vendita, in una strada della cittadina emiliana appena fuori dal centro.
“Ho visto un video su Instagram e sono rimasto folgorato. Mi sono cercato da solo le informazioni, guardando video su Instagram e YouTube”
La storia di come Bonfiglioli e soci abbiano iniziato a fare il pane me la racconta lui ed è l’immagine perfetta del panificio 3.0: “Io ho fatto Scienze Ambientali a Ravenna. Per caso ho visto un video su Instagram in cui una ragazza faceva la pizza usando acqua fermentata con mele. Sono rimasto folgorato. Ho imparato da solo, guardando video su Instagram e YouTube, e cercando informazioni prevalentemente in inglese perché in Italia c’è poco. Poi ho fatto esperienza in pasticceria e gelateria. Il 17 agosto 2021 abbiamo acceso il forno per la prima volta.”Tanto per farmi sentire ancora più disgraziatamente pigra e indolente, Bonfiglioli racconta che “quello che mi ha attratto del pane è quanto poco sia industrializzato. Sono sempre stato attento a tematiche ambientali e di sprechi e da quel punto di vista l pane è la semplicità: farina acqua e sale. La farina è di un mugnaio locale, Molino Quartieri, il sale di Cervia e l’acqua del rubinetto. All’inizio pensavo che avremmo lavorato con dei ragazzi, e invece abbiamo molti ultra-ottantenni che vengono, ad alcuni fa proprio piacere vedere delle facce giovani.”
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Per loro è bello stare in un paese, sì, ma non nasconde che l’idea è di spostarsi verso Bologna: “Già distribuiamo il pane a diversi ristoranti, come I Portici. In futuro ci piacerebbe aprire un punto vendita in città. E portare anche lì la nostra concezione del pane ‘a spreco zero’: non si deve comprare tutti i giorni per poi buttarlo via perché il pomeriggio è già un mattone. Il pane deve essere in grado di conservarsi a lungo.”Forse fare il pane bene non è solo —o meglio non tanto— una questione geografica. Forse stare lontano dalle città significa solo stare più lontani dalle mode, dalla tentazione di appoggiarsi sul guadagno facile, alzare i prezzi. Ma io non posso fare a meno di continuare a pensare che in quelle colline ci sia qualcosa di speciale. Forse il grano, forse l’acqua, forse semplicemente la voglia di non fare le cose solo per sé, ma di condividerle, allo stesso modo in cui si condivide il pane.Segui Giorgia su Instagram.Segui MUNCHIES su Facebook e Instagram.