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Musica

La lingua del rap italiano si è fermata

Fermatevi un attimo e pensateci: da quanto non vi capita di sentire un rapper pronunciare qualcosa che non avevate mai sentito?

La nuova scuola del rap italiano è successa ormai tre anni fa, cioè un tempo abbastanza lungo da permettermi di dire che proprio "nuova" non lo è più. A renderla tale erano un sacco di cose. Una era la fine del senso di ritardo culturale che aveva storicamente afflitto il rap italiano. Un'altra era l'uso che i suoi artisti facevano e fanno di Instagram. E un'altra ancora, molto più difficile da identificare, è il senso di novità che avevano portato a livello di suono, contenuto, stile, narrazione e lingua. Ascoltare nuove uscite e scovare nuovi rapper è stato, per un periodo, causa di costante meraviglia per alcuni e spavento per altri. I primi, me compreso, sono stati conquistati dall'allargamento dei confini del termine "rap" che stava avvenendo da noi come nel resto del mondo; i secondi hanno visto le rime svanire, le "doppie" (da qua in poi nella loro definizione inglese, ad-lib) diventare protagoniste, lo storytelling farsi più astratto. E hanno reagito alzando gli scudi. Come però capita con ogni avanguardia, il passare degli anni ha smussato il senso di meraviglia che aveva creato all'inizio. In questo articolo voglio evidenziare brevemente quali sono state le innovazioni linguistiche che hanno caratterizzato quest'ultima fase storica del rap italiano e quali possono essere le strade da percorrere per creare un nuovo senso di stupore, simile a quello che ha attraversato la nostra comunità hip-hop lungo il corso del 2016. Pensateci: da quanto non vi capita di sentire un rapper pronunciare qualcosa che non avevate mai sentito?

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L'innovazione più evidente portata dalla nuova scuola è stata, a mio avviso, la messa in disordine dell'enunciato e della sintassi, cioè del modo in cui le parole stanno all'interno delle frasi e di quello in cui le frasi si susseguono. Tradizionalmente il discorso-rap proseguiva per narrazioni lineari: io faccio questo e quest'altro, voi fate questo e quest'altro. Gli obiettivi principali erano due: fare punchline o raccontare una storia. Ma a un certo punto qualcuno ha cominciato a riempire la lingua di non-detti, ad asportare pezzi, a negarla e sostituirla con impressioni ed espressioni. Le radici profonde di questo passaggio stanno nell'opera di un rapper che è praticamente sinonimo con la vecchia scuola, cioè Neffa. Prendiamo il testo di un suo classico, "Aspettando il sole", uscito nel 1996. Quello che succede al suo interno è chiaro: il narratore sta male, si sente solo, rimugina sul passato, si convince che un giorno tutto andrà meglio, fine. Solo tre anni dopo Neffa firmava "L'incognita", che inizia così: "Un chico contro tutti, a posto mo / Hello sto bello, io gastro / Crucifix Isnefs vien via col / Friskies passami sto a di' pressami / Spingimi in play nei tuoi Technics / Per il megamix con il Fritz-beat / Bella lì, bacì / Mettimi a giro tipo frisbee / Meglio skunk spliff / Stecche ai tempi del libano / Piscopo dedito al pushing / In gusci di cremeria / Sette g para dia / Sangue mix e via". O ancora: "E di fisso tu mi vedrai in 'sta landa / Quando la vampa blanda flamba 'sta branda / Plana musica karma calma / Salva plasma alma-salma / Se la realidad si rifrange in un prisma è scisma". Neffa "puntava tutto sulle parole", come ha lui stesso dichiarato, e quando si vide paragonato a colleghi che non riteneva degni del suo livello reagì scrivendo un testo criptico e visionario in cui rime, significati, metrica e lingue si confondevano. Parlava di erba, rap, salvezza, eredità - o almeno così sembrava. Era come se le parole, scandite con un ritmo quasi-regolare, fossero uscite dai confini della frase. Neffa aveva preso il rap e l'aveva spezzettato con furia creativa e impeto modernista: dopo aver suggerito l'esistenza di uno squarcio nella sua tela, però, decise di abbandonarlo per sempre.

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Il rap italiano non è ancora diventato quello suggerito da "L'incognita" ma si è lasciato influenzare e sorreggere dal suo spirito creativo-distruttivo. Un esempio fu Orange County Mixtape di Tedua, progetto che restava in equilibrio tra la classica narrazione dell'io-rapper e la sua dispersione in frasi legate in maniera libera e spontanea. Libera di vagare sul beat e di non rispettare i suoi segnaposto ritmici, la voce di Tedua sfocava i contorni come la luce del sole che rifrange sul mare della sua Drilliguria. Tedua lavorava (e lavora tuttora) sia sulla struttura della lingua che sulla sua enunciazione. Nell'intro si definiva "venditore di nuvole" e guardava il cielo; nei venti pezzi successivi faceva di tutto per avvolgere di vaga pace diafana la sua narrazione personale fatta di valori di strada, fascino per la natura, determinazione e amore sconsiderato. Prendiamo per esempio "Circonvalley": "Tedua, Tedua cazzo, astronauta in Circonvalley / La via Lattea sembra già qui, yo / Ok, fai la guerra con Tedua e vuole molto di più / Ma non mi cerca e mi da tregua, non te la do vinta / Ogni rima su tela è dipinta / Sono fiero se un tefra mi tifa." La ripetizione del proprio nome, come ad affermarne la centralità ma senza l'ego dell'"io". La via Lattea che compare nel discorso come un'improvvisa presa di coscienza. Il passaggio al "tu" che diventa immediatamente un "lui" per poi tornare un "io". L'uso del riocontra (cioè della pratica colloquiale francese del verlan, l'inversione delle sillabe all'interno delle parole) in "tefra". Il tutto pronunciato giocando con i confini del beat, volontariamente fuori dai battiti del metronomo, come un quadro che prende possesso della cornice e del muro su cui è appeso. Quello di Tedua era ed è un modo di fare (e pronunciare) lingua che il rap italiano non aveva praticamente mai visto prima. Orange County Mixtape è stracolmo di momenti rivoluzionari, troppi da citare: il flusso violento di immagini di "Wasabi Freestyle", le assonanze e le elisioni di "Buste della spesa" ("Sono nato e ho continuato a coltivarle, 'ste doti / I miei frà con lì l'Eastpak pieni di tocchi"), il ritratto annebbiato dai ricordi che apre "Lezione", gli inglesismi sparsi come semi nel campo dell'italiano ("snitchi nei commenti, homie").

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Controfigura introversa e nebulosa di Tedua è Rkomi. Le loro lingue hanno molti punti in comune: "Dasein Sollen" si apriva con un'immagine che è pura impressione, "Se ho la luce con me non lo noti cos'ho", a sottolineare una qualità impalpabile ed evanescente, ma potente e creatrice, del discorso. E poi ancora il riocontra ("Guarda sopra siamo un'altra saco"), le rime che lasciano posto alle assonanze, le ripetizioni di sillabe per riempire lo spazio ("no-noduli", "bo-botte"). La lingua di Rkomi si è realizzata pienamente in Io in Terra: sconnessa ma non troppo, narrativa ma evanescente, piena di stimoli e angoli. La titletrack, che ripercorre in un paio di minuti splendidamente sbiascicati gli ultimi anni di vita del narratore, è un ottimo esempio. Come lo è "Apnea", che alterna tempi verbali e persone ("Mi fiondo al posto con chi da prassi / Mi accompagnò ai tempi, temi possa riperdermi"), impressioni e fatti ("Un salto nel vuoto scendo in ciabatte e torno / L'asfalto, il mio passato / E il mattino dopo sono punto da capo"). Se la scrittura di Tedua e Rkomi era magma, quella della Dark Polo Gang era fatto di lapilli che scoppiettavano. Il "linguaggio alieno" considerava corretto tutto ciò che secondo la percezione generale era sbagliato nel rap, soprattutto l'assenza di rime classiche, la totale assenza di contenuto ripiegata su un bragging totalizzante. Ma come dimostra la storica analisi della strofa di Side in "Cavallini" è tutta questione di prospettiva: il testo rivoluzionario lo è a prescindere che sia stato scritto consapevolmente.

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Insomma, come diceva Vincenzo Marino in un articolo pubblicato quando Wayne, Side, Tony e Pyrex stavano per smettere di essere quelli che descriveva: Eppure il loro adattamento in italiano di espressioni in inglese ("Stare alti" per dire di essere "high" dopo aver fumato; o i "gioielli malati addosso" per tradurre "sick" nel senso di "figo"), e la continua autocitazione meta-narrativa, ne fanno qualcosa di genuinamente nuovo, che mi porta continuamente a chiedermi come gli possa esser venuto in testa di dire o fare certe cose, per quanto probabilmente prive di significato.

La nuova scuola ha poi reso standard soluzioni testuali sperimentate in Italia per la prima volta negli anni precedenti alla sua affermazione. Una è il plurilinguismo che, oltre ai calchi dell'inglese già citati, è stato usato con ottimi risultati da Ghali ("Ninna Nanna", "Wily Wily"). Ma a sdoganarlo fu Maruego nel 2014 con l'EP Che ne sai, un capolavoro visionario che conteneva la gemma del fiore di lingua che sarebbe sbocciato poco dopo in tutta Italia. "Click Hallal" era densa melassa testuale, associazioni futuriste ("Criminal-negro-marca"), pura ricerca melodica. E poi c'erano i "kho", lo "zatla chokolata".

A condividere la traccia con Maruego su quell'EP c'era anche Caneda, che per primo portò in Italia la zarraggine menefreghista della trap e del drill più intransigente. Appena uscita la sua strofa su "Il ragazzo d'oro" di Guè Pequeno diventò forse il primo caso esplosivo di reazione indignata generale dalla scena italiana: una sola rima per tutta la strofa? Tutta in "bianco"? Una pratica oggi più che normale, tanto che segna l'inizio di uno dei progetti fondamentali per la storia del rap italiano contemporaneo, XDVR di Sfera Ebbasta. Tutte queste innovazioni si sovrappongono e confondono nel rap degli artisti citati e a molti altri innovatori come loro, unite ai nuovi calchi del rap americano: esempi sono la centralità di doppie come "yah" e "skkrt" e i triplet flow.

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Resta che oggi, ora che praticamente tutta la scena dell'epoca ha fatto un album d'esordio, ha un contratto con una major e ha ispirato migliaia di persone a imitarli, il nuovo rap italiano è diventato quello che prometteva essere: un movimento che avrebbe cambiato il mercato musicale della sua nazione e segnato un periodo storico. Ma adesso che l'ha fatto è fondamentale che trovi un modo per diventare ancora una volta qualcosa di nuovo.

Nel (relativo) underground ci sono dei segnali incoraggianti, c'è da dirlo. Molti vengono da Quentin40, che si è già lasciato dietro le parole tagliate e ha cominciato a scrivere pezzi che sembrano, come ho scritto nell'intervista che gli ho fatto, "un dipinto impressionista i cui colori sono spiaccicati sulla tavolozza del cloud rap". Speranza ha alzato l'asticella del plurilinguismo e ha creato una tartare di casertano, italiano, francese, arabo e romaní. Tha Supreme è un vulcano creativo e la sua giovane età è un mare aperto ancora da esplorare. Su "Sciccherie" Madame usa una lingua oleosa ai limiti del comprensibile, e così facendo gioca con le aspettative dell'ascoltatore. Fa tra l'altro suo un termine "nuovo" come "bibbi", a dimostrazione di quanto la ex-nuova scuola sia ormai cristallizzata nelle menti della nuova-nuova scuola.

In tutto questo, la ricerca d'avanguardia - o quella che viene percepita come tale - non è una condizione fondamentale nello stabilire la qualità di una canzone o un progetto. Al contempo si è però creata anche una sorta di "trap di maniera" che dalla nuova scuola ha attinto a piene mani, ottiene buoni risultati di pubblico, diverte ed è perfettamente godibile, ma in cui non percepisco quella vibrazione ineffabile presente nei dischi che ho trattato qua sopra. Penso al lavoro di artisti come MamboLosco o Boro Boro, entrambi autori di vere hit, che però non hanno aggiunto mattoncini all'edificio dell'innovazione del rap.

Tutto questo si scontra però con un sistema che tende a non premiare in automatico l'innovazione. Come ha dimostrato il recente caso di Fedez, o la svolta "clean" della Dark Polo Gang, più si alzano le aspettative commerciali di un prodotto più questo tende, almeno nel nostro paese, a essere controllato, così da renderlo il più appetibile possibile - ma secondo le categorie un po' conservatrici che storicamente animano la discografia italiana. Il che non è necessariamente una condanna, ma la consapevolezza dell'esistenza di un rischio: cioè che alla creatività degli artisti vengano tarpate le ali. Non parto però pessimista: Tedua ha dimostrato con Mowgli di non avere minimamente perso la fotta creativa che ha sempre animato il suo rap e ha regalato all'Italia un disco vero e proprio, con un'idea, una narrazione, un'estetica e un sound coerente, tra l'altro senza ricorrere a featuring inutili. Rkomi, con Ossigeno, ha cominciato a tastarsi attorno per capire dove portare il suo discorso e si sta aprendo a nuove prospettive. Sfera Ebbasta si sta interfacciando in maniera sistematica e intelligente con il mondo della Latin Trap e ha così colto con saggezza la wave che più di ogni altra sta rimescolando le carte sulla tavola della scena hip-hop americana. Resta da capire come, e chi, riuscirà a ricreare nei cuori di chi è all'ascolto quel senso di pura, splendida meraviglia che - come cantava Wayne - ha attraversato lo stivale "da Roma a Napoli, da Milano a Genova". Elia è su Instagram. Segui Noisey su Instagram e su Facebook.