Sediate e baci della morte: storie dal wrestling italiano
Karim Brigante e Miss Monica. Foto di Mattia Astolfi. Tutte le foto per gentile concessione degli intervistati.

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Sediate e baci della morte: storie dal wrestling italiano

Cosa aspetta realmente chi oggi, in Italia, ha la vocazione per il ring e i costumi in spandex?

Il wrestling è un fenomeno che in Italia abbiamo cominciato a conoscere da pochi decenni, a partire dalla televisione. Io lo seguivo fin da bambino, nelle assurde cronache delle tv locali, quando le registrazioni del puroresu—il wrestling giapponese—erano spacciate per “dirette da Tokyo”, e i nomi delle mosse erano completamente inventati. Era una storia raccontata da corpi in lotta, e in quella storia speravo sempre che i buoni—i face—vincessero.

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Da allora le cose nel nostro paese sono cambiate, e da fenomeno principalmente televisivo il wrestling italiano è diventato reale, praticato nelle palestre e nei ring. Nel 2001, ad esempio, è nata la prima promozione: la Italian Championship Wrestling [di cui avevamo già parlato qui]. Chiaramente, rispetto a paesi come Gran Bretagna o Germania, la scena italiana è più giovane. Ma è comunque un punto da cui deve partire chiunque voglia muovere i primi passi in questo mondo.

Ogni wrestler, infatti, ha vissuto la fase del fan sfegatato. Magari adorava Hulk Hogan e crescendo si è affezionato a lottatori più completi. Finché un giorno non ha portato questa passione dentro una palestra, anche se magari attorno gli dicevano: “Ma dove vai? Cosa pensi di fare?”. Ma se la passione è un carburante efficace, come per altri percorsi professionali a un certo punto diventa fisiologico emanciparsi da sogni e fantasie, senza tradirle.

E allora cosa aspetta realmente chi oggi, in Italia nel 2017, sente nascere in sé la vocazione per il ring e i costumi in spandex? Soprattutto, il mondo del wrestling è pazzo come sembra? Per capirlo, ho parlato con alcuni wrestler italiani.

"Il Padrino" sul ring. Foto ICW.

ALESSANDRO CORLEONE

“Grazie per avere scritto al ‘Padrino’ Alessandro Corleone. Ti risponderà non appena possibile, lui o il suo staff. Baciamo le mani.” Questa è la risposta automatica appena contatto via Facebook Alessandro Corleone. Nella Icw “Il Padrino” è l’heel (il cattivo) di punta, grazie al fisico imponente e alla gimmick con tanto di mosse a tema—“La cupola”, “Bacio della morte”, “tarantella legdrop.”

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Resto perciò spiazzato quando, via Skype, mi saluta con accento alquanto lombardo e parlata placida. “Sono metà valtellinese e metà brianzolo” spiega, la cintura di Campione Italiano appesa sulla parete alle spalle. Mi riprendo dal divario di dizione rispetto ai suoi promo e gli chiedo quando ha deciso di diventare un wrestler.

“Se proprio andiamo alla radice è colpa di mio padre, perché quando ero piccolo diceva che due cose sono importanti nello sport: saper nuotare e saper cadere, così mi ha mandato a lezioni di judo.” Alessandro è uno sportivo completo: oltre alla laurea in Scienze motorie, nel suo curriculum ci sono karate, pugilato, kick boxing e arti marziali miste, ed è stato campione di nuoto nei 200 stile libero. Il wrestling, da passione d’infanzia (“facevo le mosse a mio fratello, anche se c’è scritto di non farlo a casa)”, lo incrocia da atleta a 21 anni, quando scopre che c’è un polo di allenamento a Lodi, cui presto affianca quello di Pavia. Due allenamenti a settimana in due città, poi in sei-sette mesi il debutto, nel 2009.

Gli riesce difficile spiegare la molla che, scattando, lo ha portato a diventare Alessandro Corleone. “Lo devi provare," mi dice. "Che le persone ti tifino o ti diano contro, l'emozione è la stessa. Essere al centro dell’attenzione è un po’ da esibizionista, noi che facciamo wrestling questa cosa l’abbiamo amplificata. A tutti piace ricevere attenzione, a noi particolarmente.”

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Alla carriera (i wrestler vengono pagati a serate) il Padrino affianca anche altri lavori: “Ho un mobilificio con mio padre, quando ho tempo libero lo aiuto.” Penso subito allo straniamento di chi magari lo incontra in questa veste dopo averlo conosciuto sul ring e glielo faccio presente. “Capita anche il contrario," risponde, "molto spesso le persone che mi conoscono in vita normale una volta che mi vedono con la mia gimmick a fine show mi dicono 'cazzo, ma sei una persona diversa'.”

Nel resto del tempo, Alessandro si esibisce in spettacoli live e fa lo stunt-man: una professione che si avvicina molto a quello del wrestler, con la differenza che nel secondo caso ci si ferma solo a fine incontro: “Ho dovuto adattare le tecniche, perché il modo di cadere è diverso, il modo di colpire è diverso.”

Siccome lotta anche in circuiti europei, chiedo com’è percepito un italiano che fa il mafioso. “Qua in Italia capiscono che sono il Padrino, il mafioso, all’estero sono l’italiano tipo. La maggior parte delle persone mi dà contro, ma capita spesso trovare dei fanatici dell’Italia. In Francia, nel 2011, ho trovato una curva, una decina di napoletani che hanno fatto un casino quando sono entrato. In Germania mi è capitato di trovare due pazzi che mi tifavano e facevano il coro Si-ci-lian.”

KARIM BRIGANTE E MISS MONICA

Karim e Monica sono insieme nella vita e sul ring, come direbbe Studio Aperto. Si sono conosciuti mentre muovevano i primi passi nel wrestling in Italia, allenati inizialmente dal messicano Super Nova, e poi nella European Pro Wrestling. Da lì, nel giro di pochi anni si sono spostati negli Stati Uniti, nella scuola del veterano Harley Race, attuando una scelta di campo: per fare carriera nel settore, non c’è altra terra promessa. Al momento sono in Italia per girare Wrestl-Her, documentario che racconta il record di Monica: è la prima lottatrice italiana a calcare un ring della Wwe come Ann Esposito, seppure per quello che in gergo si chiama “squash match” (ovvero, match a senso unico e di breve durata).

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“In America c’è il business," mi spiega Karim, "riesci a lottare anche tre, quattro volte la settimana, vendi un botto di merchandising." Monica invece dice: "sfruttiamo il fatto che di italiani non ce ne sono in America, per loro è insolito.” Tanto che spesso si sentono chiedere il classico “dai, ma di dove siete veramente?” di chi pensa di avere di fronte due che si ispirano a Jersey Shore. “Ci gridano pure ‘Mario e Luigi!’” ricorda Karim.

Ma come fa un immigrato a convivere col rischio infortuni, in un paese noto per il suo sistema sanitario non esattamente accessibile? La risposta, fatti gli scongiuri di rito, è laconica: “Speriamo sempre di non farci male.” Poi Karim mi racconta di quando invece si è fatto davvero male, con Monica che avverte: “Questa storia è proprio divertente.”

“Stavamo lottando da qualche parte nel Midwest," dice Karim, "e stavo facendo un match hardcore. Stavo per dare una sediata al mio avversario che mi ha colpito con una spear, la sedia è finita alle mie spalle e ci sono caduto sopra. Mi si è alzata la pelle della testa a mo' di The Walking Dead. In America cinque punti costano circa mille euro, fortunatamente l’arbitro del mio match era un veterinario. Nella sala d’attesa del suo studio eravamo io e un cane più grosso di me.” Essere pronti a medicazioni d’urgenza rientra nel bagaglio di competenze richieste a un wrestler.

E l’Italia? “C’è qualcuno che ti può insegnare qualcosa nel wrestling," continua Karim, "il problema è che non ci sono opportunità, non c’è gente che ti può indirizzare. Puoi essere un magnifico lottatore, rimarrai quel magnifico lottatore che purtroppo non ha percorso la strada giusta perché nessuno gliel’ha mostrata.”

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“In Italia è una rarità avere il ring nella palestra e noi siamo contro chi si spaccia per professionista, quando invece…” puntualizza Monica, lasciando efficacemente incompleta la frase. Per rendere credibile ogni aspetto del match, dai lottatori all’annunciatore, passando per il booking, è infatti necessaria una specifica formazione professionale. Karim ha le idee molto chiare: “Ci deve essere poi collaborazione tra queste realtà, che non devono farsi la guerra ma lavorare insieme per creare qualcosa che non c’è: il mercato del wrestling in Italia.”

Dave. Foto di Graziano Panfili - IWA.

DAVE BLASCO

“Io sono uno di quegli esempi di persona che all’inizio non ci butteresti neanche un euro. All’inizio ero proprio, nel gergo del wrestling, l’underdog, quello che non ce la farà mai non come personaggio, proprio come persona che si approccia a quel tipo di allenamento. Però, con la tigna, alla fine ho detto oh, ce la faccio anch’io, posso dire la mia, e infatti per misurarmi ad alti livelli sono andato in America, ad imparare il vero wrestling, perché qua è proprio un’altra cosa.”

Dave Blasco, romano di nascita e nella gimmick sul ring—il coatto—sintetizza così il percorso che l’ha portato da spettatore ad atleta. Prima di allenarsi per diventare wrestler faceva solo pesi in palestra, e ha svolto diversi lavori, tra cui il militare, per quattro anni tra fanteria e alpini, e il venditore di case. “Ora cerco sempre lavori notturni," spiega, "guardia giurata, anche buttafuori, perché almeno mi combacia con gli allenamenti e gli show.”

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La “tigna” l’ha portato prima a cercare su internet “wrestling roma,” finendo nella Rome Wrestling Academy di Axel Fury, e poi nella già citata Accademia di Harley Race. “In America è cento volte più difficile, però oh, stai in America. Mangiavamo, dormivano, e mangiavamo wrestling. Allenamenti tosti, però con logica: non uccidersi, ma uccidersi nel modo giusto per rifarlo il giorno dopo.”

Adesso che è tornato in Italia, in attesa di rifare “il gruzzoletto” e ripartire oltreoceano, si divide tra il ring e l’attività di formatore per la Italian Wrestling Association. Anche lui dunque, come Karim e Monica, vive il wrestling tra due mondi e due ordini di grandezza molto diversi. La mia curiosità parte dal ruolo dell’heel caciarone e sfrontato.

“A uno spettacolo mi hanno sputato e tirato patatine, vicino Chicago," racconta. "Se gli dici ‘America fai schifo’ loro impazziscono.” Poi continua: “Là ci credono, e anche sapendo che quello è amico di quello, quello sta con quella, a loro non frega niente, si vogliono divertire. Hanno pagato, vogliono vedere il cattivo che perde con il buono e basta. Qua è un territorio ancora da sverginare, ci sono tanti che si credono fan esperti, ma non sanno nulla”.

Ma anche se il pubblico è diverso, da noi non mancano gli inconvenienti del mestiere. “In Italia una volta mi volevano sgozzare, letteralmente," mi spiega. "Siccome Modena è una città rossa, ho pensato di far fare al mio personaggio un’esternazione politica, per provocarli, e uno mi ha tirato una scarpa" (l’esternazione, se ve lo state chiedendo, era 'Viva il Duce').

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Approfittando del suo ruolo di formatore gli chiedo se c’è possibilità di crescere e andare avanti, per gli allievi. “Spero sempre che la merda che ho mangiato chi viene dopo di me ne mangia di meno, nel senso: io ti aiuto, però devi essere furbo te a prendere i miei aiuti, svilupparli e sfruttarli. Quello che dico sempre è ‘ragazzi, io sono il vostro allenatore, ma non è che quello che dico io è legge, io non sono nessuno, andate in America, andate in Scozia, andate in Inghilterra, andate in Germania, in Giappone, e poi mi direte ‘Dave, avevi ragione’.”

Dave quindi oscilla tra la consapevolezza maturata sulla propria pelle grazie all’esperienza negli Stati Uniti e la difficoltà di trapiantare questa esperienza in Italia. “Il problema in Italia è che lotta chiunque," anche gratuitamente, mi spiega prima di concludere.

In fondo il mercato del wrestling, penso congedandomi, non è molto diverso dal resto del mercato del lavoro italiano—a parte forse la storia della testa aperta e dei punti dal veterinario.

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