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Fotografia di George Nebieridze via i-D

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Musica

No, la techno non è "tutta uguale"

Dopo l'assurdo caso di plagio del padre della techno Jeff Mills c'è un motivo in più per credere che la techno sia "un bumbumbum tutto uguale", ma la verità è un'altra.
Simone Zagari
Milan, IT

Nella migliore delle ipotesi, le prime immagini che la cultura di massa associa alla parola "techno" sono un club buio, musica a tutto volume e, ovviamente, l’immancabile cassa in 4/4 che scandisce 130 battiti al minuto. Nella peggiore, invece, presumo che assuma le fattezze di quella pericolosa entità informe descritta dall’ormai leggendario giudice di Forum: "la media della musica tecnico sono 170 BPM al minuto […] e non può essere seguita se non si è alterati! Perché diventa fastidiosa!". Insomma, l’idea è quella di una musica martellante, ripetitiva e che non presuppone una grande inventiva artistica. Come direbbe mio padre: “un bumbumbum tutto uguale”. Ma è davvero così? No, sebbene il mese scorso siano successe un paio di cose che hanno dato per un attimo ragione al giudice di cui sopra, e a mio padre.

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I confini della musica techno oggi sono labili ma i suoi natali sono univocamente definiti, almeno nel dove e nel quando: “La techno è un genere musicale nato a Detroit, negli Stati Uniti d’America, negli anni 80”. E proprio lì e allora che inizia la carriera di Jeff Mills, colui che lungo gli anni Novanta ha scritto un capitolo del movimento e ne è diventato una colonna portante, prima con lo storico collettivo Underground Resistance e poi in solitaria. Jeff Mills l'alieno. Il Mago. Il genio che poco tempo fa ha pubblicato per sbaglio a nome suo la traccia di un altro produttore.

Prendetevi un secondo per pensarci: uno dei padri fondatori di una cultura musicale si è trovato lì un CD senza etichetta, lo ha ascoltato, ha pensato "hey, figo!", non si è reso conto che fosse roba scritta da un'altra persona, l'ha pubblicata a nome suo. Inizialmente speravo si trattasse di un semplice errore burocratico; e invece no. Lo ha ammesso il suo entourage: "Mills riceve spesso demo di artisti […] e a volte ne fa dei CD per testarle mentre è in tour. Su un CD senza etichetta e a causa di similitudini nello stile di produzione, Mills ha erroneamente considerato la traccia come qualcosa che aveva prodotto tempo fa, procedendo poi col pubblicarla”. I diritti sono stati subito riconosciuti allo svedese Julien H. Mulder, il vero autore del pezzo, ma ciò non toglie che questo siparietto abbia regalato un argomento in più a chi considera la techno tutta uguale. Talmente uguale che persino le leggende non sanno più distinguere i propri dischi da quelli degli altri.

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Mentre trent'anni fa Jeff Mills bombardava Detroit a colpi di Roland Tr-909, in Italia Donato Dozzy scopriva la techno e muoveva i suoi primi passi nella seminale scena romana. Oggi “il Professore” è uno dei produttori e DJ più eclettici e stimati nel mondo e, personalmente, uno dei miei preferiti. Anche lui, però, settimana scorsa è stato al centro del techno-gossip. Sul profilo Facebook di Spazio Disponibile, l’etichetta che Donato gestisce insieme a Neel, infatti, è stato pubblicato un post che metteva in dubbio l’originalità di una traccia dei Beat Movement (associata a questo pezzo dei Crossing Avenue), e una di Judas (accostato a questo remix di Dozzy). Il risultato è che si è generato un piccolo vespaio.

Il parapiglia social ha portato poi i Beat Movement a giustificarsi mostrando, con tanto di prova video, come quel disco fosse stato prodotto genuinamente, smentendo di fatto le voci di plagio. Anche qui pace è stata fatta, ma il nocciolo della questione rimane: veramente siamo arrivati al punto in cui ogni traccia techno prodotta può essere ricondotta ad un’altra già esistente? Veramente gli stilemi della techno sono talmente rigidi da pilotare, anche senza volerlo, tutte le sonorità verso un indefinito calderone di “già sentito”?

Se pensi che la risposta è "sì" allora vuol dire che, anche senza volerlo, hai dentro una qualche sorta di pregiudizio. Per sfatarlo si possono percorrere più strade. La più semplice è quella dei sottogeneri, dei tangenti e derivati: acid, trance, minimal, deep, electro, derive house e chi più ne ha più ne metta. Questi hanno da sempre apportato variazioni al tema di Detroit, un sound che ha dimostrato la propria versatilità (forse proprio perché così semplice?) e si è declinato in numerose sfumature, ognuna delle quali vive di ciclici picchi di fama o infamia, revival e più o meno gradite rivisitazioni.

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C'è però una faccia nascosta del prisma che è la techno. È difficile da definire, dato che è lontana dai paradigmi della cassa dritta e abbraccia invece il suo lato più "umano", se vogliamo. È fatto di sperimentazione, cultura, territorialità e del contesto sociale in cui tale musica prende vita. Insomma: se, fino a qualche anno fa, “techno” è sempre stato sinonimo di Detroit, Berlino e Ibiza, da un po’ di tempo a questa parte stiamo assistendo al florido sbocciare di scene in ogni angolo del pianeta. E questo, secondo me, è abbastanza per poter affermare che la techno non è "tutta uguale."

Mi spiego meglio: la cartografia della techno sta venendo messa in discussione, i paletti del genere stanno venendo abbattuti e il classico muro di drum-machine Roland e cassa in quarti sta venendo scavalcato. Il merito è di un brulicare di artisti africani, asiatici e sudamericani, che si stanno facendo largo nel circuito mondiale a forza di progetti localizzati e, al contempo, impegnati. Il risultato è che il classico suono techno ne esce rinvigorito, un po' più lontano dal rischio dell'appiattimento.

Molti di questi melting pot si trovano dall'altra parte del Mediterraneo, lungo le coste dell'Africa. Un ottimo esempio è Maghreb United, pubblicato nel 2018 dal produttore tunisino AMMAR 808. Si tratta di un racconto in salsa afro-futurista delle difficoltà di una terra che sogna unità e giustizia, simbolicamente rappresentate dalla comunione di musica sahariana e derive elettroniche occidentali. Sulla stessa scia viaggia anche il collettivo Disco Halal, etichetta di Berlino ma con radici a Tel Aviv, che unisce i battiti teutonici al sound della Terra Santa. Ritornando in Tunisia va citata anche Deena Abdelwahed e il suo Khonnar, un lavoro che parte dalle categorie della club music e sfocia in una sperimentazione veicolata da sonorità della tradizione; è un'opera che si presta alle danze ma allo stesso tempo critica la società araba e il modo in cui essa viene percepita nel mondo, contro omofobia e disuguaglianze.

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Un percorso simile lo ha esplorato Tzusing, un ragazzo malese che nel 2017 ha fatto un disco intitolato Dongfang Bubai in cui ha affrontato la questione dell'identità sessuale tra industrial e melodie orientali. Dongfang Bubai, spadaccino della tradizione che si evirò per apprendere le arti marziali, è infatti il simbolo delle lotte LGBTQ cinesi.

Se ci spostiamo in Giappone troviamo anche la DJ Powder e il suo Powder in Space, interessante album-mixato uscito qualche settimana fa. Divisa tra un impiego d’ufficio a Tokyo e la possibilità di fuga notturna che le offre la musica, Powder fa convivere nel suo mix rimandi alla sua terra (vibrafoni, percussioni, elementi naturali) e ritmiche berlinesi. E così in un colpo solo esorcizza le paure del giorno e mette in discussione il dancefloor attraverso un djing creativo.

C'è poi il Sud America ma non c'è così bisogno di parlarne, dato che il rinascimento digitale delle tradizioni sudamericane è sotto gli occhi di tutti - o è comunque quello più accessibile a un pubblico non abituato a pensare alle implicazioni dell'elettronica che va a ballare. Il merito è principalmente dei rilavoratori della cumbia, iniziata al mainstream da Nicolas Jaar, che l’ha poi riversata su temi politici, sdoganata da Nicola Cruz e avvicinata al clubbing occidentale da Matias Aguayo, la cui storia ed estetica raccontano migrazioni, inclusività e cultura queer.

Insomma, questi esempi dimostrano che la techno e i suoi sottogeneri possono diventare veicolo di movimenti sociali, se vengono messi in atto in luoghi in cui sono forti le necessità di fuga, ribellione e riappropriazione identitaria. Ma possiamo anche andare oltre il lavoro dei singoli artisti e guardare a quello di diversi collettivi in giro per il mondo: il party anticapitalista Mamba Negra a San Paolo, l’isola di pace che è la scena underground palestinese, la lotta all’oppressione dello Cxema a Kiev, ma anche l’Herrensauna di Berlino che ha saputo riportare il clubbing a un’idea DIY e alla totale libertà. A sottolineare la portata e l’importanza che tali eventi stanno acquisendo anche fuori dalle loro nicchie è l’interesse via via crescente che la stampa internazionale sta manifestando nei loro confronti: a queste scene controculturali contemporanee si sono interessati molti siti, specializzati e non, e Boiler Room ha addirittura dedicato loro un format.

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È bene fermarsi qui, ma solo perché la lista potrebbe continuare all’infinito e non ho neanche voluto toccare il filone post-club. Gli esempi che ho fatto non sono "techno" nel senso più integralista del termine, ma il punto è che non vogliono esserlo. Ed è questa volontà che demolisce la credenza che la techno sia “un bumbumbum tutto uguale”. Il sound originale si sta svecchiando anche grazie a queste ibridazioni etniche, si sta evolvendo e ci fa definire "techno" ciò non lo è mai stato.

A Ibiza i DJ fanno sempre le loro pose tech-house, a Berlino i puristi vestiti di nero dalla testa a piedi continuano a fare l'alba, ma i paradigmi della techno si stanno disgregando e reinventando. Il bello è che intanto stanno ricomparendo anche i principi fondamentali del movimento, quelli professati trent’anni fa proprio da Jeff Mills e dall’Underground Resistance, quelli che hanno contribuito a donargli una forte identità e che spesso sono sembrati perduti: unione, ribellione e impegno sociopolitico.

Donato Dozzy ha detto che, in vent’anni di attività come DJ, non è ancora riuscito a comprendere la vera utilità sociale di ciò che sta facendo, ma ne ha osservata la funzione terapeutica. Volete vedere che forse, piano piano, stiamo ritrovando il tassello mancante? Simone è producer/DJ e scrive di musica per DeerWaves, Zero e Noisey. Seguilo su Instagram. Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.

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