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Tecnologia

Perché gli scienziati italiani devono citarsi da soli per fregare la legge

Con la riforma Gelmini del 2010 è cambiato il criterio di accesso alle cattedre universitarie scientifiche, per cui è necessario avere molte più citazioni. Ma fatta la legge, trovato l'inganno.
Immagine: Pexels

Negli ultimi decenni di ricerca scientifica sono stati utilizzati un crescente numero di indicatori quantitativi e bibliometrici per valutare la qualità della ricerca, l’uso di fonti, le assunzioni e le promozioni. Con il crescere di questi indicatori si è aperto un enorme dibattito non solo sulla loro validità, ma anche sugli effetti collaterali di queste misure. Nel dicembre del 2010 la riforma Gelmini (240/2010) ha, tra molte polemiche, cambiato la modalità di accesso alle cattedre universitarie, introducendo una procedura di abilitazione nazionale. L’intenzione era quella di ridurre il nepotismo, aumentare la meritocrazia e contrastare lo strapotere dei baroni. I due criteri fondamentali diventano quelli dell’oggettività e della produttività: per tutti i settori disciplinari in cui l’abilitazione utilizza criteri bibliometrici, per poter accedere a una cattedra da professore associato o ordinario è necessario avere un numero di pubblicazioni e citazioni superiore alla media(na).

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LEGGI ANCHE: Migliaia di ricercatori stanno boicottando il nuovo journal di Nature sull’IA Fatta la legge, trovato l’inganno: le strategie per fregare il sistema sono tante, ma la più immediata è aumentare il numero di auto-citazioni, citando più spesso i propri lavori già pubblicati. Non c’è niente di male, in linea teorica, nell’auto-citazione: specialmente in sotto-campi molto specialistici, o quando si tratta di ricerche che naturalmente evolvono dai lavori precedenti, è abbastanza normale fare riferimento a sé stessi. In una pubblicazione su Research Policy dello scorso dicembre, però, analizzando la produzione scientifica di 886 accademici italiani in 4 campi tra il 2002 e il 2014, il ricercatore Marco Seeber, insieme a un gruppo di colleghi, ha mostrato che l’introduzione delle nuove regole ha portato a un aumento statisticamente significativo nel numero di auto-citazioni da parte degli accademici italiani.

Il sistema universitario italiano, tra l’altro, ci fornisce anche una sorta di caso di controllo naturale: ingegneria gestionale è considerata una disciplina scientifica, con relativi criteri di produttività bibliometrica da raggiungere; al contrario, economia applicata, per quanto sia un ambito di studi simile dal punto di vista concettuale, è considerata una disciplina umanistica, a cui non si applicano i nuovi criteri di produttività. E, guarda caso, lo studio di Seeber conferma che gli economi applicati non hanno aumentato il numero di autocitazioni in maniera altrettanto statisticamente significativa.

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La ricerca mostra che il numero di auto-citazioni è aumentato in maniera sproporzionata rispetto all’aumento generale della produttività, ma l’effetto è visibile anche con una misura più ingenua come nei due grafici qui sopra, che tracciano il numero di auto-citazioni medie in quattro discipline. Il numero di auto-citazioni non è automaticamente o necessariamente un indicatore di pratiche scorrette, ma è un buon “canarino nella miniera” per misurare se, come in questo caso, l’introduzione di nuove misurazioni bibliometriche porti ad un uso più opportunistico delle citazioni, specialmente rispetto a pratiche scorrette più estreme ma più rare, come plagi o fabbricazioni di dati.

L’aumento dell’autoreferenzialità è solo una delle strategie possibili per aggirare i nuovi criteri: dal momento che la procedura di abilitazione conta il numero di pubblicazioni in cui compare l’autore, indipendentemente dal contributo, ci potrebbe essere un incentivo verso l’aumento del numero di co-autori per articolo. “In quel caso l’effetto, ammesso che esista, è più difficile da rilevare,” ha spiegato Seeber in una mail a Motherboard. “Occorre più tempo per osservarlo e distinguerlo dal trend generale verso gruppi di ricerca più grandi e più fluidi.”

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