Sulla razza

Cento anni di cinesi in Italia, e il razzismo passa ancora per gli occhi

Parliamo di “minoranza modello” e di come, nella narrazione mediatica del razzismo e dell’antirazzismo in Italia, le minoranze asiatiche non siano state considerate.
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Illustrazione di mast3r via AdobeStock.

Questo è un approfondimento della quinta puntata del podcast “Sulla Razza” dedicata a “minoranza modello”, l’idea secondo cui alcune minoranze sarebbero migliori di altre: almeno è così negli Stati Uniti, e in Italia? 

“Sulla Razza,” di Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, vuole intavolare una conversazione sulla questione razziale in Italia, e vuole farlo utilizzando un linguaggio aggiornato. Esce a venerdì alterni, e puoi ascoltarlo su Spotify, Apple e Google Podcast. Intanto, segui “Sulla Razza” su Instagram, o vai in fondo all’articolo per avere più informazioni sulla nostra collaborazione col podcast.

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L’Italia ha una delle più grandi comunità cinesi d’Europa, alle spalle di Londra e Parigi. Sono arrivati in Italia circa cento anni fa, precisamente nel 1926, come raccontano Matteo Demonte e Ciaja Rocchi nella graphic novel Chinamen, un secolo di cinesi a Milano (BeccoGiallo), già autori di Primavere e autunni (Beccogiallo, 2015). Il volume ripercorre la storia dei primi cinesi immigrati nel capoluogo lombardo dalla regione del Zhejiang, soffermandosi anche su quando venivano chiamati “occhi di triglia”. Cento anni dopo, le cose non sembrano essere cambiate granché.

Un po’ di persone spiegano cos’è, secondo loro, la razza

Lo scorso anno, mentre le conseguenze della pandemia stavano immobilizzando le nostre vite, riemergeva una strisciante sinofobia—una forma specifica di razzismo che è diretta verso i soggetti cinesi, di discendenza cinese o chiunque venga percepito come tale—che puntava il dito verso un fantomatico virus cinese, stigmatizzando i membri della comunità come responsabili della diffusione. Era sufficiente avere gli occhi a mandorla per essere additati come untori. Qualcosa di simile era successo con gli ebrei durante la peste e con gli irlandesi durante l’epidemia di colera.

Se negli Stati Uniti si sono registrati nell’ultimo anno 3800 casi di violenza (70 percento dei quali di aggressione verbale) nei confronti di soggetti asiatici, l’Italia non è stata da meno. Il direttore generale di Amnesty International Italia, Gianni Rufini, spiegava in una nota datata febbraio 2020 che “persone di nazionalità cinese, cittadini italiani di origine cinese, asiatici sospettati a prima vista di essere cinesi sono visti come degli untori a prescindere dalle loro storie personali. Rischiano di farne le spese soprattutto le bambine e i bambini, il cui diritto all’educazione è messo a rischio da azioni dettate dalla psicosi e dal panico”. Non molto tempo dopo la notte delle bacchette, l’iniziativa organizzata dalla comunità cinese di Milano per incoraggiare i clienti a ripopolare i loro locali, o il lancio di hashtag come #IoNonSonoUnVirus, il governatore del Veneto Luca Zaia si lasciava andare in commenti razzisti in diretta televisiva

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Nonostante queste premesse, all’indomani delle proteste #BlackLivesMatter, tanto da noi quanto nel mondo, del ritrovato interesse della bolla culturale e mediatica italiane verso la questione razziale, non emergeva dove, in questo nuovo scenario di consapevolezza, si collocassero le minoranze asiatiche—soprattutto i sinoitaliani e le persone originarie del sud-est asiatico. Nella narrazione mediatica del razzismo e dell’antirazzismo, le minoranze asiatiche non sono state considerate.

Al netto dell’emergenza sanitaria, il razzismo contemporaneo trova la propria giustificazione nella razionalità: le persone di origine straniera vanno discriminate in nome della disoccupazione, della crisi economica, della parità di genere, delle tradizioni e, da un anno a questa parte, della sicurezza sanitaria. Mi sembrava quasi che gli asiatici non potessero subire il razzismo sistemico, e la causa, come spiega bene la sinoitaliana Xixi Hong in un pezzo su ChinaFiles, è forse da rintracciare anche nell’etichetta di “minoranza modello” che viene loro affibbiata. Scrive Hong che questo stereotipo è stato utilizzato “dalla politica a scopo propagandistico in antitesi con altre minoranze, soprattutto con quella afroamericana negli Usa.” 

Chiedo a Xixi Hong, che ho raggiunto al telefono per un commento, se secondo lei si può parlare di minoranza modello anche in Italia. “Secondo me l’etichetta è funzionale anche al nostro contesto sociale,” dice Hong. “Generalmente le persone di origine cinese in Italia sono viste come dei grandi lavoratori, e anche come dei soggetti che si isolano nella propria comunità, senza integrarsi molto: questa sembra essere l’opinione comune.” Vengono in mente le parole prima scritte e poi pronunciate da Vittorio Feltri a proposito del rapporto tra la minoranza cinese e i bergamaschi autoctoni: “I cinesi sono silenziosi, non delinquono, non si ‘allargano’, insomma non si fanno notare se non come uomini e donne disposti a lavorare indefessamente.”

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“Ritengo che spesso la comunità cinese abbia interiorizzato questo stereotipo di minoranza modello per facilitare e legittimare la propria integrazione o assimilazione nella società,” prosegue Hong. Viene loro insegnato che sono premiati dal successo coloro che riescono ad autorappresentarsi come minoranza modello, scrive Dae Shik Kim Jr. sul The Nation—e naturalmente il metro di giudizio è la vicinanza alla bianchezza americana (o italiana).

“Devo dire che io non amo l’etichetta, perché in Italia viene utilizzata dalla politica e dalla propaganda in antitesi con altre comunità immigrate: si vuole intendere che, siccome i cinesi italiani si comportano bene, allora bisogna favorire un certo tipo di immigrazione rispetto a un altro.” Insomma, ci sono immigrati indesiderati e immigrati desiderabili, o qualificati, tanto che, si legge in quello stesso articolo su Il Giornale del 2015, “non si sono segnalati episodi di razzismo o analoghi sentimenti di ostilità” contro i cinesi di Bergamo.

Eppure non è lo stesso concetto di minoranza modello una forma di razzismo? “Qualche anno fa circolava su internet questo post,” mi racconta Hong. “Descriveva un ‘cinese tipo’: non aggredisce, non molesta le ragazze, si fa gli affari propri, non pretende casa luce e gas gratis, non ruba, anzi, paga tutto in contanti.” Chiaramente il post voleva alimentare una contronarrazione utilitaristica rispetto al ritratto dell’immigrato indesiderato—accattone, che si prende le case popolari, i trenta euro al giorno e gli assegni familiari. In quanto a stereotipi e minoranza modello, sulla stessa lunghezza d’onda è la fotografia di una pagina di un libro di testo per l’infanzia comparso sui giornali a inizio aprile: Lee, la bambina “arrivata dalla Cina”, “è un fenomeno in matematica,” “gioca senza litigare mai,” “ride senza far troppo rumore” e “non soffia baci con la mano dal suo banco.” All’editore del sussidiario ha successivamente indirizzato una lettera aperta il gruppo Dialogo/Biàn 辩. “L’etichetta è dannosa proprio per questo, quando cioè non si riesce a rientrare nel canone che implica o sottintende,” spiega Hong.

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L’ipocrisia del badge da minoranza modello è emersa secondo lei proprio durante la pandemia “perché da un giorno all’altro la comunità cinese italiana non era più vista come meritevole, anzi, è stata scambiata con il governo cinese.” Hanno cioè smesso di essere cittadini—modello o meno ormai importava ben poco—e hanno finito per rappresentare la giustificazione di un sentimento anti-cinese. 

In Italia si è tornati a occuparsi di razzismo nei confronti delle persone asiatiche il 16 marzo, in seguito alle sparatorie di Atalanta. Il giorno dopo l’hashtag #StopAsianHate è andato in tendenza negli USA, e lo stesso è successo in Italia a un paio di settimane di distanza—un elemento che traccia una freccia tra l’antirazzismo (e la sua narrazione) americano e quello italiano.

Chi è nero, in Italia?

“La situazione negli Stati Uniti forse è più complessa perché è vero che il movimento BLM si dichiara intersezionale: al di là del nome, lo scopo del suo attivismo è quello di portare l’attenzione sulle forme di discriminazione e di razzismo istituzionalizzato che accomunano diversi gruppi etnici, e non soltanto quello afroamericano, però spesso questo non viene recepito chiaramente, infatti la propaganda si è sempre servita della comunità asiatica in contrapposizione a quella afroamericana per far prevalere un modello migratorio ben preciso,” interviene Hong. Nonostante questo, a fianco del movimento #BlackLivesMatter si è schierata una buona fetta di asiatici americani: durante la scorsa estate, nel corso di una protesta a Los Angeles, il coreano-americano Edmond Hong ha preso il microfono in mano per raccontare di come sia stato cresciuto razzista nel Sud bianco, incoraggiato ad assimilarsi alla cultura dominante e dissuaso dallo schierarsi al fianco della comunità afroamericana. 

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“Trovo che non sia giusto cooptare il movimento BLM in YLM [yellow lives matter], perché BLM è di per sé intersezionale, parla e agisce per tutta la comunità POC. Ciò non toglie che quella asiatica senta la necessità di creare un nuovo movimento, che riesca in qualche modo a dare più spazio e visibilità alla complessa realtà che è la diaspora asiatica. Anche in Italia percepisco il movimento #BLM come intersezionale, so di italiani di origine cinese che hanno partecipato a delle manifestazioni #BlackLivesMatter, facendo propria la battaglia, proprio perché si ha una sensibilità simile verso queste tematiche.”

“Ad ogni modo, è difficile comprendere il razzismo verso i cinesi, se non lo si vive sulla propria pelle, e quindi spesso si minimizza ciò che troviamo offensivo o razzista—come per esempio imitare l’occhio asiatico.” Le prese in giro sulla forma degli occhi a mandorla, la pronuncia della L al posto della R e l’affabilità sconfinante nel servizievole sono tra gli elementi utilizzati per stereotipare e offendere gli italiani di origine asiatica. L’ultimo caso è quello di Striscia la Notizia, in cui i due conduttori si sono lanciati in quella che doveva essere una gag sui cinesi. Michelle Hunziker e Gerry Scotti hanno dovuto fare marcia indietro non appena la notizia ha fatto il giro del mondo, grazie all’account Instagram Diet Prada. E infatti in inglese sono arrivate le prime scuse—quasi che il razzismo non possa essere perpetrato in italiano.

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A pochi giorni di distanza, il programma è tornato sulla questione: in una delle ultime puntate i conduttori hanno fatto sarcasticamente riferimento alla reazione sproporzionata di Diet Prada, che li avrebbe addirittura “accusati di razzismo”, “suscitando polemiche su polemiche.”  Seguono poi immagini di un film interpretato da Pasquale Petrolo, in arte Lillo, in cui si ripete il siparietto del cinese stereotipato: allora non è che Diet Prada—interviene il Gabibbo—ha solo voluto screditare la casa di moda a cui la conduttrice è legata?

Hunziker e Scotti dimostrano così che subire razzismo, da noi, è certamente terribile, ma mai quanto essere accusati di razzismo. In fin dei conti, se non si offende Lee, la cinesina del sussidiario, quando i compagni “la prendono in giro”, perché mai dovrebbero farlo i sinoitaliani, no?

Allora non parliamo più di razzismo, che si offendono i razzisti.

Per 30 minuti, due volte al mese, Sulla Razza tradurrà concetti e parole provenienti dalla cultura angloamericana, ma che ci si ostina ad applicare, così come sono, alla realtà italiana—BAME, colourism, fair skin privilege. In ogni episodio si cercherà di capire come questi concetti vivono, circolano e si fanno spazio nella nella nostra società. Sulla Razza sarà anche una newsletter, e qui su VICE pubblicheremo periodicamente contenuti di approfondimento sulle singole puntate.

Nadeesha Uyangoda, Nathasha Fernando e Maria Mancuso, grazie anche alle voci e ai punti di vista degli italiani non bianchi, parleranno di come queste parole impattano le vite di chi è marginalizzato e sottorappresentato da molto tempo.

Sulla Razza è un podcast prodotto da Undermedia grazie al supporto di Juventus.