Tecnologia

I lavoratori in smart working che si sono trasferiti all’estero di nascosto

Dopo oltre due anni di pandemia, le aziende spingono perché i dipendenti tornino in ufficio—ma qualcuno non è nemmeno più nello stesso Paese.
Giacomo Stefanini
traduzione di Giacomo Stefanini
Milan, IT
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Foto: Getty Stock Images.

Daniel odia le videochiamate con il suo capo, ancora più di quanto già non le odino tutti gli altri. Ed è comprensibile, perché Daniel nasconde un grosso e complicato segreto: non vive a Birmingham, in Inghilterra, come crede la sua azienda. In realtà, da due anni a questa parte, vive a 9000 km di distanza: a Chiangmai, in Tailandia.

Considerate la numerose differenze tra i due paesi, le riunioni via web cam possono presentare varie difficoltà. Tanto per cominciare, quando in un posto è giorno nell’altro è spesso notte e, mentre a Birmingham fa freddo, in Tailandia fa molto caldo. Nel tentativo di ridurre lo scarto tra i due paesi, Daniel si trova spesso a scegliere se tenere una rumorosa ventola accesa o sudare sotto vestiti pesanti mentre il suo capo “si gela il culo in Inghilterra.” Nascondere la verità diventa ancora più arduo durante gli eventi meteorologici estremi che colpiscono la Tailandia. “È dura mascherare una tempesta tropicale fuori dalla finestra,” ha raccontato Daniel. Con il tempo ha imparato qualche trucchetto, come controllare costantemente il meteo a Birmingham in modo da non farsi cogliere impreparato; ma la fatica e la tensione finiscono per spremerlo, dopo un po’.

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“È molto difficile mantenere l’apparenza tutto il tempo,” ha ammesso.

A due anni e passa dall’inizio della pandemia, le aziende di tutto il mondo stanno cominciando a chiedere—e in certi casi a pretendere—che i dipendenti tornino a lavorare in ufficio. Molti hanno opposto resistenza e difeso lo smart working citando fra i “pro” la riduzione del pendolarismo, un migliore equilibrio vita-lavoro e una maggiore capacità di concentrazione.  

Ma una fetta nascosta della popolazione ha un altro motivo per non voler tornare in ufficio: si è segretamente trasferita in un’altra città, in un’altra regione, in un altro stato o addirittura in un altro continente.

Il fenomeno è più diffuso di quanto si creda e molte compagnie hanno problemi a gestire “dipendenti che si sono trasferiti a lavorare in posti ‘più gradevoli’ senza informare la direzione,” ha detto Robby Wogan, CEO della multinazionale della mobilità MoveAssist. Un sondaggio condotto per conto della azienda HR Topia ha scoperto che fino al 40 percento degli addetti al settore delle Risorse Umane ha scovato dipendenti che lavoravano di nascosto dall’estero e che soltanto il 46 percento era “molto sicuro” di sapere dove risieda gran parte della propria forza lavoro, in discesa dal 60 percento di appena l’anno scorso.

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Questa incertezza è giustificata. Nello stesso sondaggio, il 66 percento degli oltre 1500 dipendenti a tempo pieno sentiti negli USA ha detto di non aver comunicato alle risorse umane tutte le date di lavoro da fuori stato o nazione, e il 94 percento ha detto di credere che dovrebbe essere permesso lavorare dove si vuole a patto che le proprie mansioni vengano portate regolarmente a termine.

Alcune aziende hanno scoperto dipendenti che si trovavano all’estero per caso, come una startup tecnologica di San Francisco che aveva chiesto allo staff di aggiornare gli indirizzi per spedire nuove felpe, stanando così “decine di persone in luoghi dove non avrebbero dovuto essere,” nelle parole di Steve Black, cofondatore e direttore strategico di Topia, che aiuta le aziende a collocare e gestire i lavoratori in tutto il mondo.

Questo tipo di scoperta accidentale è diventata all’ordine del giorno, specialmente per i capiufficio. Alcune aziende si sono già mosse per terminare i rapporti lavorativi con dipendenti che si rifiutano di tornare indietro dopo che è emerso che si trovavano a lavorare all’estero magari già da mesi.

Un altro nomade digitale, Matt, non ha sentito il bisogno di tenere nascosti al capo i suoi spostamenti. Era stanco di pagare “una cifra assurda” per l’affitto di un appartamento a Manhattan e ha deciso di dirigersi in Europa nel primo periodo della pandemia, prima in UK e poi in treno in Francia, dove è riuscito a convincere l’ufficio immigrazione di essere residente in UK mostrando un indirizzo di Londra sul sito della sua banca, al posto dei documenti. “È bastato quello,” ha spiegato Matt. Matt è uno pseudonimo. Il motivo per cui non usiamo il suo vero nome sarà chiaro a breve.

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Andava tutto bene tra Matt e la sua azienda negli USA, finché non ha chiesto aiuto per ottenere un visto di permanenza in Europa. L’azienda gliel’ha negato e gli ha chiesto di tornare immediatamente a casa.

Ma Matt non aveva voglia di tornare, così ha elaborato un intricato piano per restare all’estero. Ha comprato un biglietto aereo e l’ha inviato al suo capo come prova che era di ritorno negli USA, poi ha informato i colleghi che sarebbe andato a vivere in un altro stato lontano da loro, il che avrebbe dovuto dargli il tempo di tornare in caso di emergenza. “Poi ho subito annullato il biglietto e sono rimasto in Europa,” ha detto Matt. Dopo un po’ di tempo, ha chiesto alla compagnia una lettera di conferma di assunzione, dicendo che gli serviva per affittare una casa. Con quella lettera, ha ottenuto il visto di residenza in Europa.

Una volta iniziata la sua vita segreta in Europa, Matt ha dedicato un sacco di tempo a creare un sistema per nascondere la propria posizione. All’inizio ricorreva a un semplice VPN, ma poi si è accorto che il sistema informatico che usava per lavoro lo aggirava facilmente, con il rischio di essere localizzato. Così ha trovato il modo di inscenare un intero “ambiente virtuale” nel suo computer che fosse in grado di confondere il sistema lavorativo, poi ha acquistato un router portatile da viaggio per ulteriore sicurezza. Per aggiungere una protezione in più, cambiava meticolosamente VPN, girando virtualmente il mondo ogni giorno, da Los Angeles al Brasile al Sudafrica. Così facendo, tentava di confondere le acque in caso la sua vera posizione emergesse.

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“Ho cercato di costruire uno schema che mi desse la possibilità di negare in maniera credibile,” ha detto Matt. “Se per caso una volta avessi sbagliato e mi fossi dimenticato di accendere il VPN—o mi trovassi in una situazione in cui non lo potevo usare per qualche motivo—non sarebbe parso così strano.”

Come nel caso di Daniel, le videochiamate via Zoom sono difficili per Matt. Per evitare problemi, fa sempre in modo di avere un “noioso sfondo bianco” ben illuminato, senza finestre in vista.

Più che altro, però, cerca di tenere la webcam spenta, che è diventato più facile con il passare del tempo, mano a mano che le persone, anche quelle che non avevano montato un enorme castello di menzogne per vivere all’estero, si sono stancate di tutte queste videoriunioni.

Storie come quella di Daniel e Matt sono, comprensibilmente, l’incubo di ogni datore di lavoro. Black di Topia ha detto che “l’improvviso passaggio” al lavoro da remoto è stato una sfida impegnativa per molte aziende, anche perché è diventato problematico capire dove si trova un dipendente oggigiorno. “Il rischio ora è 5 o anche 10 volte più alto di prima per l’organizzazione,” ha constatato amaramente Black. Wogan di MoveAssist ha confermato che molti dipartimenti delle Risorse Umane si stanno “scervellando” per capire come assecondare la voglia di viaggiare dei propri dipendenti senza esporsi a problemi legali.  

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Molti dirigenti di aziende stanno cercando di spingere i dipendenti a tornare in ufficio perché, sostengono, il contatto quotidiano con i colleghi e la possibilità di scambiarsi di persona battute e consigli fanno crescere la produttività. Ma secondo alcuni esperti, dietro piani di questo tipo ci sarebbe la paura di potenziali implicazioni fiscali.  

“Se un dipendente resta nel posto sbagliato abbastanza a lungo, il fatto può avere delle implicazioni fiscali sia per l’azienda che per l’individuo,” ha detto Black, e ha aggiunto che molte compagnie temono di stabilire per sbaglio una presenza imponibile in un paese straniero.

Alcune agenzie legate ai governi sono a loro volta alle prese con il problema. In UK, l’Ufficio della Semplificazione Fiscale sta portando avanti un sondaggio per comprendere meglio gli effetti fiscali e di sicurezza sociale per datori di lavoro e dipendenti quando una persona vive al di fuori dei confini nazionali—e per ottenere un’idea più precisa di quanto sia diffuso il fenomeno.

Contrariamente allo stereotipo del nomade digitale che fa la bella vita, Daniel non si è trasferito in Tailandia per lavorare stando in spiaggia. In Inghilterra aveva un buon posto fisso da ingegnere civile. Ma durante la pandemia, la sua compagna ha espresso il desiderio di tornare a vivere in Tailandia con il figlio in modo da essere più vicina ai suoi genitori. Non volendo perdere la famiglia, si è trasferito anche lui. In Tailandia, tuttavia, l’unico vero lavoro che è riuscito a trovare è da insegnante d’inglese, che non paga abbastanza per portare avanti una famiglia. Così si è cercato un lavoro da assistente tecnico in una startup nel vecchio continente.

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Daniel non sa per quanto tempo riuscirà a mantenere la copertura. Anche se è un’azienda basata sul lavoro in remoto, il capo ha iniziato a invitarlo regolarmente a Londra per passare un po’ di tempo con i colleghi. “Uso il mio bambino come scusa o dico che quel giorno non posso,” ha confessato, ma non può funzionare per sempre. Se sarà scoperto, si aspetta di venire punito. “Probabilmente ho infranto molte regole,” ha detto. Ma non lascerà la compagna e il figlio in Tailandia se gli sarà richiesto. Cercherà qualcos’altro.   

Anche Matt lascerebbe il lavoro se gli venisse richiesto di tornare nel suo paese e presentarsi in ufficio. La pandemia ha cambiato le sue priorità. “Una volta pensavo solo alla carriera,” ha detto. Ora, vuole soltanto vivere all’estero.

Pur non essendo diventato un nomade digitale di proposito, Daniel apprezza questo stile di vita, e non è il solo. Chiangmai è la “capitale mondiale del nomadismo digitale,” ha detto Daniel. “Tutte le persone sotto i 40 qua lo fanno. Lavorano tutti online. Alcuni sono autorizzati, ma molti non lo sono.”

Nel corso degli ultimi due anni, Daniel ha avuto modo di riflettere sulla sua decisione ed è giunto alla conclusione che è moralmente accettabile, seppur legalmente discutibile. In Tailandia ha accesso a internet veloce e fa il suo lavoro bene e in orario, esattamente come farebbe in Inghilterra.

“Non ci vedo nulla di male, a essere sincero, e penso che dovrebbero farlo tutti,” ha detto. “Non vedo proprio dove stia il problema.”