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Le possibili conseguenze delle elezioni britanniche sugli italiani nel Regno Unito

Abbiamo cercato di capire cosa cambierebbe in caso di vittoria di Theresa May o Jeremy Corbyn.

Negli ultimi tre mesi, il Regno Unito è stato colpito da tre attacchi terroristici che hanno causato decine di morti e centinaia di feriti, e portato il paese in uno stato di emergenza senza precedenti. È in questo clima che l'8 giugno si vota per scegliere il prossimo primo ministro.

A rendere queste elezioni molto particolari, poi, c'è ovviamente il fatto che arrivano dopo Brexit e alla vigilia dei negoziati che determineranno l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea.

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I candidati principali sono due: l'attuale primo ministro Theresa May per i Tory, e Jeremy Corbyn per il Labour. Si tratta di figure completamente diverse—a partire dai programmi per arrivare alla storia personale. Corbyn si definisce socialista, e tra le altre cose propone la nazionalizzazione delle ferrovie e l'aumento delle tasse per i redditi più alti. May, invece, è una veterana della politica conservatrice, e il suo programma punta su temi classici: taglio della spesa sociale, controlli più stringenti sull'immigrazione, sicurezza.

Se solo un mese fa la vittoria di Theresa May sembrava scontata, oggi—tra le accuse di aver personalizzato eccessivamente la campagna elettorale, una credibilità minata da errori politici e le polemiche post attentato al London Bridge per aver ridotto, negli anni in cui era ministro degli interni, di 20mila unità le forze di polizia—non è più così certa.

Detto ciò, quali potrebbero essere le conseguenze dell'esito delle elezioni britanniche sui moltissimi italiani che vivono nel Paese? Ho cercato possibili risposte in caso di affermazione di uno o dell'altro candidato.

Nel 2016, gli italiani residenti nel Regno Unito erano circa 600mila. Ovviamente, da quando si è cominciato a parlare più concretamente di Brexit a essere interessati al futuro del paese sono soprattutto loro, insieme ai tre milioni di cittadini europei che vivono nel paese.

Già subito dopo il voto referendario si era scatenato un allarmismo che non sembra assolutamente essersi placato—dato che nessuno, nel frattempo, è riuscito a offrire risposte e soluzioni precise alla loro condizione. A oggi, infatti, le cose che sappiamo con certezza sono poche, e gli accordi tutti da definire.

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Anzitutto, concentrandosi esclusivamente sull'articolo 50—quello che stabilisce le procedure per lasciare l'Unione Europea, attivato lo scorso 29 marzo—è quasi certo che i cittadini europei, nel caso, perderebbero automaticamente il diritto di restare nel Regno Unito in quanto comunitari. Questo rende necessaria una modifica delle leggi sull'immigrazione, in base agli accordi che verranno fatti con i paesi membri dell'Unione durante i negoziati.

L'opzione più probabile, e che viene data quasi per scontata, è la fissazione di un termine temporale che permetta alle persone di rimanere nel Regno Unito. Questa soluzione presenta dei problemi: un numero altissimo di cittadini europei rimarrebbe comunque fuori da questa finestra. Come è stato infatti fatto notare da più parti, il Regno Unito non dispone di un database che consenta di capire la precisa data di ingresso dei cittadini europei.

Mentre il governo cerca di capire come gestire quest'eventualità, i dubbi si addensano anche sulla data in cui la Brexit sarà ufficialmente applicata ai cittadini europei nel Regno Unito. Theresa May ha dichiarato che sarà decisa nelle prime fasi dei negoziati, mentre i leader europei sostengono che questa debba essere automaticamente fissata per il 29 marzo del 2019.

La buona notizia è che—mentre gli italiani nel Regno Unito si sentono sempre meno certi della loro permanenza, i cittadini europei assunti da aziende britanniche sono calati e i banchieri lasciano il paese—entrambi i candidati hanno manifestato l'intenzione di trovare un accordo speciale con i cittadini europei.

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Se Theresa May qualche tempo fa ha dichiarato che il Regno Unito sarebbe stato più "povero" e più "debole" senza il contributo dei lavoratori europei, Corbyn ha ribadito che garantirebbe immediatamente "diritti ai cittadini europei che vivono in Gran Bretagna."

Il destino degli italiani che lavorano e studiano nel paese, e per certi versi il futuro dell'Europa e del suo rapporto con questa, sarà deciso nel corso dei negoziati, che entreranno nel vivo il prossimo 19 giugno e che si concluderanno con l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea nel 2019.

Di fatto, il Regno Unito va alle urne per arrivare ai negoziati con un governo stabile, e un primo ministro forte dell'appoggio popolare per uscire dalla trattativa nel miglior modo possibile. Su questo punto, i candidati si collocano su posizioni diverse.

Da una parte Theresa May, che pure nella campagna elettorale con il suo partito si era schierata per il Remain, è una sostenitrice della cosiddetta hard Brexit—ossia la linea dura che vorrebbe la rottura totale con l'UE, anche senza un accordo. La sua campagna è incentrata proprio su questo: assicurare una leadership "forte e stabile," in grado di garantire al Regno Unito un'uscita altrettanto forte e stabile.

Dal canto suo Jeremy Corbyn, pur accusato di non essersi schierato in modo abbastanza deciso per il Remain e di aver avuto un atteggiamento tiepido nei confronti dell'Europa, è orientato al raggiungimento di un buon accordo.

In ballo ci sono centinaia di nodi da sbrogliare, tra cui una fattura da 60 miliardi di euro che il Regno Unito potrebbe pagare per "divorziare" dall'UE, e accordi commerciali che andranno a condizionare il futuro di entrambe le parti.

Chiaramente siamo di fronte a uno scenario del tutto inedito. I dettagli di Brexit, e di converso il futuro degli italiani nel Regno Unito, si conosceranno strada facendo. Quello che si può dire con certezza è che se con Theresa May sappiamo bene o male cosa aspettarci, sotto questo punto di vista Jeremy Corbyn rappresenta invece un'incognita—nel bene e nel male.

Thumbnail via Flickr. Segui Flavia su Twitter