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La cessione del Milan è il tramonto definitivo del berlusconismo

Per tre decenni il Milan è stato la palestra del consenso, con noi cavie più o meno consapevoli. Venderlo ai cinesi sarà sicuramente stata una brillante operazione economica, ma è anche l'ultimo chiodo nella bara del berlusconismo.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Pur non essendo un tifoso particolarmente appassionato, il Milan è la mia squadra sin dall'infanzia. Non ricordo di preciso come abbia iniziato a tifarlo: ho dei vaghi flashback di me, da bambino, seduto per terra a guardare la televisione ed esultare per i successi del Milan dei primi anni Novanta.

All'epoca mi sembrava davvero che tutto il calcio equivalesse al Milan. Ma non ero di certo l'unico: molti miei coetanei, non necessariamente patiti di calcio, hanno compiuto lo stesso percorso. Dopotutto, come si faceva a non esaltarsi per una squadra che vinceva tutto, lo vinceva in maniera spettacolare, e lo faceva circondata da un'aura quasi misticheggiante, di predestinazione al dominio più assoluto?

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Oggi, come noto, quel ciclo storico e generazionale durato 30 anni si è chiuso con la cessione del Milan a una cordata di investitori cinesi. Da diverso tempo le voci della vendita si erano fatte piuttosto insistenti, pur senza mai concretizzarsi fino in fondo. Ma una cosa era chiara a tutti: l'incedibilità della squadra non era più in discussione, e il Milan non era più "sacro" per Berlusconi.

Se si deve rimanere sul dato concreto e guardare questa vicenda sotto un profilo puramente razionale, è evidente che si tratta di un'operazione commerciale. Il Milan, inteso come società, è pieno di debiti (220 milioni di euro) e non è più redditizio per il gruppo Fininvest come lo era una volta; e venderlo a 740 milioni di euro—con l'inserimento di clausole che assicurano gli investimenti necessari a riportare la squadra ai vertici del calcio italiano ed europeo—è stato indubbiamente un bel colpo.

Ma quando si parla di Berlusconi, il confine tra affari, sentimenti e politica è quanto di più labile possa esserci al mondo. E il Milan è stato senz'ombra di dubbio uno degli strumenti fondamentali nella costruzione del consenso culturale e politico del berlusconismo in Italia.

Quando l'ha rilevato nel 1986, Berlusconi era un imprenditore già abbastanza conosciuto dal grande pubblico grazie alle televisioni e a Canale 5. L'impresa—pompata e gonfiata proprio sulle tv private—era ammantata sia di una retorica onirica, che dalle tipiche frasi che abbiamo imparato a conoscere: prendersi il Milan è un "sogno," e il Milan "è un affare di cuore, costoso, ma anche le belle donne costano."

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Gli obiettivi sono sin da subito ambiziosi. "Il Milan deve diventare la squadra più forte del mondo attraverso le vittorie dei più importanti trofei internazionali," dice Berlusconi, "e in forza di un gioco spettacolare rispetto agli avversari. Voglio un Milan coraggioso, in Italia e all'estero, padrone del campo e padrone del gioco. Il bel gioco dev'essere il nostro principale traguardo."

Nell'arco di qualche anno la squadra diventa effettivamente una delle più forti del mondo, e la simbiosi tra le vittorie sul campo e le televisioni del presidente-proprietario è totalizzante. Il Milan è il miglior prodotto televisivo mai realizzato fino ad allora, e contribuisce alla rottura dell'egemonia della Rai e all'espansione del progetto di "conquista" di Berlusconi.

Quando poi Silvio decide di scendere in campo nel 1994, il serbatoio di consenso era già stato riempito anche e soprattutto dai trionfi del Milan—in quell'occasione, per esempio, c'era stata la vittoria della Champions League a fare da traino. Io stesso ne avevo inconsciamente introiettato l'epica, ma chiaramente non me ne rendevo conto; molti di coloro che avevano il diritto di voto hanno convertito il tifo in un'adesione politica.

Berlusconi stesso non ha mai esitato a sfruttare politicamente il Milan, e lo ha preso più volte a parametro di come dovrebbe diventare l'Italia sotto la sua guida—ben ricambiato dai tifosi, tra l'altro, che nel 2011 hanno fatto propaganda politica per il PdL.

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Una tattica ricorrente, poi, è stata quella di fare i cosiddetti "colpi di mercato" nel corso delle campagna elettorali, o subito dopo le elezioni. Nell'estate del 1995, mentre c'è il governo Dini, Berlusconi compra Roberto Baggio e George Weah; nel 2001, fresco di vittoria, acquista Rui Costa e Pippo Inzaghi; nel 2006, dopo la sconfitta contro Romano Prodi, vende Schevchenko; nell'estate del 2008, una volta tornato a Palazzo Chigi, compra Ronaldinho.

Nel gennaio del 2013, in piena campagna per le elezioni generali, Berlusconi sborsa 20 milioni di euro e riesce a portare Mario Balotelli al Milan. Secondo dei sondaggi, l'acquisto avrebbe potuto portare fino a 400mila voti, oltre l'1 percento su scala nazionale.

Del resto, secondo degli studi condotti dall'ex sondaggista di Berlusconi Luigi Crespi, "il Milan e Berlusconi erano visti dall'opinione pubblica come la stessa cosa."

Nel 2010 una ricerca dello stesso Crespi—citata da un giornale brasiliano che commentava l'acquisto di Robinho—sosteneva che "la situazione precaria del Milan nel campionato italiano potrebbe avere conseguenze gravi sul gradimento politico di Berlusconi. Il capo del governo potrebbe perdere tra il 20 e il 25 per cento dei milanisti che votano il suo Popolo della Libertà. In termini elettorali, ciò vorrebbe dire una perdita di due punti percentuali a livello nazionale."

Ovviamente i sondaggi e le argomentazioni di Crespi possono lasciare il tempo che trovano, ma non si può non constatare come l'appannamento del Milan abbia accompagnato passo per passo la parabola decadente del Silvio Berlusconi politico. Basta guardare gli ultimi anni, in cui la squadra ha fatto semplicemente schifo—vuoi per gli investimenti sbagliati, vuoi per i numerosi errori di gestione commessi dalla società (il disastro dello stadio al Portello è fin troppo emblematico) e dallo stesso Berlusconi.

Insomma, il Milan di adesso è uno sbiaditissimo ricordo di quello che era 25 anni fa. Così come lo è del resto Berlusconi—e per fortuna, aggiungo. In questo senso, dunque, la cessione di oggi è il punto terminale di un percorso obbligato dalle contingenze finanziarie, ma al contempo è la definitiva conferma della fine di un'esperienza non solo sportiva, ma anche politica e culturale.

Il Milan, infatti, era uno degli architravi portanti dell'universo narrativo creato da Silvio Berlusconi. Di più: per tre decenni è stata la sua vera e propria palestra di consenso a livello nazionale, di cui noi siamo stati delle cavie più o meno consapevoli.

Vendere il Milan ai cinesi sarà sicuramente stata una brillante operazione economica, ma è anche l'ultimo chiodo nella bara del berlusconismo.

Thumbnail via A.C. Milan. Segui Leonardo su Twitter