I rifugiati siriani sono bloccati tra due inferni

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I rifugiati siriani sono bloccati tra due inferni

Il fotografo di guerra Giles Duley ha incontrato i civili in fuga dalla guerra in Siria.

Il mio primo incontro col fotografo Giles Duley risale a un mese fa, quando l'ho contattato per sapere del suo lavoro prima e dopo l'incidente che lo ha privato delle gambe e di un braccio. L’ultimo viaggio di Giles è stato in Giordania, dove ha documentato l’arrivo dei rifugiati siriani al campo di Zataari. – Jamie Collins

La notte il freddo si è fatto così pungente che ho trovato rifugio in un prefabbricato gestito dai medici dell’UNHCR. Ce ne stavamo lì, a bere tè, combattere la stanchezza e aspettare. Era quasi l’una di notte e non c’era nemmeno l’ombra di rifugiati. Irrequieto ho raggiunto i miei colleghi, che si stavano dividendo una sigaretta nella notte senza stelle. Poi è calato il silenzio—potevamo udire gli autobus e allora, da quella notte fredda e buia, sono iniziati ad arrivare. La prima a comparire è una bambina; doveva avere cinque anni, indossava un cappotto color crema e una determinazione che andava oltre la sua età. Dietro di lei, due giovani madri stringevano i loro bambini, avvolti in coperte per proteggerli dal freddo. Si sono fatti strada nella grande tenda-reception dove sarebbero stati esaminati, nutriti, curati e dove, infine, gli sarebbe stato assegnato un appezzamento nel campo.

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Sono rimasto ad osservare, mentre ne arrivavano sempre di più; decine, centinaia e, fino all’alba, quasi 2.000. Un uomo che indossava un completo e teneva per mano suo figlio; una coppia di anziani che a fatica trascinavano i loro pochi averi; una donna incinta in lacrime; un giovane uomo trasportato da una parte all’altra del terreno irregolare sulla sua sedia a rotelle. Ogni viso era spettrale; segnato dallo sfinimento, dall’incertezza, dalla paura. Le scene erano reminiscenze di così tante guerre precedenti, sbiadite in immagini in bianco e nero di civili costretti a fuggire con soltanto ciò che riuscivano a portarsi dietro, ricordi della vita che avevano. Ma questo non è un qualunque passato terribile, questo è ora; il ginepraio di chi è stato sfollato a causa della guerra in Siria, una guerra che diventa ogni giorno più violenta e brutale.

Le cifre sono inimmaginabili: più di 70.000 persone uccise, più di quattro milioni di sfollati e più di un milione di rifugiati registrati dall’UNHCR. Nella sola Giordania vi sono 340.000 rifugiati, molti dei quali nel campo di Zataari.

Coloro che hanno disabilità permanenti o connesse alla guerra affrontano la sfida più grande. Spesso timorosi di ricevere cure negli ospedali statali non hanno idee precise, se non quella di fuggire dalla Siria. Mentre le organizzazioni di beneficienza, come la Handicap International, riescono a fornire fisioterapia e supporto, la realtà della vita in un campo rifugiati, da disabili, è estremamente dura. Nei giorni successivi incontro e fotografo alcuni dei rifugiati, ascoltando le loro storie. Uomini, donne e bambini, che sono gli individui dietro i numeri, persone qualunque che hanno perso tutto, e che ora affrontano un tetro futuro da rifugiati. Senza una casa, senza la sicurezza di poter mangiare, impossibilitati a lavorare o a frequentare una scuola, con cure mediche molto limitate e spesso con famiglie numerose da mantenere. Se questa è la loro unica alternativa, non si può non chiedersi a che razza di inferno siano sfuggiti.

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Questo è un conflitto complesso, con risposte difficili da trovare. Mentre noi valutiamo i pro e i contro dell'armare l’Esercito Siriano Libero, parliamo della linea rossa relativa all’uso delle armi chimiche e discutiamo degli interventi, sembra che ci stiamo dimenticando una sola semplice verità. Ogni giorno, civili innocenti vengono uccisi, mutilati e costretti a una vita da rifugiati. Dovremmo dare la priorità alla loro protezione senza discussioni.

Campo Zaatari, Giordania, 30 marzo 2013.

Per vedere altri lavori di Giles, cliccate qui. E per sapere di più sul suo conto, leggete la nostra intervista.