Il posto segreto di Gazzelle

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Musica

Il posto segreto di Gazzelle

Abbiamo fatto un giro in barca con il cantautore romano e ci siamo fatti raccontare la sua musica e la sua vita, che poi sono più o meno la stessa cosa.
Carlotta Sisti
Milan, IT

My Secret Place è il format che vi vuole far conoscere i vostri artisti preferiti attraverso le loro passioni segrete oppure i loro sogni nel cassetto mai realizzati prima. Praticamente un incrocio tra VICE e Real Time.

Il primo ospite della rubrica è Gazzelle, che, nonostante l’enorme successo del suo primo disco Superbattito, è rimasto un ragazzo semplice, e ha scelto di fare con noi un giro in barca sui navigli milanesi. Per un magistrale gioco di fraintendimenti, il pomeriggio in compagnia di Flavio è partito in un’atmosfera da zucchero filato che ho subito attribuito, in preda a una megalomania ingiustificata, a quanto stavamo per fare. In realtà il sorriso trasognato di Gazzelle aveva tutt’altra origine: “Rigà", ci ha detto lui prima di qualunque altra cosa, "ho preso il cane, mi arriva domani, non vedo l’ora”.

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Il cane in questione, nonostante abbia infranto le mie illusioni di essere fautrice della presa bene del suo padrone, era in effetti qualcosa come l’animale più bello del mondo, e cioè un cucciolo di labrador chocolate con gli occhi verde smeraldo. “Lo chiamo Lennon, Lenny”, ci rivela Flavio; “Ti si impennerà l’Instagram” osserva il nostro fotografo, dimostrando una visione molto utilitaristica del fantastico rapporto uomo-cane che sta per sbocciare; “Sì, me l’ha detto pure Tommy [Paradiso], che da quando ha Ugo [il cane di Tommaso Paradiso] ha un botto di follower in più, ma gliel’ho detto: io non c’ho bisogno di follower, ho bisogno d’amore”.

Rimessa in asse la faccenda romanticismo, nella giornata di sole più improbabile di ottobre, siamo a quel punto saliti in barca per un giro di 55 minuti (“ma si può fumare?” ha miagolato Flavio prima di salire, “no, da nessuna parte” è stata la sentenza che ha calato un silenzio tombale su tutti noi) durante il quale abbiamo parlato del nuovo disco di Gazzelle, di amore, di droga nei videoclip e dell’importanza dei bar.

Mentre leggi l'intervista, ascolta il nuovo singolo di Gazzelle uscito oggi: "Sopra".

Flavio, perché hai voluto navigare sui Navigli?
Perché questa è la mia zona preferita di Milano, ma anche se la frequento da un bel po’, non sono mai salito su una di queste barche. Mi sembrava una roba divertente, poi m’hanno detto che non si può fumare…

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Avremmo dovuto prendere su almeno la svapa. Che cosa ti piace di questa parte di Milano?
Mi piace che sia la zona senza dubbio più romantica, più languida. I Navigli mi ricordano un po’ l’Olanda e pure un po’ Roma, e poi hanno tutte quelle cose che mi piacciono: i bar, la vivacità, la vita notturna.

Tu non sei, però, un romano adottato da Milano, giusto?
Giusto. Anche se mi rendo conto che qui le cose a livello lavorativo girano a un’altra velocità e con un’altra fluidità, per lo stesso motivo non ci vivrei. Perché non voglio vivere costantemente dentro al lavoro. Per me solo Roma è casa.

Hai anche tu un rapporto di amore/odio con la tua città?
Io Roma la amo, e non riesco a vederci cose negative. Forse la ragione vera è che lì ho tutto il mio mondo di affetti, cioè gli amici, la mamma, il cane, sta di fatto che io ci sto bene e finché posso starci, ci sto. Per questo disco nuovo sono stato due mesi di fila a Milano, e sono stato bene, ma per pensarmi in pianta stabile qui dovrei portarmi dietro un bel po’ di persone. Pensandoci oggi, i momenti in cui ho sentito di non stare bene a Roma erano, in realtà, momenti in cui non stavo bene con me stesso, che volevo un “altrove” non tanto legato al luogo, ma al raggiungimento di un obiettivo, e cioè la musica.

Parliamo di musica, allora: il nuovo disco in che direzione va?
Sarà un disco completamente diverso dal primo, e probabilmente del tutto diverso dal terzo, perché amo cambiare. Di sicuro sarà un disco più maturo, dal punto di vista musicale ma anche autorale. Sono cresciuto, sono passati tre anni dal primo album, è successa tanta roba, roba grossa e importante, quindi anche se questo è un lavoro super sincero, che non strizza l’occhio a niente e non cerca di andare in classifica, è anche frutto di una mia maggiore consapevolezza.

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L’aggettivo più adatto?
Sincero, sicuramente. Perché delle nove canzoni che ci stanno, nessuna è lì tanto per, ognuna ci doveva stare.

Che cosa è cambiato di più?
Il sound e il punto di vista. Più adulto.

Per molti, il secondo è il disco più difficile da fare.
Per me invece è stato fichissimo, non vedevo l’ora di mettermici, e anzi non ho avuto proprio nessun tipo di timore o di ansia. Non ho accusato alcuna pressione, e il fatto di venire da un ottimo riscontro è stato solo un valore aggiunto. Ero proprio contento di fare musica, e penso che si senta. Sai, avessi avuto ansia sarebbe un album pieno di hit, no? E invece io la musica la faccio perché la devo fa’.

Le hit fanno passare la paura?
Eh certo. Se sei tutto agitato, se senti che devi dimostrare che ti meriti il successo, lavori per quello e infili un pezzo da primo posto in classifica dietro all’altro, ma le classifiche sono piene di musica de merda.

Le tue sono canzoni piene di immagini precise: come funziona questa cosa, ce le hai nella testa mentre scrivi?
Sì, io quando scrivo vado per immagini, è proprio una cosa automatica che mi viene spontanea da sempre, come se, seduto al piano, descrivessi una foto con le parole e la melodia migliori possibile. Mi viene da dire che è una cosa quasi catartica, che mi permette di andarmene per dieci minuti con la testa, per poi tornare e scrivere e rimanere sorpreso io per primo. E se non succede che rimango sorpreso, di solito quella canzone la butto.

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Però di hit ne hai fatte. Molti tuoi pezzi rimangono inchiodati in testa, qual è, invece, quello di un collega che ti ha tormentato di recente?
Poco fa, prima di salire su questa barca la cui audio guida credo mi tormenterà i sonni a lungo, mi sono trovato a canticchiare l’ultima di Rovazzi perché è passato uno che ce l’aveva a cannone in macchina. “Con questa voce qua, parappapapa…” Che poi lui, ti dirò, a me sta anche simpatico, nel senso che ho capito il personaggio, ne apprezzo il lato comico (e mi sa che quello dovrebbe fare, il comico, che c’ha pure il fisico giusto, fa proprie ridere anche solo guardandolo) e ne apprezzo l’onestà. Poi certa musica de merda che ti passano in radio continuamente è impossibile non trovarsi a canticchiarla, tipo “Amore e Capoeira”. Un po’ ti odi, quando succede, un po’ ti dici che è normale. Poi, tornando alle mie di canzoni, penso che per esempio “Tutta la vita” sia un brano meno catchy di altri, è uno di quelli che ha bisogno di tempo, ma le canzoni che ti impongo di essere ascoltate di più sono le più belle. Se penso alle canzoni migliori della musica italiana non mi vengono certo in mente le hit estive.

C’è un artista che vorresti si innamorasse di “Tutta la vita”?
Vasco Rossi. Penso che gli potrebbe piacere, se mai la dovesse sentire. Non solo per la melodia, ma anche per i temi, no? Molto vicini ai suoi.

Che luogo è per te, il bar, di cui parli spesso?
Non so, è complicato, devo dire che non c’ho mai pensato. Mi ci ritrovo, al bar, perché è uno di quei posti in cui io sto in pace. Non è tanto per l’alcol, è proprio più una questione di convivialità, di scambio, di incontro con gli amici o con una ragazza che sai che magari puoi beccare lì. Situazioni semplici e romantiche, come piacciono a me. Io, infatti, mi rintano sempre nelle cose più normali, come il bar o la partita di calcetto.

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Quando si dice “il successo non mi ha cambiato”.
Ed è cento per cento vero. Io a Roma frequento le stesse persone di sempre, non ho cambiato frequentazioni, esco ancora con l’amico che ha gli stessi problemi di prima, gli stessi casini. Poi, sì, prendo un treno, vengo a Milano e mi ritrovo a fare il cantante. Funziona proprio così, on-off: il girono prima sto a casa a guardare Netflix con un amico, il giorno dopo sto al Forum d’Assago a fare un concerto. E bisogna gestirla bene, questa vita a intermittenza, perché non è facile. E non bisogna drogarsi, secondo me, che la droga non ti aiuta: molto meglio rimanere lucidi.

Che cosa ti dà, invece, la percezione che la tua vita sia stravolta?
Fare cose che prima sognavo, come suonare davanti a 10 mila persone, fare una cosa in TV, avere due soldi da parte, che fino a due anni fa facevo la fame, tipo che non avevo i soldi manco per pagare l’affitto al mio coinquilino o per prendermi le sigarette, e comunque lavoravo 9 ore al giorno. Adesso la rumba è cambiata, lo so bene: vivo da solo, ho la macchina, ma soprattutto ho qualcosa dentro di me che mi fa stare sereno, perché mi sento realizzato. ecco, questa è la differenza maggiore rispetto al passato.

Pensi di aver trovate anche un momento favorevole per l’indie italiano?
Diciamo che è un po’ come andare in barca a vela: il vento serve, ma non basta, devi anche saper guidare la barca. Non sono tanto “capitato” al momento giusto, mi ci sono inserito io. Devi capire quando cogliere l’attimo e poi devi avere fortuna, perché io credo anche molto alla fortuna. Pure Ligabue una volta m’ha detto che nella musica ci vuole anche culo, e se lo dice lui…

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Un tuo collega romano, Wrongonyou, ha detto che la trap italiana ha fatto bene a tutti perché ha riportato la gente ai concerti: condividi?
Sì. Loro e noi, cioè la trap e l’indie, sono le cose che vanno di più da qualche anno a questa parte, e se ci fai caso parliamo entrambi a un pubblico simile, perché da me vengono anche ragazzi e ragazze che vanno pure da Sfera o da Ketama. Penso che, forse, però sia più merito dell’indie, e di gente come Niccolò Contessa o dello stesso Tommaso Paradiso, se le persone sono tornate a vedersi i live. A livello di aggregazione, di eventi, noi dell’indie andiamo meglio, perché il Palalottomatica lo fa Calcutta, lo faccio io e i The Giornalisti, Sfera no. I trapper, invece, mi sa che vendono di più, ma al di là di queste valutazioni noi, intesi come generazione tutta di musicisti, abbiamo smosso per bene la situazione italiana, ed è figo.

Hai citato Ketama, quindi ti faccio una domanda che non era prevista: che cosa pensi del suo ultimo video, "Lucciole"?
Io penso che artisticamente uno può fare un po’ il cazzo che gli pare. Se lui si accolla la responsabilità di farlo, tanto di cappello, certo io non lo giudicherò mai male per questo. Magari io non lo farei, perché io racconto altre storie, ma su di lui è una cosa credibile e che non mi sconvolge per niente. Se uno in un pezzo parla di cocaina e nel video la fa vedere non ci trovo niente di male, è come uno che parla d’amore e mostra due che si baciano. Lo trovo didascalico. Piero, poi, ha fatto un racconto trash, vedendo quel video l’ultima cosa che m’è venuto voglia di fare è stato drogarmi, onestamente. Semmai m’ha creato un filo di amarezza, un po’ di empatia, la voglia di chiedere “vabbè, Piero, tutto a posto?”. Come molte manifestazioni artistiche, credo che dentro ci sia anche una piccola richiesta di aiuto. Chiudo dicendo che se c’è sincerità nelle cose, a me piace.

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Ti piace anche il racconto soldi, lusso, successo?
Si ripete molto, così come nei cantautori si ripete quello dell’amore, delle emozioni, delle sensazioni. I trapper parlano di droga, violenza, sesso, soldi, che sono temi attuali e sono anche fighi, se li si sa trattare con talento. Cioè, a me piace quella roba lì, la trovo cool, ma solo se è autentica. Se mi parli dei soldi che hai fatto, li devi avere fatti, se mi racconti delle tipe con cui sei stato, deve essere successo, se, invece, lo fai perché va di moda, sei un coglione.

E dei recenti messaggi anti haters di molti, compreso Tommaso Paradiso, che pensi?
Io non lo odio, l’odio. La vedo in modo filosofico: se apprezzi l’amore è perché esiste l’odio, se ti piace il bene è perché esiste il male. Se poi entriamo in materia di hating, la cosa mi tocca in minima parte, perché devo dire di non essere granché odiato, forse perché non faccio niente per esserlo. Nel momento in cui tu fai la tua musica in modo sincero, nessuno ti può dire un cazzo. Ok, magari mi puoi dire che a te fa schifo, ma non mi ferisce, se, invece, qualunque mi dovesse insultare, credo gli direi “daje, grande, fatte a fà ’na passeggiata”. Poi mi chiedo: ma tu, hater, andresti da un medico a caso a dirgli “sei una merda”? No, non lo faresti, lo fai con chi è un personaggio pubblico perché pensi di potertelo permettere. E invece secondo me no, cioè: io se sento una canzone di merda, non lo dico pubblicamente che per me è una merda, magari lo dico al bar, ma non mi permetterei mai di farlo sui social. Mai.

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Le critiche, invece, meglio terribili che mediocri, giusto?
Assolutamente. Ribadisco che è meglio un 1 su 5 che un 3 su 5. Se penso ai miei idoli musicali, da Rino Gaetano a Kurt Cobain a Vasco Rossi fino a Liam Gallagher, sono stati tutti molto divisi. Non voglio piacere a tutti, se piaci a tutti c’è qualcosa che non va, perché non sono il Papa. Io voglio scuotere, voglio toccare la gente. Voglio che pensino o che sono stato incredibile, o che sono stato terribile, mai che sono stato “bravo”.

Sono esistiti davvero quelli che ti dicevano di andare a un talent o di trovarti il posto fisso?
Certo, quella di “NMRPM” è una storia vera, con tanto di zio della mia amica che era produttore generale di un talent di cui non farò il nome.

Quest’estate, però, ti sei seduto al tavolo dei giudici di X Factor. Com’è stato?
Ovviamente ero a disagio, come al mio solito. Però è stato anche divertente, anche perché io X Factor lo guardo sempre, mi interessa vedere che succede nella musica, e se esce qualcuno di forte io sono super contento. Se sento una cosa bella, pure se passa attraverso la tele, io sono sempre contento. L’unica cosa è stata che facendo da poco questo mestiere, non ero molto a mio agio a dover dare dei giudizi sulle esibizioni di miei coetanei, penso che ci voglia più esperienza di me per poterlo fare con un senso delle cose.

Dimmi una cosa bellissima e una bruttissima di questo momento della tua vita.
Le cose bruttissime e quelle bellissime sono rimaste le stesse che canto in "Balena". La spesa è sempre una cosa bruttissima, così come tutte le robe burocratiche che non mi va mai di fare. Cantare è una cosa bellissima, anche fare la lotta, e anche vivere la vita come me la vivo io, con spensieratezza e un po’ a cazzo di cane, senza pensarci troppo, rimanendo sempre sorpreso, senza mai far diventare questo della musica un lavoro, una routine.

Il primo singolo ufficiale del disco nuovo parla degli addii che fanno bene: capire quando è giusto separarsi è segno che si è diventati grandi?
Quella è una canzone che puoi scrivere solo col senno di poi, e, anche se mi sembra di essere sempre il solito coglione, mi sa che qualche passo avanti verso l’età adulta l’ho fatto. Ho capito che, in fondo ma proprio in fondo, si sta meglio se si esce da certe situazioni, piuttosto che trascinarle in eterno. Però è una canzone ambigua, che va su e giù come la mia vita, che parla un po’ di addii e un po’ di speranza, un po’ di sesso e un po’ di altro, è molto divisa tra inizio e fine, forse è giusto dire che è uno spaccato di vita. Ma soprattutto, come tutte le altre, è come una seduta dallo psicologo, perché io invece di andare due ore dall’analista mi scrivo le canzoni.

Secondo te parlare di amore è anche un atto politico?
No. L’amore è molto di più. I sentimenti umani sono molto di più. Sono tutto.

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