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Cosa ho visto nei campi rom di Roma

Sono entrata per la prima volta in un campo rom lo scorso autunno, durante le riprese del nostro documentario. Era la Barbuta, il campo più malfamato di Roma e forse d'Italia.

Aggiornamento del 18 febbraio 2016: è stata pubblicata sul Corriere della Sera l'ordinanza del Tribunale civile di Roma che ha riconosciuto il carattere discriminatorio del "villaggio attrezzato" La Barbuta a Roma, in quanto "soluzione abitativa di grandi dimensioni rivolta a un gruppo etnico specifico." È la prima volta che un tribunale europeo condanna un "campo nomadi" come spazio di segregazione e di discriminazione su base etnica.

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Sono entrata per la prima volta in un campo rom lo scorso autunno. Era la Barbuta, il campo più malfamato di Roma e forse d'Italia. Al confine con Ciampino, a pochi chilometri dall'aeroporto, è un "villaggio attrezzato", cioè un campo costruito e finanziato dal Comune. Le sue strade straripano di rifiuti, l'ingresso è stato ridotto in cenere dagli abitanti e l'accoglienza media per gli estranei è fatta di occhiatacce o insulti. Quella prima volta, che serviva a trovare persone da intervistare ed esplorare la zona, sono restata un paio d'ore. Ma oltre a incontrare rifiuti, macerie e gente poco felice di avermi intorno, ho fatto altro che non avevo messo in conto. Tipo aiutare un uomo a riordinare i canali su un decoder preso dalla spazzatura. O chiedere alla moglie di prepararmi un caffè per leggermi i fondi, che suona più o meno come se mi trasferissi a Londra e un inglese mi chiedesse di preparargli una margherita solo perché sono italiana.

Secondo uno studio Ispo, la conoscenza che ne hanno gli italiani è molto lacunosa. In Italia gli zingari (rom, sinti e camminanti) sono circa 130mila. Di loro, la metà ha cittadinanza italiana; i restanti provengono dalla ex Jugoslavia, e in molti casi sono arrivati dalla Croazia di lingua italiana dopo la seconda guerra mondiale e dopo il terremoto che negli anni Sessanta si abbatté sulla Macedonia, dove molti zingari erano sedentarizzati. Dalla fine degli anni Ottanta, soprattutto durante la guerra nella ex Jugoslavia, c'è stato l'ultimo grande flusso migratorio di rom verso l'Italia.

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E nel mio caso, oltre a ignorare che la maggioranza di loro i fondi del caffè non li ha mai letti, ignoravo ad esempio che circa due terzi dei rom in Italia non vivono nei campi, ma in case di mattoni e cemento, e fanno gli stessi lavori che fanno "gli italiani". Per quanto riguarda gli altri, invece, non sapevo innanzitutto che per gli zingari quella dei campi è tutt'altro che una dimensione abitativa naturale.

Se infatti il campo è il luogo tradizionalmente associato al nomadismo, va detto che negli ultimi decenni la realtà è cambiata. Questo anche perché certi lavori itineranti, come le attività da giostrai, sono entrati in crisi e tendenzialmente non sono più praticati da rom o sinti. Tuttavia, i campi come la Barbuta esistono, soprattutto nelle grandi città (a Roma ce ne sono sette e nascono normativamente negli anni Ottanta), e testimoniano l'istituzionalizzazione di una forma abitativa che arriva a precludere l'integrazione. "Basti pensare," spiega Carlo Stasolla, presidente dell'associazione 21 Luglio, "che questi campi si trovano generalmente nelle periferie, lontani dalle città. Varie organizzazioni pagate dal Comune si fanno carico di provvedere alla gestione della vita quotidiana in modo assistenziale e discriminatorio. Per capirci, i bambini vengono portati a scuola con autobus dedicati a soli rom."

Il docente di antropologia Ulderico Daniele racconta che "i ragazzi nei campi vivono un conflitto articolato: non solo quello con le famiglie tipico di ogni adolescente, ma anche quello interno al campo e quello con ciò che c'è fuori dal campo. I valori dell'onore e della vergogna si uniscono al controllo costante dei residenti." Anche per questo, a ogni apertura dei ragazzi a parlare e rilasciare interviste seguivano chiusure improvvise frutto della pressione di famiglie e vicini.

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Alla Barbuta ho respirato aria da ghetto. Forse per il perimetro fatto di reti, forse per le auto dei bosniaci che sfrecciano rumorose tra i container, forse per le case, che non sono vere case ma container. Le storie dentro sono simili a quelle di alcune periferie malfamate: una diciottenne macedone, che sogna di diventare estetista, mi ha raccontato di essere in attesa di giudizio per furto. Si era già separata dal marito (cosa non frequente tra i rom), un ragazzo condannato per rapina, "e ora sono probabilmente incinta. Quando si saprà a casa succederà un bel casino…"

Anche se a livello normativo si chiamano "villaggi della solidarietà", dopo quella prima volta in un campo rom la sensazione era di aver passato il tempo in un luogo alienante. Uno spazio che si autoregola con meccanismi di forza e omertà simili a un qualsiasi luogo di marginalizzazione, e su cui tuttavia pesa una responsabilità politica non indifferente.

Al di là di considerazioni sull'integrazione o delle informazioni emerse con l'inchiesta di Mafia Capitale, infatti, anni di politiche fallimentari hanno lasciato la situazione pressoché invariata. La Barbuta, ad esempio, voluta dall'ex sindaco Gianni Alemanno e costata oltre dieci milioni di euro, è costruita su terreni altamente inquinati e l'invivibilità fu accertata da rilievi noti già ai tempi della progettazione.

Sempre alla Barbuta sono inoltre avvenuti episodi gravi come traffico di armi, minacce a esponenti di associazioni o violenze sugli operatori di Risorse per Roma (società controllata del Comune, voluta da Alemanno, che si occupava di sorvegliare la sicurezza alla Barbuta). Le associazioni vociferano persino di taglieggiamento da parte di alcuni boss del campo, ma su questo il silenzio degli abitanti è pressoché totale. Gli operatori della Croce Rossa, gli unici rimasti stabilmente a lavorare nel campo nonostante i tagli della giunta Marino e il fatto che il loro gabbiotto sia stato bruciato dagli abitanti, parlano di un luogo in cui "è stato sospeso lo stato di diritto." Del resto, pur essendo individuabili i responsabili degli atti vandalici, nessuno procede a sanzionarli.

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In questi campi, dove non si pagano affitti e bollette, in pochissimi lavorano—aspetto che contribuisce ad alimentare le lamentele degli italiani che vivono intorno a queste aree e che, anche al confine tra Roma e Ciampino, si sono organizzati in comitati di protesta contro i frequenti roghi provenienti dal campo. I rom danno infatti alle fiamme la spazzatura ammassata lungo il perimetro del campo. La spazzatura è in parte frutto di un commercio illegale: per smaltire i rifiuti ingombranti, in molti, italiani compresi, chiamano i rom che li passano a raccogliere e poi li abbandonano ai margini del villaggio.

Proprio attorno alla Barbuta, vicino alla spazzatura, c'è una fascia periferica rispetto al villaggio attrezzato. Si tratta della zona in cui sono ammassati i camper dei sinti, zingari italiani che fino agli anni Novanta vivevano a Cinecittà. È un'area decadente quasi irreale, dove sembra che la modernità si sia incagliata tra i resti delle giostre che una volta rappresentavano il lavoro di queste famiglie. Il trasferimento fu voluto dalla giunta dell'ex sindaco Francesco Rutelli con la promessa che sarebbero rimasti poco nei nuovi terreni. Sono passati vent'anni e non c'è alcun progetto alternativo a quella sistemazione. Intanto Gildo, punto di riferimento della comunità, è diventato pastore protestante e, nascondendo le cicatrici da colpi di pistola, sembra rassegnato a quel confinamento: "Viviamo alla giornata e per quanto vorremmo essere aiutati dal Comune ad avere una casa, sappiamo bene che noi non saremo mai aiutati. "

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La sensazione che ho avuto parlando con gli zingari incontrati alla Barbuta, ma anche in altri campi, è che il confine tra vittimismo e vittime oggettive sia davvero labile. Del resto, spiega Ulderico Daniele, "il sistema dei campi alimenta una forma di limbo: da una parte abbassa le condizioni di vita, dall'altra dà vantaggi come l'avere un tetto o non pagare le bollette."

Quando chiedo "Ma vi pare giusto non dover pagare niente?", le persone con cui ho parlato rispondono con mezze frasi che cadono nel silenzio. In generale resta difficile stabilire anche dove finisca la loro colpa nel non reagire e trovare un'alternativa, e dove inizi quella del contesto, degli italiani, delle istituzioni. Si approfittano loro di una situazione di comodo o fa comodo alla macchina del consenso e del denaro segregarli in campi etnici in periferia? Se alcuni sedicenti capi del campo insistono per proteggere l'esistenza dei villaggi, la maggioranza di chi ci abita invoca "case".

Ma alla domanda: "Perché non te ne vai? ", il rischio di tornare a vivere negli accampamenti abusivi lungo il Tevere o nei malsani centri di accoglienza come quello di Via Visso prevale come un macigno.

In pochissimi riescono a uscire dal campo che è percepito, mi dice una ragazza che ci vive da quasi vent'anni, "come una specie di prigione: certo, puoi uscire durante il giorno, ma il campo poi ti riporta sempre da lui." Gli osservatori parlano di meccanismo di assuefazione e raccontano di casi di persone che si sono emancipate da quella dimensione con grande fatica, soprattutto se si considera che la realtà familiare degli zingari è spesso ingombrante e che la dispersione scolastica è altissima. "Serve coraggio," aggiunge Stasolla, "a staccarsi dai campi. Ma ci sono esempi, come una giovane che di recente, dopo un breve percorso di studio, ha trovato un lavoro e una casa. Chiaro che la crisi, i redditi, il costo della vita fanno talvolta vacillare questa scelta anche tra le persone più convinte a voler abbandonare il campo." D'altronde, quanti di noi sarebbero davvero felici di sapere che il nuovo vicino di casa è un rom che viene dalla Barbuta? E quel rom quanto è disposto a mettere in gioco per diventare il mio vicino in grado di pagarsi l'affitto?

Stasolla di certo è convinto che i campi vadano chiusi: "Alimentano solo emarginazione e incomprensioni. Ogni famiglia va trattata come nucleo a sé stante, come avviene per chiunque altro. Non si possono considerare i rom una questione etnica. Se si investissero tutti i soldi destinati ai rom [circa venti milioni di euro solo a Roma ogni anno] per aiutarli a trovare casa e portarli a pagare l'affitto come avviene nel resto del mondo, resterebbero soldi anche per l'emergenza abitativa che riguarda tutti."

Proprio Mafia Capitale ha svelato i dettagli di un sistema di speculazione che getta ombre sulle ragioni di chi, come Alemanno, ha sempre difeso l'opportunità di costruire campi non esitando a ribadirne l'utilità anche nella nostra intervista. Il sindaco Ignazio Marino (come il suo assessore alle politiche sociali, Rita Cutini), che all'epoca si rifiutava di concederci interviste sull'argomento, alla luce dell'inchiesta ha rilasciato dichiarazioni prendendo posizione laddove settimane prima temporeggiava. Ha così annunciato di voler chiudere i campi, ma oggi per la Barbuta sono previsti solo nuovi bandi (in questo caso per bonificare almeno temporaneamente le strade), mentre nel campo la vita continuerà a scorrere come sospesa dal resto del mondo.

Segui Valentina su Twitter: @Vale_IlBureau