Kuba Dabrowski e l'importanza di fotografare l'ordinario

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Kuba Dabrowski e l'importanza di fotografare l'ordinario

Abbiamo incontrato il fotografo polacco Kuba Dabrowski, che ci ha spiegato come le foto di eventi storici abbiano lo stesso peso di quelle scattate nel reparto carni del supermercato.

Inizialmente, per la sua mostra alla Galleria Nazionale di Varsavia Kuba Dabrowski aveva selezionato 2.000 foto. Poco dopo è dovuto scendere a 160, perché inserire migliaia di foto sarebbe stato da folli.

Rimane comunque un bel numero, ma non aspettatevi quei ritratti di artisti e politici che l'hanno reso famoso: la selezione si basa su immagini della sua vita di tutti i giorni, scatti di amici, famigliari e delle cose in cui si imbatte andando in giro per Varsavia.

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L'ho chiamato per parlare della sua carriera, della mostra e del perché le immagini dei prodotti del reparto carni Tesco risultino interessanti tanto quanto le foto che documentano eventi storici di importanza vitale.

VICE: Quanti anni avevi quando hai scattato la prima foto?
Kuba Dabrowski: Sei, direi. I miei genitori sono ingegneri specializzati in elettricità e tecnologia, sono stati loro a farmi avere la mia prima Smena. Non me la diedero perché potessi sviluppare il mio lato creativo o elaborare una qualche visione del mondo, ma perché imparassi il funzionamento di lenti, aperture del diaframma e tempi di esposizione. Volevano che prendessi confidenza con la tecnologia. Per me all'epoca la fotografia non significava granché.

Quindi quand'è che hai iniziato a fotografare in maniera compulsiva?
Mio nonno Józek andava al mercato ogni singolo giorno, e ci trovava di tutto. Una volta mi portò a casa delle pellicole cinematografiche esaurite. Ormai la Smena era andata, all'epoca usavo una macchinetta cinese con l'autofocus. Fu allora che per la prima volta smisi di preoccuparmi di rimanere senza pellicola. E iniziai a fotografare qualsiasi cosa: la mia collezione di poster, i miei amici che facevano a botte nel cortile della scuola, la vista dalla mia camera.

Chi erano i tuoi fotografi preferiti allora?
Quando facevo il liceo, dal 1994 al 1997 più o meno, in Polonia non c'erano librerie specializzate in cui trovare libri di fotografia. Non c'era nemmeno la Taschen. Se uno non aveva fotografi in famiglia o accesso a circoli artistici era difficile stare al passo con quello che succedeva nel mondo della fotografia.

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Nel 1997 il mio insegnante di inglese, che era inglese, mi mostrò una copia di The Face che si era portato da casa dopo le vacanze di Natale. C'era un articolo su Francis Bacon e un sacco di foto di moda. Era interessante, ma non era roba per me. A 18 anni mi sono unito a un gruppo di fotografi di Białystok. Era guidato da Grzegorz Dąbrowski, colui che definisco il mio "padre fotografico." Mi fece scoprire la fotografia documentaristica classica, come quella della Magnum. E mi insegnò a guardare il mondo e documentarlo attraverso le foto.

Qual era il tuo sogno?
Mi sarebbe piaciuto tantissimo lavorare in un giornale. A volte creavo anche delle paginate con le foto che mi passava il mio vicino di casa, Heniek. Lavorava in una stamperia e di tanto in tanto mi portava stampe di foto di agenzia. Le incollavo su un foglio di carta e creavo il mio giornale. Era divertente. Il mondo della carta stampata stuzzicava tutta la mia immaginazione.

E alla fine il sogno è diventato realtà, dato che sei finito a lavorare a un settimanale, Przekrój.
Già. In effetti, un sacco dei miei sogni sono diventati realtà.

Hai lavorato anche come corrispondente in Afghanistan, che non sembra esattamente il tipo di professione più immediato nel tuo caso. 
Sì, mi occupo di fotografia di moda e commerciale, ma spazio volentieri, perciò quando si è presentata l'opportunità di andare in Afghanistan l'ho colta. Dal punto di vista del fotografo, il lavoro in zone di guerra ha qualcosa di leggendario—è roba da uomini. Ti fa pensare a Indiana Jones, Ernest Hemingway, Robert Capa e via dicendo. Devi vaccinarti, devi indossare un giubbotto antiproiettile, giri in elicottero e segui l'addestramento di primo soccorso e antimine. Stimola l'immaginazione. Era un campo che mi attraeva, soprattutto perché nelle mie foto c'è sempre stata una componente di genere—com'è essere uomini, cosa significa.

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Cos'hai imparato nel tuo periodo lì?
Il mio collega Rafał Kostrzyński era già stato in Afghanistan. Uno dei suoi scatti è la scena di un gruppo di persone che ballano nell'aeroporto di Kabul. Rafał mi ha spiegato che gli addetti alla dogana avevano riconosciuto uno dei giudici dell'edizione afghana di Pop Idol, ed era subito iniziata una festa. Ero sorpreso, innanzitutto non credevo esistesse un'edizione afghana di Pop Idol. Fino ad allora tutto quello che sapevo sull'Afghanistan mi arrivava da foto di persone con gambe amputate, bambini feriti e campi di papaveri da oppio. Eppure c'era tutta un'altra realtà, quella normale, di cui nessuno scriveva o aveva materiale fotografico. È stato allora che ho deciso di partire.

Fare il fotografo di moda è solo un modo per guadagnare qualcosa in più, quindi?
No. Per me tutto quello che faccio si basa sempre e comunque sulla documentazione della realtà.

Persino le foto di rossetti e i ritratti di grandi dirigenti?
Fare ritratti ai dirigenti è solo lavoro, e anche ben pagato. Per quanto riguarda le foto di rossetti e scatti di moda, quelle sono documentazioni. I fotografi sono come degli storici che lavorano sul presente. Da un lato pensano al modo in cui le persone guarderanno alle loro foto qui e ora, dall’altro sono consapevoli che queste foto vengono pubblicate e tra vent'anni avranno un significato diverso. Anche le foto che scatto oggi saranno vecchie, un giorno.

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Come fotografo, posso avvicinarmi a quelle persone che definiscono la nostra era: artisti, politici e via dicendo. Anche la moda definisce i nostri tempi. Immagino che tra molti anni tutte queste foto—della mia ragazza e di mio figlio, della mia macchina, dei miei genitori, del cruciverba che ho fatto nella mia casa delle vacanze a Białystok—saranno un documento storico per descrivere il mondo di oggi, insieme alle foto di Donald Tusk, Wojtek Sokół, alla Fashion Week di Parigi e ai soldati polacchi in Afghanistan.

Pensi che le foto che fai aumentino il valore delle cose che vediamo ogni giorno?
Non penso. Conoscerai quel sentimento che provi quando cammini per strada, ti metti le cuffie, schiacci play e improvvisamente il mondo cambia; incominci a sentirti come se fossi in un video musicale. Cammini a ritmo della musica e adegui il tuo passo. Hai la strana sensazione di far parte di questo mondo e allo stesso tempo di esserne estraneo. Ho sempre voluto che le mie foto riflettessero questo stato d’animo, quello in cui la vita sembra trasformarsi in un film.

Qual è secondo te la differenza tra le foto che esponi alle mostre e i milioni di foto che vengono condivise su Facebook e Instagram?
C’è un istinto di base che porta la gente ad immortalare la realtà quando diventa qualcosa di speciale. Nella maggior parte dei casi le persone non pubblicano su Instagram la foto del caffè che hanno bevuto a colazione a casa o dal benzinaio, ma il caffè che hanno bevuto in qualche locale figo.

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Giusto per tirarsela?
Direi di sì. Probabilmente le mie foto sono più tristi. Non mi fraintendere, però: ho una vita molto felice e me la godo. Ho una ragazza fantastica, un figlio bellissimo, un bell’appartamento in un bel quartiere e nel lavoro sta andando tutto alla perfezione.

Perché ti interessano così tanto le foto che ritraggono situazioni ordinarie?
Non sono né le più interessanti né le più importanti. Le foto che documentano eventi storici e le foto che pubblicizzano il prodotto più conveniente nel reparto carni di Tesco sono importanti e interessanti, ma in due modi diversi. La mia fotografia non riguarda solo le foto in sé, ma riguarda un certo tipo di sensazione e un certo tipo di esperienza. Spesso mi commuovo in modo simile per una canzone, a volte per un film, ma mai per le foto, anche se le guardo sempre.

Quindi perché hai chiamato la tua mostra “A Drama Feature Film of Polish Production”?
Perché quando fai foto da una vita e ti guardi indietro, ti accorgi che tutte le persone che hai conosciuto e a cui sei stato vicino diventano personaggi di un film. Questo film è fatto di varie scene che ho scelto dalla mia vita.

Guarda altre foto di Kuba sul suo sito.

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