'My name is Adil' non è solo una storia di immigrazione in Italia
Amid. Tutte le foto per gentile concessione di Imagine Factory.

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'My name is Adil' non è solo una storia di immigrazione in Italia

Abbiamo parlato con Adil Azzab della sua storia, di crisi identitaria e di quanto vale la pena rischiare per darsi una possibilità.

Ho sempre avuto il problema di riuscire a odiare esclusivamente in modo molto astratto: riesco a essere contro categorie e ideali, ma quando poi mi trovo a conoscere le persone che ci stanno dietro rischio di giustificare un po' chiunque. Tassisti, fan dei Coldplay, testimoni di Geova. Applicando per semplificazione il mio modo di ragionare al mondo, sono convinta che razzismo e xenofobia uscirebbero devastati dall'incontro con le storie individuali dei soggetti contro cui si scagliano.

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In questo senso, la storia di Adil Azzab sarebbe un antidoto particolarmente potente. Adil è un ex bambino pastore in un villaggio del Marocco, che fin da piccolissimo si sente stretto nella realtà che lo circonda e sogna di raggiungere il padre in Italia. Lo fa a 13 anni, e se inizialmente si trova a convivere con la nostalgia e lo shock di un ragazzino trapiantato in una realtà a lui del tutto estranea, con il tempo le cose migliorano e Adil trova la sua strada: oggi è elettricista, frequenta l'università e lavora come educatore in un centro di aggregazione giovanile e in un centro per minori non accompagnati.

In più, è regista. Dalla sua storia ha tratto infatti il suo primo film, My name is Adil, un lungometraggio a budget zero nato tramite Imagine Factory—un'associazione che organizza corsi di videomaking contro l'emarginazione sociale. Il film, realizzato a tre con i registi Andrea Pellizzer e Magda Rezene e a cui partecipa la famiglia di Adil, ha girato il mondo, vincendo diversi premi. Di recente, oltre che nuovamente a Milano, è arrivato in Marocco, al Tangeri Film Festival.  Ho parlato con Adil di cosa vuol dire crescere in un villaggio del Marocco, di crisi di identità e di quanto vale la pena rischiare per darsi una possibilità.

VICE: Com'è l'infanzia di un bambino pastore in un villaggio del Marocco? 
Adil Azzab: Guardando indietro vedo un bambino che si sentiva intrappolato, che doveva fare cose che non voleva fare, anzi che odiava. La salvezza per me all'epoca era rappresentata dalla scuola: se frequentavo la scuola potevo lavorare meno, ed era quello ciò che mi interessava. I problemi sono cominciati una volta finite le elementari, quando volevo proseguire gli studi ma non è più stato possibile. A quel punto non avevo alternative al lavoro.

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Nel film dici di essere stato un ragazzino che non riusciva a stare fermo un secondo. Col senno di poi, è stato proprio questo tuo aspetto caratteriale a permetterti di cambiare totalmente vita.
Sì, crescendo obbedivo sempre di meno a mio zio [di cui curavo il gregge], il nostro rapporto diventava sempre più complicato. È stata proprio quella la salvezza: mia mamma si è spaventata e ha detto a un cugino—dato che nel mio villaggio non avevamo telefoni—di riportare tutto a mio padre quando sarebbe andato in Italia, di parlare con lui dei problemi che avevo con mio zio. Da lì si è mosso tutto: mio padre ha dato indicazione che lo raggiungessi in Italia, e poco tempo dopo sono partito con un suo amico.

C'è una scena in cui ancora bambino parli con un tuo amico dell'Italia: sembra un posto idilliaco, una terra promessa in cui tutto è possibile. Come te la immaginavi e come è stato poi l'impatto con questa?
Raggiungere mio papà in Italia è stato il mio unico sogno fin da quando ero piccolissimo, e la mia fantasia era abbastanza assurda. Nel mio paesino in Marocco non c'era la tv, non c'era nessun mezzo per capire come funzionava il mondo, come era fatto. Nella mia immaginazione avevo costruito un'Italia fatta da un insieme di case azzurre sospese in cielo, coperte tutte da un tetto enorme—perché da noi quando pioveva entrava l'acqua.

Quando ho fatto il viaggio con l'amico di mio padre che mi ha portato in Italia, ricordo che per strada ero convinto che lo scenario intorno a me prima o poi sarebbe cambiato. Invece mi sono trovato nelle campagne intorno a Udine, di nuovo in mezzo alle mucche: in pratica ancora in mezzo a tutto ciò che avevo odiato e da cui fuggivo.

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Frame del film. Adil da bambino con una pecora del suo gregge nella campagne del villaggio di Beni Amir Ouest, Marocco.

Ma dopo le mucche è arrivata Milano. Avevi 13 anni, giusto?
Sì, ho raggiunto subito mio padre a Milano e l'impatto con la città è stato tostissimo. Mi mancava casa, mi mancava mia madre. Ricordo che non capivo in che direzione fosse il Marocco, e quando lo chiedevo a mio padre lui mi indicava sempre una direzione diversa—quindi ho realizzato che non lo sapeva neanche lui e mi sono sentito lontanissimo.  Poi c'era il rumore continuo, tantissime persone: mi sono sentito ancora una volta in trappola. A scuola inizialmente è stato difficile, facevo fatica a fare amicizia, mi prendevano in giro per come parlavo. C'è voluto tempo perché le cose si mettessero a posto. In generale la scuola e gli educatori, che mi hanno mandato nel centro di aggregazione giovanile in cui oggi lavoro, per me sono stati fondamentali.

Uno dei temi chiave del film è quello dell'identità, o meglio alla tua difficoltà nel trovarne una.
Credo che il film nasca proprio da questo: attraversavo una fase molto difficile in cui non capivo se ero italiano o marocchino, mi sentivo sospeso, sentivo di non appartenere a niente. È questo che mi ha spinto, nel 2011, a fare il viaggio in Marocco, e piano piano l'idea del film ha preso forza. Come è stato tornare in Marocco dopo 13 anni di assenza, da ragazzo che ormai aveva la sua vita in Italia?
Mi sono sentito ancora una volta straniero. Ero cambiato io ed erano cambiate anche le persone intorno a me, ma soprattutto queste hanno percepito il fatto che io ero cambiato. È stato tosto: da tanto tempo che cerchi casa tua e quando torni a casa non la senti più tale.

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E come questa crisi di identità si è trasformata in un film?
Ho fatto il viaggio in Marocco, e contemporaneamente ho cominciato ad aprirmi, a raccontarmi alle persone. Mi accorgevo che rimanevano stupite dalla mia storia. Il momento di svolta, in cui ho capito che valeva la pena, è stato l'incontro con un gruppo di ragazzi. Avevamo organizzato una serata in cui raccontavo la mia storia. I ragazzi solitamente hanno un tempo di concentrazione molto breve, invece quella volta sono stati due ore ad ascoltarmi, commossi. È stato un segnale molto forte, mi ha fatto capire che questo film poteva avere un valore.

Hamid, fratello di Adil, e il cast in Marocco per le riprese del film.

Oltre a essere una storia è la tua vita. Hai messo in scena casa tua, la tua famiglia. È stato difficile? Come hanno reagito?  
Avevo timore di mio padre e di mio zio, che nel film non ne esce bene. Per questo mi sono mantenuto sul vago, ho evitato di entrare nei dettagli. Mio padre non è mai stato d'accordo, non capiva che senso potesse avere raccontare la mia storia. Poi ci tenevo a girare in Marocco, nella casa in cui ero cresciuto e lui ha fatto un po' fatica ad accettarlo. Ho conosciuto mio padre a 13 anni, e tra noi c'è sempre stato un rapporto molto adulto, privo di tenerezze e aperture. Quando ha visto il film—tra l'altro al cinema a Milano con mia madre, occasione che rappresentava per loro la prima volta in assoluto che andavano al cinema—si è trovato a conoscere tutt'insieme una parte di suo figlio che ignorava completamente.

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La cosa lo ha scosso parecchio: non ha parlato con nessuno per tre giorni—e mio padre di solito non sta zitto un secondo. Ma poi è cambiato nel rapporto con me, e questa è stata una soddisfazione enorme.

Tua madre invece? Anche per lei non deve essere stato facile.
Lei l'ha sofferto perché lo ha vissuto in prima persona, non credeva che avessi certi ricordi. Ma voglio aggiungere che alla storia della mia famiglia per ora c'è un lieto fine: nel 2006 siamo riusciti a fare il ricongiungimento familiare, e ora mia madre e i miei fratelli sono in Italia.

Allargando lo sguardo, in questi anni in Italia come credi sia cambiata la percezione nei confronti degli immigrati?
Quello che posso dire è che all'epoca ero uno dei pochissimi ragazzi stranieri in tutta la scuola. Ora le cose sono cambiate, e in Italia c'è la sensazione di una vera e propria invasione. Si tratta di ignoranza, si giudica quando non si conosce. Il film vuole essere anche questo, riportare delle storie d'immigrazione, cosa c'è stato dietro, il fatto che ognuno porta la sua storia, che sia accolto o meno.

Oggi lavori come educatore in un comunità per minori non accompagnati, e di storie di migrazione sicuramente ne sentirai molte. Credi ne valga la pena, rischiare la vita per venire in Italia?
Si tratta di un tema molto difficile. Anche io ho fatto un viaggio, ma non nelle condizioni in cui lo fanno molti, e sinceramente non so se lo avrei fatto così.  Ma quello che ho percepito da loro è che non si ha molta scelta: puoi stare fermo in un posto in cui sai di non avere nessuna possibilità, oppure rischiare tutto per provare ad averne una. Io questo gioco lo capisco, so cosa vuol dire sentire di non avere nessuna possibilità. Per ultimo, sei riuscito a far pace con la tua identità?
Penso di sì, adesso sto meglio. Ho accettato il fatto che c'è una parte del Marocco che porto dentro di me, il periodo che ho passato lì sarà parte di me per sempre, e poi c'è un'altra parte legata all'Italia. Penso che ovunque andrò mi porterò dietro entrambe le identità: non necessariamente bisogna tornare nel luogo di origine, ma i ricordi li devi portare per forza con te.

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