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Una colata piroclastica che fuoriesce da un versante del monte Sant'Elena, nell'agosto del 1980. Immagine: USGS
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40 anni dopo l'eruzione che ha trasformato il monte Sant'Elena nella Luna

Il 27 marzo 1980, sul monte Sant'Elena si è aperto il primo cratere di quella che poi, a maggio di quell'anno, si è trasformata nell'eruzione più devastante della storia degli Stati Uniti. Ora, un roditore e un legume hanno riportato la vita.

Nella primavera del 1980, esattamente 40 anni fa, la sommità di una montagna negli Stati Uniti è scomparsa per sempre, lasciando al suo posto un cratere largo più di un chilometro e mezzo. L’evento è considerato l’eruzione vulcanica dalle conseguenze più tragiche — sia in termini di vite perse che di danni economici — nella storia della nazione. Eppure, oggi, questo panorama di annientamento assoluto ha ripreso a vivere in modo inaspettato e sorprendente.

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Il Monte Sant’Elena (o Mount St. Helens, in inglese) è uno stratovulcano, come il Vesuvio, l’Etna e il Fuji, che si trova nello Stato di Washington. Era rimasto dormiente per circa 120 anni prima del 1980, mostrandosi ai più come un’oasi naturale che attraeva visitatori da tutti gli Stati Uniti. Il lago Spirit, alle sue pendici, era un paradiso per i pescatori e le sue rive ospitavano campeggi e baite. Nelle rigogliose foreste di conifere proliferava una ricchissima fauna boschiva, oltre che una fiorente industria del legname.

L’esplosione del Sant’Elena non è stata, in realtà, del tutto improvvisa. Almeno non la parte più violenta del suo risveglio. Il 27 marzo 1980, infatti, ha avuto luogo solo una prima eruzione, che ha spalancato un cratere largo 75 metri sulla cima. Poi, per diverse settimane, si sono susseguite oltre mille eruzioni consecutive, pinnacoli di fumo e fiamme bluastre, e incessanti sciami sismici. Gli occhi dei geologi di tutto il mondo erano puntati sul Sant’Elena, ma alcuni giorni di quiete hanno convinto le autorità a far rientrare le famiglie — che erano state fatte allontanare in tutta fretta dalla zona a rischio — perché potessero recuperare i propri effetti personali. Anche alcuni taglialegna erano tornati nei boschi circostanti il vulcano, convinti di poter riprendere le attività.

Infine, è arrivata la mattina del 18 maggio.

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Vista aera da sudovest del monte Sant'Elena il 18 maggio 1980. Immagine: Robert Krimmel/USGS

Alle 8:32 di domenica, un terremoto di magnitudo 5.1 sulla scala Richter ha scosso il Sant’Elena. L’epicentro era localizzato sotto il lato nord della montagna e una manciata di secondi più tardi l’intero versante si è staccato, scivolando verso valle. Per l’abbassamento di pressione dovuto al contatto con l’aria, il magma è esploso in una nuvola di lava e rocce incandescenti. Lo scoppio non è avvenuto in verticale, come si potrebbe immaginare in un’eruzione vulcanica “tradizionale”, ma orizzontalmente. L’esplosione ha proiettato per decine di chilometri verso nord una coltre letale di cenere, gas e frammenti di roccia, che si è unita alla frana, amplificandone a dismisura l’impatto distruttivo. I detriti sono sprofondati nelle acque del lago Spirit, causando un’onda che si è infranta sui pendii della montagne circostanti a un’altezza di 260 metri, per poi ricadere all’interno del lago.

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57 persone, tra cui geologi e documentaristi, hanno perso la vita nell’eruzione.

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Quel che rimane del lago Spirit in una fotografia scattata 10 giorni dopo l’eruzione. Immagine: Dan Dzurision, USGS Cascades Volcano Observatory, via Wikimedia Commons

L’eruzione ha distrutto completamente un’area di circa 570 chilometri quadrati, ovvero quasi 4 volte la superficie del comune di Milano. La potenza dell’esplosione è stata, secondo le stime, 500 volte superiore allo scoppio delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, mentre la colata piroclastica che ha percorso il fianco nord del Sant’Elena viaggiava a una velocità di poco inferiore a quella del suono—oltre 1000 chilometri orari—e ha ricoperto il paesaggio circostante con ceneri e frammenti di pomice a una temperatura compresa tra 700 e 800 gradi centigradi.

Quando il fianco nord è crollato, sono franati verso valle circa 2,5 chilometri cubi di roccia, in quella che è riconosciuta come la più grande frana mai registrata dall’uomo, e si è creato uno strato di detriti spesso da 2 a 12 metri. La colonna di fumo e cenere che si è innalzata dal cratere a seguito dell’esplosione ha raggiunto un’altezza di 24 chilometri; poi, sospinta dai venti, è ricaduta in parte su 11 Stati americani, in parte è andata in atmosfera e ha compiuto il giro del globo in meno di 2 settimane. La cima del Sant’Elena prima del 18 maggio era alta 2950 metri, dopo l’eruzione 2549.

Nonostante l’elenco di abitazioni, strade e altre infrastrutture distrutte sia terribilmente lungo, l’indicatore più impressionante dell’impatto dell’eruzione del Sant’Elena sul territorio circostante sono forse i boschi di conifere che crescevano attorno al vulcano. Milioni di alberi sono stati rasi al suolo in un attimo e gli studiosi ne hanno catalogato la devastazione in tre fasce concentriche.

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La prima fascia, quella più vicina al cratere, è la cosiddetta “tree-removal zone”. Si chiama così perché in quest’area degli alberi non è rimasta traccia. Spariti. Sradicati e trascinati a valle dalla frana o frantumati dall’impatto dell’esplosione. Questa zona è chiamata anche la zona della distruzione totale. Qualsiasi forma di vita è stata polverizzata in poche frazioni di secondo.

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Un raro ceppo di abete rimasto ancorato al terreno nella tree-removal zone. Immagine: S.W. Kieffer, USGS

La seconda fascia è denominata “blowdown zone”, ovvero la zona di abbattimento. In quest’area di circa 370 chilometri quadrati, gli alberi sono stati sradicati di netto e i tronchi ammassati sul terreno sono rimasti a traccia della direzione dell’esplosione. Uno scenario che ricorda il disastro causato dalla tempesta Vaia nel nordest italiano nell’ottobre 2018.

Con il progredire della distanza, l’esplosione non aveva più forza sufficiente per abbattere gli alberi, ma era comunque abbastanza calda da bruciarli all’istante. È la cosiddetta “scorch zone”, in cui i cadaveri arsi degli alberi sono rimasti a formare una sorta di anello che delimita l’area di distruzione del vulcano.

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Un'immagine scattata nel giugno del 1980 dei boschi appiattiti dall'impatto dell'esplosione. Immagine: USGS/J. DeVine

Per dirla con John Bishop, professore di biologia della Washington State University, in un documentario realizzato 30 anni dopo l’eruzione, “in qualunque direzione guardassi, non riuscivo a vedere nulla di vivo. Niente di biologico era sopravvissuto”. O per dirla con Jimmy Carter, l’allora Presidente degli Stati Uniti intervenuto sul luogo del disastro, “a confronto la luna è un campo da golf”. In pochi secondi il paesaggio della regione era cambiato per sempre. Non sarebbe mai più stato quello che era prima dell’eruzione, ma ciò non vuol dire non potesse tornare brulicante di vita.

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I vulcani hanno una straordinaria capacità di funzionare da “unificatori ecologici” e il Sant’Elena non fa eccezione. Sterilizzando il terreno nel raggio di chilometri, il vulcano ha creato spazi inediti perché batteri e microrganismi generassero nuova vita. È come se la natura avesse potuto ripartire da zero, colonizzando un territorio totalmente vergine e rendendolo abitabile da altre specie vegetali e animali, attraverso un processo che i biologi definiscono “successione ecologica primaria.” Tuttavia delle specifiche modalità con cui una simile rigenerazione avrebbe potuto avvenire, la comunità scientifica sapeva prevedere ben poco.

Jerry Franklin, uno dei ricercatori recatisi sul posto dopo l’eruzione, racconta di essere rimasto sbalordito di come i campioni di suolo raccolti rivelassero un terreno solo apparentemente sterile, ma in realtà ricco di semi, spore e radici, rimasti protetti dalla neve e dai sedimenti. In un paper presentato qualche anno dopo l’eruzione, Franklin, oggi professore di Analisi degli ecosistemi alla Washington University, ha coniato il termine biological legacies (lasciti biologici): delle vere e proprie scialuppe di salvataggio per organismi in grado di ripopolare progressivamente un territorio colpito da calamità.

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Pianta di camenèrio, o Fiore di Sant'Anna, fotografata nella zona dell'eruzione quattro anni dopo l'evento. Immagine: USGS/Lyn Topinka

A un solo anno di distanza dall’eruzione, l’intuizione di Franklin si mostrava sotto le sembianze di una pianta di lupino. Questa specie, poi divenuta il simbolo della rinascita del Sant’Elena, era riuscita a fiorire oltre il manto di cenere vulcanica, proliferando grazie a una peculiare caratteristica. Le sue radici infatti sono in grado di generare l’azoto necessario al sostentamento della pianta anche in un terreno completamente privo di nutrienti, arricchendo così il sottosuolo in favore di altre specie altrimenti incapaci di riprodursi. Proprio grazie allo studio di questo genere di interazione tra organismi avvenuto sul Sant’Elena, la ricerca sulle biological legacies è diventata uno strumento cruciale per comprendere le dinamiche di risanamento operate dalla natura in ambienti danneggiati.

Tra gli artefici della rinascita però non troviamo solo specie vegetali, ma anche un particolare mammifero nordamericano: il gopher dalle tasche. Questo roditore era riuscito a sopravvivere al cataclisma del 18 maggio grazie ai complessi sistemi di gallerie sotterranee in cui vive. Dopo l’eruzione, rimescolando continuamente il terreno con i propri spostamenti, i gopher hanno portato in superficie semi, spore e nutrienti presenti nel sottosuolo sepolto dalla coltre di detriti vulcanici, accelerando così il processo di rigenerazione dell’ecosistema. La storia del loro contributo alla rinascita del Sant’Elena è entrata a tal punto nell’immaginario collettivo, che nel 2012 ha preso la forma di un libro per bambini dal titolo Gophers to the rescue! (Gopher pronti al salvataggio!).

Tutt’oggi il monte Sant’Elena rimane un grande “laboratorio a cielo aperto,” che offre a biologi e ricercatori un’occasione unica per meglio comprendere le dinamiche con cui la vita è in grado di reclamare i territori danneggiati. Persino quelli colpiti da eventi distruttivi di proporzioni inaudite come quello del 18 maggio 1980. E se è vero che l’eruzione del Sant’Elena non ha avuto ripercussioni su scala globale come quelle del Tambora o del Samalas, essa racconta la medesima storia universale. A 40 anni di distanza, il suo paesaggio è testimone vivente dell’inesauribile capacità rigenerativa della natura.