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Carl Brave e Frah Quintale, fotografia via Red Bull
Musica

Carl Brave vs Frah Quintale è il nostro Mayweather vs Pacquiao

Solo che al posto di due uomini muscolosi che si spaccano la faccia ci sono due bei patatoni romantici—sono andata a Napoli a vederli scontrarsi.
Carlotta Sisti
Milan, IT

Circa 48 ore dopo, posso affermare con certezza che il primo grave errore che ho commesso verso il Red Bull SoundClash è credere che sia una sfida tanto per dire. "Vuoi andare a vedere Frah Quintale e Carl Brave scontrarsi a Napoli?", mi avevano detto. A me era parso un evento figo, sì, ma non mi aspettavo una battaglia senza pietà. Con quei patatoni di Carl e Frah si fa per giocare, pensavo, mentre un Italo in clamoroso ritardo mi avvicinava alla città con il più alto tasso di tensione calcistica del momento.

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A farmi intuire che ciò che mi ero immaginata nulla aveva a che fare con la realtà, sono stati la sfilza di chiamate e messaggi da parte dello staff Red Bull e dei vari uffici stampa, impanicati per quei 40 minuti in più non previsti dalla tabella di marcia. “Appena arrivi", ed è stato il testo comune inviatomi da 3 persone diverse, "fiondati su un taxi e digli di volare”. Sono una persona che detesta dal profondo delle viscere di essere in ritardo, quindi così mi avevano detto di fare e così ho fatto: ho detto a un tassista a Napoli di volare.

"Con quei patatoni di Carl e Frah si fa per giocare, pensavo, mentre un Italo in clamoroso ritardo mi avvicinava alla città con il più alto tasso di tensione calcistica del momento."

Ho temuto per la mia vita? Certamente. Ho pensato ai miei cari? Insomma: in realtà ero concentrata su me stessa, e penso fosse quella cosa chiamata istinto di sopravvivenza. Il mio fotografo Kevin Spicy è stato di qualche aiuto? No. Ho imparato qualcosa da questa esperienza? Sì, “che quando a Napoli giocava Maradona a fare il posteggiatore abusivo si prendeva come oggi in due settimane di lavoro” e “Trump è ‘nu strunz”.

Terminata la corsa un po’ in stile Pechino Express ho attaccato, invece, a correre a piedi, per raggiungere il primo dei miei intervistati, Frah Quintale. A colpirmi è stato l’autore di Regardez-Moi, album che proprio allo scoccare della mezzanotte di quel giorno avrebbe compiuto due anni, perché aveva grossomodo la mia stessa faccia ma non era appena schizzato ai 120 superando a destra in strade allagate da un mese di diluvio.

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Guardate che patatoni. Fotografia via Red Bull

E così, alla mia scema domanda “come va”, s’è infine dipanato il mistero del SoundClash: si respirava una tensione vera. E la si leggeva pure un po’ sulla faccia di Frah, che mi ha detto di essersi “svegliato alle quattro e non sono riuscito più a dormire fino alle sei. La sfida la sento, è qualcosa che mi innesca cose diverse rispetto a un normale live”.

Non ne avevo idea, ma Francesco mi ha spiegato che “siamo tutti, io e i ragazzi della band, in ballo da mesi per questo evento”. Mesi? “Sì, perché al di là di suonare i nostri pezzi, ci hanno messo di fronte a tutta una serie di prove, come la cover, il riarrangiamento di nostre canzoni in stili diversi, i duetti. Una bella mole di lavoro, un live di due ore. Ovviamente siamo gasatissimi, vogliamo spaccare, ma ci arriviamo davvero fusi”.

"Mi sono svegliato alle quattro e non sono riuscito più a dormire fino alle sei. La sfida la sento, è qualcosa che mi innesca cose diverse rispetto a un normale live” - Frah Quintale

Allontano un attimo Frah dalla cappa della gara per dirgli che Auroro Borealo, mio amico oltre che suo collega e fan, mi ha detto di lui che è arrivato al successo solo e soltanto perché la musica è la cosa che ama; perché ha l’esigenza di farla, divertendosi. Gli chiedo se è vero o se in realtà voleva solo fare i soldi. Frah ride e mi mostra un orologio Casio, dicendo che rappresenta perfettamente quanto gliene frega di quella parte lì della faccenda. “Sapevo che la musica era la mia cosa, ma che ci sarebbe voluto lavoro e impegno per farla diventare il mio lavoro. E sì, sono arrivati anche degli agi, ma non sono il calciatore con la villa, manco da lontano”.

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E gli effetti perversi di questa velocissima notorietà? “Hai molti più fake amici. L’interesse di tante persone che prima della mia 'esplosione' sapevano della mia esistenza e non mi cagavano, poi magicamente hanno iniziato a far squillare il telefono a manetta. Bisogna essere bravi a tenersi vicine le persone che sai che sono lì perché ti conoscono davvero, che ti hanno supportato quando intorno c’era il deserto”.

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Frah Quintale, fotografia via Red Bull

Dato che stiamo parlando del lato oscuro del successo, chiedo quindi a Frah se apprezza l'apertura della musica da cui viene ai temi della salute mentale, e lì si accende. "È davvero figo, in generale, che nuovi argomenti, che non siano gli stilemi classici del rap, tipo 'il mio stile, il tuo stile, io ho le rime più fighe, tu fai schifo', siano entrati nel linguaggio. Se ci pensi è sempre stati un genere molto legato ai giovani, e se ci sono ragazzi che stanno male ma ascoltano solo gente che dice quanto sta da dio e quanti soldi fa, non so se possano ricevere un aiuto. È giusto che il rap si apra e si guardi intorno. Trovo sia bello quando la musica è connessa al tempo in cui essa stessa vive: anche in passato, quando si stava di merda, trovavi i dischi belli incazzati, quando si stava bene c’era più colore nella musica, mi piace l’idea di un racconto coerente”.

Oggi, però, il tema dei temi è il cambiamento climatico: come si fa a renderlo in musica? “Secondo me è possibile. Io racconto soprattutto di me, no? Beh, io nell’ultimo anno ho smesso di mangiare carne, e potrebbe anche essere che lo racconti in un prossimo pezzo”. L’ultima cosa che riesco a chiedere a Frah è di condividere con noi il supplizio di dire chi sono gli artisti italiani più influenti del decennio. “Bassi, Club Dogo, Sfera, Coez, Calcutta, I Cani, Salmo, MYSS KETA di brutto—anche per un discorso sul femminismo, che qui è un po’ povero di rappresentanti. Lei ha davvero fatto un lavoro gigantesco partendo da zero. Sei anni fa faceva la stessa roba che fa adesso ed è bello che abbia martellato sul continuare a farla. Se adesso sta volando così magari significa che siamo noi ad essere più pronti a capire delle cose”.

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"Il rap è sempre stato molto legato ai giovani, e se ci sono ragazzi che stanno male ma ascoltano solo gente che dice quanto sta da dio e quanti soldi fa, non so se possano ricevere un aiuto." - Frah Quintale

Allo scoccare dell’ottavo minuto di intervista, un Frah mormorante frasi su quanto sarebbe stato bello “andare in baita” invece che a fare la millemilesima prova mi è stato sottratto, mentre il team Red Bull m’ha fatto segno di seguirli in una corsa marziale verso la parte opposta del PalaPartenope—corsa che ha evidenziato non solo la mia scarsissima forma fisica ma pure la tendenza a rallentare i gruppi a causa dei continui inciampi in cose a caso.

Sempre inciampando, ovviamente, sono arrivata nel camerino di Carl Brave, bianco come il Korova Milk Bar, dove sono stata invitata a cazzeggiare poco e partire con le domande. In quel vortice di frenesia, però, Carlo era l’incarnazione dello sciallo: "Sto in forma, mi sono svegliato a mezzogiorno, ho appena preso il caffè e aspetto di fare le ultime prove, soprattutto quelle con i guest”.

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Carl Brave, fotografia via Red Bull

Quando gli dico che raramente ho incontrato qualcuno di così tranquillo prima di uno show, ride e mi spiega che in realtà era “molto ansioso, ma tipo che ai primi concerti avevo un panico terrificante e così mi facevo il boccione di vodka prima e pure sul palco, poi sono passato al boccione di vodka solo sul palco e oggi sono arrivato allo spritzettino, appena prima di salire”.

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Da ansiosa persa, gli chiedo come si fa a fare un percorso di gestione di un sentimento così poco controllabile, almeno per me: “Secondo me bisogna cambiare la prospettiva, e imparare a trasformare ciò che ti agita, nel mio caso il live, in un momento di sfogo. Quindi ora ho l’ansietta, quella bella, ma molto di più la voglia di sfogarmi di provare quell’emozione che ti regala il palco. E poi, ovviamente, suonando tanto come ho fatto io in questi due anni, affini pure il mestiere, ecco”.

"Ai primi concerti avevo un panico terrificante e così mi facevo il boccione di vodka prima e pure sul palco. Oggi sono arrivato allo spritzettino, appena prima di salire” - Carl Brave

Che cosa porta via, invece, dalla vita normale l’essere sempre in giro? “Nel successo ci sono un miliardo di lati insidiosi. La gente cambia la percezione che ha di te, e sembra una cazzata ed invece è una cosa grossa. Fa male quando lo vedi in persone che conosci da tempo, che ti si approcciano realmente in modo mutato in base ai riscontri che hai ottenuto”. Ma non può, gli chiedo, anche succedere che un musicista per primo cambi, dopo la fama? “Certo, però io mi sento sempre Carlo, Carlone. Poi magari non me ne accorgo e quelli che mi stanno attorno pensano sia diventato pazzo. Poi faccio un sondaggio, che mi interessa”.

Con alle spalle il management che mi accerchia sempre più chiedo a Carlo quali, per lui, sono i valori che gli hanno permesso di dire di essere rimasto lo stesso: “Sono rimasto io perché sono sempre stato così: ossessivo nelle cose che faccio, senza tanti fronzoli. Non sono attaccato agli oggetti, mi piace vivere la musica e di musica e sono felice di poter non fare altri lavori, oggi, ma solo il musicista”.

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Shablo, Carl Brave, Francesca Michielin e Max Gazzé, fotografia via Red Bull

Gli riferisco che con il suo rivale s’è ragionato di come la gamma di temi trattati nella loro musica si sia ampliata molto, andando a toccare anche cose intime che un tempo sarebbero state tabù. Lui interviene al volo: "è un grandissimo valore questa apertura verso argomenti come la fragilità, il disagio, il malessere. Parlarne aiuta sempre, specie se ad ascoltarti ci sono ragazzini. Penso che se un rapper che ami, ma anche un cantante pop, ti racconta del suo stare male, ti regala un nuovo punto di vista. Come quando vai dallo psicologo e ti fa vedere le cose in modo nuovo. Detto ciò, è importante a patto che tu sappia di cosa stai parlando. Sarebbe sciatto dire vai, parliamo del cambiamento climatico che è il trend del momento, senza sapere poi veramente un cazzo sulla faccenda. Lo devi volere davvero, non lo devi fà per furbizia”.

Captato perfettamente il messaggio fatto di sguardi sgranati che me ne dovevo andare, ho chiesto anche a Carlo il suo artista del decennio, e lui senza nemmeno farmi finire la frase ha quasi urlato “tha Supreme”. Con un sorriso ebete per la risposta appena ricevuta, ho abbandonato il luogo dello scontro—non che avessi scelta, peraltro—perché ci sarebbero da lì a poco state le prove con gli ospiti, e guai a far trapelare chi fossero.

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Coez e Frah Quintale, fotografia via Red Bull

L’intervallo tra la fine delle interviste più corte della mia vita da giornalista—battute solo dai 3 minuti cronometrati di Fernando Alonso, ma questa è un’altra storia—e l’inizio del SoundClash è un ricordo opaco, fatto di tuffi ad angelo in vassoi di crocchè di patate, fiori di zucca fritti e viaggi in metropolitana. Alle 21 spaccate il PalaPartenope sold out s’è ballato tutto il set della conterranea Rossella Essence e alle nove e mezzo precise Ema Stokholma ha dato il via alla gara. Palco blu per Frah Quintale, in compagnia del grandioso Ceri. Palco rosso per Carl, accompagnato da una big band di 8 elementi—mica cotica, insomma.

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La gara, ma gara vera, comincia con tanto di dissing, anche se nei ranghi: “Carlo, questa nemmeno con l’autotune la riesci a fare!” “Frah, la senti? Questa è musica suonata con gli strumenti, la riconosci?". Il tutto si svolge in quattro round, preceduti da un quarto d’ora nel quale i due per scaldare il pubblico potevano fare il cazzo che gli pareva.

“Carlo, questa nemmeno con l’autotune la riesci a fare!” “Frah, la senti? Questa è musica suonata con gli strumenti, la riconosci?"

Nel primo round ci si è affacciati a X Factor con la cover, un pezzo piuttosto noto dal titolo “Nel blu dipinto di blu”. Carl l’ha fatta un po’ reggae e un po’ ska, Frah l’ha resa un brano soul. Io, da giornalista imparziale, non posso in alcun modo pronunciarmi, quindi dirò solo che lo ska mi piaceva molto ottomila anni fa. A fine esibizione le tremila persone del PalaPartenope erano invitate a fare casino per misurare il vincitore con l’applausometro, ingegnoso strumento di tortura per gli over 30.

Il secondo round non l’ho tanto capito—so solo che si chiamava Takeover, e in pratica i due sfidanti dovevano iniziare una canzone che veniva terminata poi dall’avversario, ma secondo me non avevano capito bene manco loro. E comunque in quel mentre ero distratta dalla visione di un signore cinquantenne grondante sudore ma in perenne stato cinetico che tirava come un folle da una sigaretta elettronica di quelle che puzzano di culo, preoccupata per la sua sorte.

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Frah Quintale, Mahmood, Coez e il suo team, foto via Red Bull

La terza fase mi è piaciuta molto, anche perché dopo aver confidato allo Spicy i miei timori per il signore di prima—con appresso pure figlio e figlia—e essermi sentita rispondere “ma sticazzi”, me ne sono battuta anche io. Quindi ho ascoltato con cura il round Clash, quello dove gli artisti dovevano riarrangiare tre propri successi in generi diversi: blues, reggaeton e dance. Carl Brave ha cantato “Camel Blu”, “Malibu” e “Vita”, mentre Frah Quintale “8 miliardi di persone”, “Floppino” e “Gravità”.

Sul finale però c’è stata poca gara perché nel round “Wild Card”, cioè quello dei guest, Carl Brave ha portato sul palco Shablo per “Non ci sto",—mentre un Marracash senza senso veniva proiettato alle loro spalle, con grande sgomento di tutti noi, e per tutti noi intendo me e l’ufficio stampa di Red Bull Soundclash—Francesca Michielin per “Fotografia” e Max Gazzè per “Posso”.

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Il pubblico del PalaPartenope, fotografia via Red Bull

Ma è stato sul palco di Frah Quintale che, permettete, sono stati calati gli assi veri, perché per primo è arrivato un tale di nome Silvano, in arte Coez, per “Nei treni la notte” e “Faccio un casino” e poi, Mahmood, ovvero l’autore di “Soldi”, aka il brano italiano più ascoltato dell’anno, che per altro ha fatto, con l’aggiunta di “2%” . E se i round, come ci ha informati una Ema che non ha scaldato granché i cuori dei napoletani, sono finiti in parità, il boato finale per l’uno e per l’altro ha fatto vincere Frah Quintale a Undamento tutta.

E il mio racconto, cari lettori di Noisey, finisce qui, perché no, non sono andata all’after party a raccogliere un po’ di umori a caldo (tranne quello di Mecna, che era con me in zona stampa e che tifava per una delle due fazioni ma non dirò quale, ma che era convinto avrebbe perso), bensì mi sono diretta sotto una pioggia tropicale al baracchino delle sfogliatelle, riflettendo sul fatto che, in generale nella vita, anche quando si gioca un’amichevole, perdere è sempre una merda.

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