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Come sono da grandi i bambini superdotati?

"È un bambino prodigio, farà strada." Puoi sentirlo dire quante volte vuoi, ma se è di te che parlano, sai anche quanto sarà difficile trovare quella strada. Ne abbiamo parlato con quattro adulti superdotati.

"È un bambino prodigio, farà strada." Puoi sentirlo dire quante volte vuoi, ma se è di te che parlano, sai anche quanto sarà difficile trovare quella strada. È questo più o meno ciò che è emerso dal nostro incontro con quattro adulti superdotati, che oggi hanno una carriera e in alcuni casi figli con le loro stesse caratteristiche.

Molti hanno scoperto di avere capacità cognitive superiori solo in tarda età, e durante la loro infanzia si sono sentiti strani o fuori luogo. "Eravamo bambini diversi e, come tutte le persone diverse, spesso ci è toccato adattarci agli altri per non sentirci emarginati." Ci hanno spiegato com'è stato crescere e riuscire a capire e accettare la loro realtà.

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Lea Vélez (47 anni, sceneggiatrice e scrittrice)

VICE: Come hai scoperto di essere plusdotata?
Lea Velez: Quando sono stati diagnosticatii miei figli. Anche se diagnosticati è un termine bruttissimo. Ma è così che si dice, e la prima volta che l'ho sentito ho pensato: "Cos'è, una malattia?". E anche se non lo è, per molti versi è un handicap. A scuola ero la classica ragazzina che assorbiva tutto quello che leggeva. Mi sembrava una cosa normale, non capivo perché le lezioni mi annoiassero tanto.

A casa andava tutto bene, però la scuola era un incubo. Ho capito il motivo osservando i miei figli, che sono uguali a me. Però loro hanno fatto tutti i test. Il più grande, di sette anni, ha cominciato a parlare molto presto e faceva domande che ci lasciavano interdetti. Ho notato una dinamica molto simile alla mia. Ho fatto anche io i test, e così ho scoperto di avere qualità superiori alla norma.

Parliamo della tua carriera professionale.
A scuola andavo bene, e i professori non facevano che ripetermi, "applicandoti potresti fare ancora di più." Non l'ho mai fatto, ma non mi è andata male. L'interesse per la letteratura che mi ha trasmesso la mia famiglia è stato sicuramente determinante. Non avevo le idee molto chiare, e ho scelto di fare giornalismo per evitare latino, matematica, scienze… e perché aveva a che fare con la scrittura. Visto che non mi vedevo in giro a caccia notizie, però, ho scelto di specializzarmi sulla sceneggiatura. Ho cominciato a lavorare molto per le serie televisive, e da lì alla letteratura è stato un passaggio naturale.

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Come si accetta di essere diversi?
È una lunga evoluzione. Non ti senti migliore degli altri, né superiore, né più intelligente. Al contrario, ti senti strano, diverso, fuori luogo… e non sai perché. È come nel Brutto Anatroccolo, l'infanzia difficile non te la toglie nessuno. Ci si sente rifiutati dalla massa, che ti considera diverso, che vede e pensa in maniera differente. Può dare problemi coi compagni, ma anche i professori veramente in grado di aiutarti sono rari. Io ho avuto la fortuna di incontrare una professoressa che mi ha protetta moltissimo.

Come definiresti con una frase cosa significa essere dei prodigi?
È un'arma a doppio taglio. Poter vedere il mondo da questa prospettiva è meraviglioso, ma anche pericoloso, come camminare sull'orlo di un abisso.

Pilar Novo (45 anni, insegnante)

VICE: Ciao Pilar, come e quando hai scoperto le tue capacità?
Pilar Novo: Tre anni fa. L'ho scoperto grazie a mio figlio, che a scuola stava attraversando un piccolo calvario. All'inizio non capivamo il motivo di quelle difficoltà. Era intelligente, però ragionava e pensava in modo diverso.

Un adulto non ci fa caso, magari, ma gli altri bambini lo consideravano diverso e a scuola ha sofferto molto. A 12 anni l'ho iscritto alla Asociación Española de Superdotados y con Talento. Lì ho raccontato il caso alla preside, che alla fine mi ha fatto fare i test con lui. Entrambi siamo risultati plusdotati.

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Come è stato crescere senza sapere di avere capacità cognitive superiori alla media? Non lo hai mai sospettato?
Da piccola cercavo sempre di adattarmi. Ero molto timida e tendevo a fare le cose che facevano i miei compagni e i miei amici. Credo che nessuno abbia mai notato che fossi così matura e responsabile. Ma ricordo che spesso, guardando i miei compagni, pensavo, "Come fanno a non capire…"

Ora che lo sai, come vivi questa tua caratteristica?
Sono più sicura di me stessa. Penso più rapidamente di quanto parlo e, se prima mi trattenevo, adesso non lo faccio più: credo mi abbia dato sicurezza.

C'è una qualità che ti differenzia radicalmente dagli altri, secondo te?
Non mi sento diversa dagli altri. Sono uguale a tutti gli altri, ma una cosa che mi caratterizza e che ho sempre avuto è una maggiore empatia. Questo, chiaramente, mi permette di aiutare gli altri.

Anche nel tuo lavoro di insegnante, giusto?
Senza dubbio. Mi piace aiutare i miei alunni, capirli e capire perché un determinato giorno non hanno fatto i compiti.

Come mai hai scelto di fare la professoressa?
Non era nei miei piani. Dopo 16 anni da mamma casalinga, 16 anni in cui mi sono dedicata solo ai miei tre figli, mi è venuta voglia di insegnare.

Antonio Ayuso (67 anni, imprenditore)

VICE: Prima di cominciare con le domande sulla tua esperienza, ci piacerebbe sapere la tua definizione di plusdotato.
Antonio Ayuso: In una parola: frustrazione. Siamo tutti fissati con questa cosa dell'intelligenza, e sentirsi dare dello scemo non è mai piacevole. Ma credo che l'intelligenza sia sopravvalutata. Siamo persone normali con un determinato difetto, così lo chiamerei. Siamo esseri umani come tutti gli altri, e a volte lo siamo anche di più, perché siamo molto più sensibili ed empatici—e questo ci fa soffrire più della media delle persone.

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Quale è la tua definizione di successo?
In questa società sono pochi i plusdotati che sono anche persone di successo, e poche persone di successo sono plusdotate. La società chiede ben altro: essere estroversi, sapersi adattare socialmente, e credere in se stessi. Noi non siamo così. Noi siamo gli antieroi.

Come hai scoperto di essere superdotato?
Da solo. A 19 anni ho fatto l'esame di orientamento professionale, e il mio quoziente intellettivo è risultato 142. Non me lo aspettavo, e mai l'avrei pensato, però saperlo mi ha dato sicurezza e ho cominciato a prender coscienza delle mie capacità. Mi ha cambiato la vita: ho abbandonato gli studi di matematica e per un po' ho cercato di capire cosa volevo fare. Mi sono iscritto a un corso di programmazione quando ancora ce n'erano pochissimi in giro, ma sono finito a fare l'assistente sanitario finché non mi hanno chiamato per fare il programmatore alla IBM e alla Chrysler.

Poi però sei diventato imprenditore.
Sì. Ho fatto il direttore commerciale e fondato la mia impresa, e sono stato investitore immobiliare. A 38 anni ho perso tutto e ho dovuto ricominciare da capo.

Credi che la società abbia una percezione sbagliata dei plusdotati?
Molta gente ci vede come dei Supermen, ma in realtà, al massimo siamo dei Clark Kent.

Federico Fernández (46 anni, psicologo)

VICE: Cosa vuol dire per te essere plusdotato?
Federico Fernandez: È una qualità. Qualcosa di organico. Come avere gli occhi azzurri o le gambe forti. Ho una figlia come me, e cerco di insegnarle che non è qualcosa di cui ci si può vantare. Ci si può vantare solo del prodotto del proprio lavoro e di ciò che si guadagna con i propri sforzi.

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Per quanto riguarda la tua esperienza, il fatto di avere capacità superiori alla media ti ha aiutato o pensi sia anche stato un problema?
Un sacco di gente è convinta che essere persone di successo voglia dire fare i soldi o stare sulle copertine dei giornali, ma per me vuol dire essere felici.

La verità è che fin da giovane ho dovuto studiare e contemporaneamente lavorare. Ero un ragazzetto molto socievole, perché essere un prodigio comporta anche questo: la capacità di camuffarti. Ma ricordo anche il silenzio della gente di fronte a certe conversazioni, quando mi addentravo nei miei ragionamenti. Con il tempo ho capito che era un problema mio, più che dei miei interlocutori.

Che musica componi?
Faccio musica elettronica con un tocco più classico, perché suono anche il pianoforte.

Ti è sempre piaciuta la musica?
Sì, come le lingue. Sembrerò un po' fissato, ma da piccolo mi capitava spesso di piangere per la musica. Mi sono messo a piangere anche quando ho scoperto che nel mondo c'era un numero sufficiente di bombe nucleari per distruggere qualsiasi cosa, a sette anni. Piangevo anche al pensiero che un giorno i miei genitori sarebbero morti.

Come sei finito a fare lo psicologo?
A 17 anni ho cominciato a lavorare alla camera del commercio tedesca di Madrid, e nel frattempo valutavo se darmi alla matematica. Non ero molto convinto, e ho provato ingegneria. Ma ho mollato perché non ero soddisfatto dei corsi. A 30 anni, dopo un esame, ho capito di avere delle capacità cognitive al di sopra della media. Era tutto chiaro: se non riuscivo a capire gli altri il problema era mio, dovevo iniziare con il capire me stesso. Ecco così sono finito a occuparmi di psicologia.

Come hai reagito quando hai scoperto di essere plusdotato?
In un certo senso l'ho sempre saputo, e lo stesso valeva per quelli che mi conoscevano. Dicevano che non avevano bisogno di prove, perché lo sapevano e basta. Ero io ad aver bisogno di un foglio.