intervento di Mapuche Moira Millan al venice climate camp 2019
L’assemblea ascolta l’intervento dell’attivista Mapuche Moira Millan al Venice Climate Camp 2019. Immagine dell'autore
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Siamo stati al Venice Climate Camp, il primo campeggio italiano sulla crisi climatica

Ecco cosa abbiamo visto tra tende, assemblee, azioni di protesta e litri di ottima birra.

Lo scorso 7 settembre, l’occupazione del red carpet della 76a Mostra Internazionale del Cinema da parte di attivisti ambientali ha avuto risonanza sulle maggiori testate italiane e internazionali. Non è stata tuttavia un’azione isolata, ma generata nel contesto del Venice Climate Camp—un campeggio organizzato da Comitato No Grandi Navi e Fridays For Future Venezia e pensato come occasione di scambio, approfondimento e mobilitazione in nome della giustizia climatica, che ha visto coinvolti centinaia di attivisti e attiviste provenienti da tutta Italia ed Europa.

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Il luogo scelto dagli organizzatori è Batteria Ca’ Bianca, un’area del Lido che storicamente faceva parte del sistema difensivo costiero di Venezia. Dismessa e abbandonata per lungo tempo, dal 2016 è stata oggetto di varie iniziative da parte di associazioni locali, con l’intento di riaprirla alla comunità.

Io arrivo giovedì nel primo pomeriggio. Il Camp è già in moto da qualche giorno e i partecipanti si identificano facilmente per le strade del Lido, almeno quanto i frequentatori della Mostra del Cinema col pass rosso al collo. Ad accogliermi ci sono tutti gli elementi del più classico dei campeggi della riviera Adriatica: i canonici 30 gradi all’ombra, suono di cicale dai pini marittimi e gente che torna dalla spiaggia col costume bagnato.

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Momento di quotidianità al Venice Climate Camp. Immagine dell'autore

All’ingresso, un info-point in cui ci vengono spiegate le regole del campeggio. Si cerca disponibilità per i turni di pulizie, aiuto in cucina o per prestare primo soccorso. Il Climate Camp è pensato per ridurre al minimo l’impatto ambientale: il fabbisogno energetico è garantito da pannelli solari e non c’è neanche un generatore a gasolio, per buona pace dei sensi di tutti. È attiva una cucina vegana che offre pasti a base di prodotti coltivati a pochi chilometri di distanza, sull’isola di Sant’Erasmo. Niente bicchieri e stoviglie monouso. Ci sono invece molteplici aree di raccolta differenziata dei rifiuti e punti di distribuzione dell’acqua potabile. È attivo un gruppo Telegram attraverso il quale i partecipanti possono rimanere aggiornati sulle attività del camp e scambiarsi informazioni.

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Al centro del campeggio una grande tensostruttura ospita momenti di incontro e scambio informali, che si alternano ad assemblee plenarie e focus lab di approfondimento teorico. Osservo un gruppo di attivisti internazionali condividere opinioni su tattiche e strategie messe in atto dai rispettivi movimenti. Capisco come il carattere globale della battaglia per il clima favorisca il processo di cross-fertilizzazione di pratiche, anche tra lotte e comitati legati a territori specifici.

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Pannelli solari che forniscono energia a un area del campeggio. Immagine dell'autore

La plenaria del pomeriggio è dedicata al tema “crisi climatica ed eco-transfemminismi.” Si indagano le interrelazioni delle soggettività LGBTQIA+ e delle lotte dei popoli indigeni con lo sfruttamento della natura—intesa non come termine neutro, ma sempre politicamente costruito. Lo spazio è organizzato in maniera circolare: ognuno è libero di parlare nella lingua che gli è più congeniale ed è garantita per tutti una traduzione in inglese.

Alcune rappresentanti dell’assemblea “Terra Corpi Territori”—un tavolo di ricerca della piattaforma Non Una Di Meno—presentano le proprie posizioni in termini di eco-transfemminismo. Non un mero approccio teorico, quanto piuttosto un processo fatto di storie, esperienze, biografie costruite sull’autodeterminazione. Un percorso che vuole scardinare le logiche binarie che hanno portato a vedere la natura come corpo femminilizzato. Una definizione non certo innata, ma funzionale al capitalismo e all’oppressione di alcuni corpi a discapito di altri.

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L’intervento di Julie Coumau durante la plenaria di giovedì. Immagine dell'autore

La ricercatrice e attivista francese Julie Coumau racconta l’esperienza antispecista del santuario di Le Vernou: un luogo di convivenza orizzontale tra esseri umani e animali, in cerca di un’alternativa alla prevaricazione dell’homo sapiens—almeno di quello capitalista e patriarcale—sulle altre specie. “Non possiamo prescindere,” evidenzia Coumau, “da un’ecologia politica decoloniale, in cui la tutela dell’ambiente sia coniugata alla messa in discussione di pratiche e modalità di ricerca ancora oggi troppo legate a paradigmi occidentali binari e gerarchizzati.”

Moira Millan, autrice e attivista Mapuche, contribuisce al panel parlando del rapporto tra il cambiamento climatico e le lotte dei popoli indigeni. Millan propone un approccio decisamente più spirituale e meno teorico, condannando anzi le pratiche di estrattivismo culturale perpetrate ai danni delle popolazioni indigene da parte di accademici e intellettuali, spesso anche di quelli che professano posizioni femministe ed ecologiste: “il femminismo,” dice Millan, “non ha il monopolio della lotta contro il patriarcato.”

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Il Climate Camp serve anche a fare rete tra i vari movimenti Europei per la giustizia climatica. Immagine dell'autore.

Millan invita a riflettere su come le comunità indigene reclamino una relazione con la terra che non sia basata sulla proprietà, mentre violenze e violazioni dei diritti umani continuano nelle terre Mapuche in Patagonia. La mano è quella della polizia argentina, ma i mandanti sono le grandi aziende occidentali—come il marchio Benetton—che nella zona hanno acquisito immensi lotti di terreno e proceduto con sgomberi di massa ai danni delle comunità locali. “La resistenza Mapuche e la lotta di tutte le comunità indigene che invocano la libera determinazione delle proprie comunità, delle proprie terre e dei propri corpi,” dice Millan durante il camp, “hanno bisogno del compromesso del mondo.”

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Posizioni decise. Immagine dell'autore

Dopo la plenaria ho l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con Marco Baravalle, attivista del Comitato No Grandi Navi. Ci racconta che le presenze al Climate Camp sono decisamente superiori alle aspettative, tanto che gli attivisti hanno occupato un’area limitrofa al campeggio—di proprietà di un supermercato anche se originariamente destinata a essere verde pubblico—riqualificandola come ulteriore spazio per le tende. Si parla di 800-900 partecipanti, il 50 percento circa dei quali provenienti da movimenti ecologisti radicali Europei. Un numero destinato persino a salire nel weekend, per il grande corteo sul tappeto rosso della Mostra del Cinema.

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Indicazioni per i servizi sanitari. Immagine dell'autore

Marco ci tiene a chiarire quale sia il rapporto della lotta contro le Grandi Navi e le Grandi Opere con le proteste per la giustizia climatica. “Basta guardare all’esempio del MOSE, per capire quanto siano insostenibili certe pratiche di gestione territoriale a Venezia,” mi dice, riportando un articolo pubblicato nel 2018 sulla rivista Nature, in cui venivano presentati diversi studi scientifici che condannavano il MOSE come potenziale rovina della laguna.

Stando alle previsioni dell’IPCC—Intergovernmental Panel on Climate Change dell’ONU—le stime sull’innalzamento del livello dei mari per l’anno 2050 evidenziano come la chiusura delle paratoie mobili del MOSE, qualora si dimostrassero funzionanti, sarebbe necessaria per quasi 190 giorni l’anno. Un’operazione che impedirebbe l’apporto di ossigeno dal mare, condannando in breve tempo il delicato ecosistema lagunare e con esso l’economia marittima. “La giustizia climatica,” conclude Marco, “non può prescindere dallo stop alle grandi opere.”

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"Dobbiamo batterci per una giusta sostenibilità ambientale. Senza giustizia, sostenibilità rimane una parola vuota.”

In serata c’è spazio per la proiezione di film e dj set. Nel frattempo si preparano anche i materiali che serviranno per le azioni previste per il giorno successivo.

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Il Comitato No Grandi Navi si batte da anni per l’estromissione delle navi da crociera dal Bacino di San Marco e dalla laguna di Venezia. Immagine dell'autore

Venerdì il tempo cambia, e il Climate Camp si sveglia con pioggia e vento. Nella plenaria della mattina la discussione si sposta sulla relazione tra crisi climatica, fascismi e migrazioni. I keynote speakers sono Marco Armiero, storico dell’ambiente e direttore dell’Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology a Stoccolma, e Nnimmo Bassey, architetto, autore e attivista climatico, nonché direttore della Health of Mother Earth Foundation in Nigeria.

“Se non poniamo un aggettivo davanti alla parola sostenibilità, questa non può funzionare,” afferma Bassey alla plenaria. “Multinazionali presenti in Nigeria come Shell, Eni e Monsanto sono responsabili di un drammatico ecocidio. Ciononostante, pubblicano regolari sustainability reports, a dimostrazione di come il capitale possa appropriarsi facilmente di simili modalità. Dobbiamo batterci per una giusta sostenibilità ambientale. Senza giustizia, sostenibilità rimane una parola vuota.”

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Merchandising del Climate Camp a scopo di autofinanziamento (Le t-shirt spaccano). Immagine dell'autore

Armiero fa eco a Bassey parlando di eco-fascismo, mettendo in guardia dall’onda xenofoba che celatamente abita il discorso ambientalista. “Ci sono narrazioni che si fregiano di essere ambientaliste e che dobbiamo combattere. ‘Rimanere nelle Filippine ha un impatto sul pianeta minore, rispetto a migrare negli Stati Uniti e diventare un grande consumatore. Rimani là e muori povero’ è il credo imposto da alcune correnti di pensiero,” dice Armiero. “Non possiamo assoggettarci a una simile logica coloniale. L’ambientalismo da solo non è sufficiente, la giustizia climatica dipende sempre da che tipo di ambientalismo vogliamo praticare.”

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Nel pomeriggio si riuniscono esponenti dei vari comitati italiani presenti al Camp. Si condividono le prossime iniziative organizzate dai movimenti e i rispettivi contributi alla protesta per il clima. Pur consapevoli che sia un’istanza fortemente unificatrice, i movimenti italiani sono meno preparati in materia rispetto ad altri contesti europei e non mancano le frizioni tra gruppi di protesta storici e le nuove correnti giovanili come Fridays For Future ed Extinction Rebellion. Tuttavia i partecipanti concordano che, con la volontà di mettersi in ascolto da parte di tutti e la costruzione di un’agenda nazionale condivisa, il movimento per la giustizia climatica potrà ottenere risultati straordinari.

Lascio il Climate Camp mentre cresce il fermento per le azioni preparate per il pomeriggio. Un gruppo salirà su piccole imbarcazioni per tentare di bloccare temporaneamente l’ingresso di una nave da crociera MSC nel canale della Giudecca. Nel frattempo la maggior parte degli attivisti parteciperà a un corteo fino al centro del Lido, dove sarà inscenato un die-in, una forma di protesta in cui tutti i manifestanti cadono al suolo contemporaneamente come morti. La pioggia è incessante, tutti sono fradici dalla testa ai piedi, ma l’abnegazione dei partecipanti è ammirevole e le acque della laguna di Venezia sembrano animate da uno spirito audace, quasi eroico. Entrambe le azioni saranno un successo.

Me ne vado con un quesito. Chissà che proprio Venezia, nella sua fragilità costruita sul mare, città vincolata a uno strettissimo rapporto di interdipendenza con l’ecosistema in cui è situata, non possa diventare la punta di diamante della lotta per la giustizia climatica in Italia. Energie, idee e risorse sembrano essere quelle giuste.

Guarda 'Venezia 2100', il nostro documentario su come la città di Venezia si sta preparando alle conseguenze devastanti dell'innalzamento del livello del mare: