Ronin omakase Milano
Tutte le foto di Cultivar Agency per gentile concessione di House of Ronin.
Cibo

In questa cena a Milano ho capito cosa vuol dire davvero un'esperienza fine dining per i giapponesi

L'espressione massima della cucina per i giapponesi è sedersi davanti a un maestro e mangiare il meglio del meglio che esista.
Andrea Strafile
Rome, IT

Il sushi vero si mangia con le mani, su tre dita. Il maestro te lo passa, tu giri le dita e lo metti in bocca dalla parte del pesce, aspetti qualche secondo, poi mastichi e godi.

Quando andiamo a mangiare del sushi, la stragrande maggioranza delle volte—diciamo pure praticamente tutte—ce ne freghiamo completamente di cosa stiamo per inghiottire, assuefatti dall’idea di strafogarci con pallette di riso e pesce a volontà.

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È paradossale, quindi, che una vera degustazione di sushi conti pochissimi pezzi. E sono abbastanza sicuro che molti di voi non hanno alcuna idea di cosa sia il vero sushi giapponese.

Fino a qualche giorno fa includevo anche me stesso in questa cerchia, ma dopo aver fatto una vera esperienza omakase a Milano ho scoperto sia cos’è il vero sushi, sia cosa significa per le persone giapponesi fare un’ esperienza fine dining. Spoiler: il tutto è basato sui dettagli, il rispetto e gli ingredienti.

Ronin omakase bar

La sala omakase di Ronin.

Sono da House of Ronin, il locale aperto da poco che si svolge su più piani a tema Giappone tra Arco della Pace e la zona di Paolo Sarpi a Milano. Forse ve lo ricorderete perché ci siamo stati a bere, mangiare e cantare a squarciagola nelle loro sale karaoke. Bene: da Ronin c’è una sala con otto sedute che è un vero omakase bar, in cui vengono fatte diverse cene pop-up, chiamate “Omakase Roulette”, nelle quali chef di vario genere e gusto proporranno la loro cucina a pochi fortunati.

Ronin milano sushi omakase

Lo chef Katsu Nakaji mentre fa un temaki con gli scarti della parte grassa del tonno.

Per due mesi a partire da febbraio 2023, in questa sala cucina lo shokunin (maestro, ndr) Katsu Nakaji di Hatsune Sushi a Tokyo (250 euro a persona, vini esclusi): è una cosa rarissima, perché quasi nessun maestro sushi si sposta dal Giappone per mostrare la propria arte. Lui, invece, crede che sia importante farla conoscere al mondo.

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“Omakase in giapponese vuol dire affidarsi,” mi racconta il maestro di sushi Katsu Nakaji. “È un po’ come quando voi andate a fare un’esperienza in un ristorante stellato: non scegliete dalla carta, spesso, ma vi affidate alle scelte dello chef con il menu degustazione.” A dirla tutta, però, un vero omakase giapponese è qualcosa di molto più profondo che ho capito assaggio dopo assaggio. Non bastano i piatti: tutto fa parte dell’esperienza, tutto è collettivo e insieme personale.

Ronin omakase bar milano

Lo chef con la carne wagyu di Kobe e il wasabi del monte Fuji.

Il maestro sta come su un palco e tu rispetti la sua performance tanto quanto lui rispetta al massimo livello la tua presenza. In pratica stai pagando un sacco di soldi per immergerti in un’esperienza fatta di racconti, gesti e ingredienti assoluti. “Per noi giapponesi il lusso sta nella ricercatezza,” mi racconta lo chef Katsu Nakaji. E la ricercatezza sta nell’abilità artigianale perfetta che supporta ingredienti non di alto livello, di più. Tutto quello che viene dato ai commensali deve essere il massimo. “C’è una parola in giapponese che significa oste che corre tra mari e monti e che in italiano si può tradurre con prelibatezza. Metà del nostro lavoro per voi è di girare ovunque per farvi mangiare il meglio del meglio che troviamo.”

Non c’è dubbio che in quasi tre ore di cena abbia mangiato il meglio del meglio. A cominciare dallo spiedino di dentice della Sardegna e cipollotto che, una volta addentato, mi ha fatto quasi piangere da quanto era buono. E andando avanti con strani budini d’uovo con granchio reale, fino ad arrivare ai nigiri, che mi hanno fatto capire cosa significhi davvero mangiare sushi e che sbagliamo su ogni singolo punto e gesto.

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Ronin omakase bar milano

Dentice della sardegna e cipollotto.

Dopo una serie di bocconi preliminari, infatti, lo chef Katsu Nakaji tira fuori del riso da una pentola di rame che lo mantiene caldo, ce lo fa assaggiare per farci capire la bontà e ce lo spiega. Sì, il riso fa parte dell’esperienza di un vero sushi. Anzi, la parola sushi, in giapponese, non indica quella bella palletta di riso e pesce, ma significa grossomodo riso condito con aceto. Insomma, il riso è tanto importante quanto il pesce, se non di più.

Sushi ronin omakase

Il riso viene mostrato con grande fierezza.

”Il riso viene cotto in un forno a carbone,” spiega il maestro, “come andrebbe fatto e come la mia famiglia fa da quattro generazioni.” Katsu Nakaji prepara sushi da quando ha quattro anni: la sua famiglia aveva un baracchino da street food fuori dai bagni termali, che sono i veri posti di sushi di una volta. “Per condirlo uso un aceto di riso invecchiato che non è nemmeno in vendita: per ottenerlo il produttore deve conoscerti e ritenere che tu sia capace e degno di usarlo.”

Quindi si passa al re dei pesci da sushi, il pesce che in Giappone è stato battuto anche alla cifra record di 2.7 milioni di euro: il tonno rosso. Lo chef prende un pezzo bello grosso di tonno rosso, lo mostra ai commensali (ci fornisce anche un certificato di garanzia), lo sbatte sul tagliere e inizia a tagliarlo con rispetto infinito. Divide la parte più magra, il filetto (akami) da quelle più grasse, l’otoro, che è la ventresca e la parte più pregiata e il chu-toro, grasso e fibroso che l’assistente del maestro ha pulito alla perfezione per non buttarne nemmeno un pezzetto.

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Sushi omakase ronin Katsu Nakaji

Il maestro Katsu Nakaji serve il vero sushi, che è tiepido.

E poi comincia: con movimenti rapidissimi si bagna le dita con dell’acqua, prende del riso, mette del wasabi vero—che viene dalle pendici del monte Fuji, ovviamente—, sopra ci poggia la fettina di pesce, una spennellata di salsa di soia e ti mette il nigiri in mano, ancora tiepido.
Sì, in mano. Il sushi vero si mangia con le mani, su tre dita. Lui te lo passa, tu giri le dita e lo metti in bocca dalla parte del pesce, aspetti qualche secondo, poi mastichi e godi.

Katsu Nakaji omakase ronin

Lo chef e la carne di wagyu di Kobe al massimo livello.

“Ci sono due motivi principali per cui il sushi andrebbe mangiato caldo,” mi spiega lo shokunin Katsu Nakaji. “Il primo è che, come un buon vino rosso, i sapori a una certa temperatura si aprono di più. Il secondo motivo, più primordiale, è che andrebbe servito a trenta gradi circa perché è la stessa temperatura del latte materno, per cui ci sentiamo coccolati e al sicuro.” L’altra motivazione, invece, è storica e ribalta la nostra concezione di sushi ancora una volta: quando è nato il sushi non esistevano i frigoriferi, quindi si usava pesce perlopiù cotto o sottaceto.

Abbiamo ribaltato il paradigma con i nostri strani sushi occidentali fatti di riso freddo e pesce sempre presumibilmente fresco. “Anche per questo sono nati gli omakase bar di sushi,” mi spiegano. “Quando in occidente è stata di fatto creata una nuova tradizione di sushi, in Giappone siamo voluti tornare alle origini e osannare quello che per noi è il vero sushi all’ennesima potenza.”

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Otoro sushi ronin milano

L'assistente dello chef, Hayato, prepara l'otoro prima che venga cotto sulla brace di paglia.

La cena prosegue lenta; ogni ingrediente ha una storia sua ed è servito con la delicatezza di uno spettacolo in cui protagonista è un pezzo di pesce e non chi lo taglia. O meglio, lo sono insieme. Una danza che non ti fa sentire fame e ti fa lavorare il cervello ed entrare in un mondo assai sconosciuto come quando guardi un film di Myiazaki o di Kurosawa e lo sai che quella roba non ti appartiene, ma ti ammalia con quei mondi dalle sottili basi comuni e dal fascino inspiegabilmente magnetico. Tutto questo mentre, ogni tanto, vai in estasi e non capisci più niente per una polpettina di riso e pesce. Arriva l’anguilla, appena scottata. Poi la carne di wagyu Kobe livello A5 (cioè la più buona in asoluto) e pure gli scarti del tonno vengono ridotti in poltiglia e messi in un temaki. La cui alga nori che racchiude il tutto ha vinto il premio come migliore alga nori del Giappone, chiaro.

E vai avanti così, sempre più affascinato, sempre meno con la voglia di andartene via, in un climax afrodisiaco che culmina nel sushi di otoro, la parte più grassa del tonno, marinato nella salsa di soia e cotto a fuoco vivo sulla paglia. Giuro che mi si sono rivoltati gli occhi all’indietro dall’estasi quando l’ho assaggiato.

Ronin omakase milano

Lo chef cucina il pezzo di otoro del tonno, momento clou della serata.

“Noi shokunin di sushi siamo come direttori d’orchestra e voi che mangiate ne siete gli elementi. Io do le indicazioni, da come mi presento a come mi muovo, delicato ma impeccabile: ma senza di voi non viene fuori un concerto. Per noi giapponesi il lusso non è la creatività e una bella sala. È sapere che ci si può fidare ciecamente e che si avrà in cambio bellezza, purezza di gusti e artigianalità perfetta. È assoluto rispetto reciproco.”

Ecco cosa ho capito facendo una vera cena omakase: il massimo dell’esperienza culinaria passa dai dettagli più piccoli, dai gesti precisi e dagli ingredienti migliori.
Il vero fine dining giapponese non crea piatti carini: crea infiniti stati d’animo in micro bocconi di riso e pesce.

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