Attualità

Un anno fa c'è stato un grave caso di profilazione razziale a Milano, ma la vicenda non è ancora finita

Ne abbiamo parlato a proposito della campagna "Le nostre vite contano", a quasi un anno dai fatti del McDonald's di Piazza XXIV Maggio a Milano.
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Un momento degli scontri a Piazza XIV Maggio a Milano, il 27 giugno del 2021. Grab via Instagram.

Una mattina di fine giugno del 2021, intorno all’alba, un gruppo di ragazzi e ragazze poco più che maggiorenni e per la maggior parte afrodiscendenti si trovava fuori dal McDonald’s di Piazza XXIV Maggio, a Milano. All’improvviso sul posto era arrivato un gran dispiegamento di carabinieri, alcuni in tenuta antisommossa. Ne è seguito un intervento di identificazione piuttosto violento, documentato da diversi video pubblicati sui social. 

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Uno di questi, postato da Huda Lahoual sul suo profilo Instagram, era diventato virale: oltre a denunciare l’accaduto, si raccontava come fossero state utilizzate anche frasi razziste—compresa la n-word. In un’intervista che avevamo fatto qui su VICE, Lahoual sosteneva di “non aver mai visto un tale livello di violenza.” 

L’operazione si era conclusa con il ferimento di una ragazza, l’identificazione di 12 persone (poi multate per violazione delle norme anti-COVID in vigore all’epoca), l’arresto di un diciannovenne e la denuncia di un altro. Per i carabinieri si trattava di un controllo “come mille altri”; per le persone coinvolte e le associazioni che se ne sono poi interessate, era un chiaro abuso di potere a sfondo razziale. 

Dopo l’interesse iniziale, l’attenzione mediatica (e anche sui social network) si è rapidamente esaurita. Nel frattempo però l’attività giudiziaria è andata avanti: per il ragazzo arrestato è arrivata una condanna a quattro mesi con il rito abbreviato in primo grado, mentre per un altro si sono chiuse le indagini e a breve partirà il processo.

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Di fronte a questi sviluppi CambieRai (un’iniziativa nata l’anno scorso per combattere il linguaggio razzista, sessista e omobilesbotransfobico sui media) ha lanciato, con il supporto dell’associazione Cambio Passo, la campagna di raccolta fondi “Le nostre vite contano, le nostre voci contano”. Una parte del ricavato servirà per la copertura delle spese legali dei due ragazzi, mentre il resto per ️fare formazione e informazione sull’autotutela legale. 

Per capire a che punto siamo a un anno di distanza, e sul perché sia così importante continuare a parlare di questa vicenda (e di altre analoghe), ho sentito al telefono Gilberto Pagani—membro di Legal Team Italia e dell’associazione Avvocati Europei Democratici, nonché difensore di fiducia dei ragazzi accusati—e Rahel Sereke, socia fondatrice di Cambio Passo e parte attiva di CambieRai.

Anzitutto, Pagani ripercorre il contesto in cui è avvenuta quella identificazione. Quella notte c’erano molte persone davanti al McDonald’s, e a un certo punto era scoppiata una rissa “tra persone che non sono in contatto con me o con noi”—ossia fuori dal gruppo che ha denunciato l’identificazione. 

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L’intervento dei carabinieri era stato richiesto dai militari dell’operazione “Strade sicure,” che non possono arrestare o identificare in autonomia una persona che sospettano aver commesso un reato. Come mi dice Sereke, tuttavia, il reparto era arrivato “con quasi due ore di ritardo rispetto alla chiamata.” Pagani aggiunge che “come succede sempre in questi casi [i carabinieri] hanno iniziato a identificare e individuare tutte le persone che erano lì,” causando così l’escalation della situazione.  

L’accusa per i due ragazzi imputati (uno arrestato, l’altro denunciato) è di resistenza a pubblico ufficiale. L’avvocato mi spiega che le informazioni raccolte dai carabinieri “sono sommarie, davvero confuse e anche contraddittorie.” Il ragazzo condannato, continua, è stato “accusato di aver lanciato bottiglie, ma non è mai stato identificato con sicurezza.” Quello che in realtà gli viene addebitato è “l’essersi comportato in modo strafottente verso i carabinieri, che però non è un reato.”

Secondo Pagani, insomma, il punto è un altro: “Il tutto è nato perché questi ragazzi sono tutti più o meno identificabili somaticamente come stranieri. Questa è la verità.” Rahel Sereke ribadisce che “quella reazione è stata agita con quella violenza contro un gruppo specifico di persone,” e che dunque si può parlare a pieno titolo di profilazione razziale (racial profiling). 

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Il termine indica la pratica delle forze dell’ordine di procedere a operazioni di controllo o sorveglianza mosse soprattutto da pregiudizi fondati su razza, colore della pelle, lingua, nazionalità. 

Che questo fenomeno esista è un dato reale, che produca effetti sulla vita delle persone razzializzate è altrettanto evidente. Che si intervenga contro questa pratica lo è un po’ meno,” è esperienza comune tra le/gli attivist* di CambieRAI. “La questione è l’esercizio del potere. E infatti recentemente c’è stato un fatto analogo a Firenze [il fermo violento di Pape Demba Wagne, che ha portato a tensioni diplomatiche con il Senegal]. È un tema non legato a un’ipersensibilità delle persone che subiscono quei comportamenti.”

Alcuni paesi—come Francia, Inghilterra o Galles—raccolgono dati riguardo le probabilità per le persone nere di essere fermate o perquisite dalle forze dell’ordine rispetto a quelle bianche. In Italia mancano del tutto ricerche o statistiche di questo tipo, che invece sarebbero fondamentali. 

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“Se si va a vedere nei processi per direttissima, chi è arrestato di notte al 90 percento è giovane, maschio e nero. È un dato difficile da valutare con certezza, ma è chiaro che la questione c’è,” mi dice Pagani, che precisa che l’identificazione “è una prassi di polizia legittima, non si ci si può negare. Ma immagina ti capiti tre, quattro volte in una notte che ti fermano, ti prendono i documenti, fanno i controlli al terminale, ti tengono lì mezz'ora, un’ora. È una cosa che presenta il carattere dell’abuso.”

In Italia manca poi un dibattito diffuso sulla profilazione razziale, nonostante negli anni si sia parlato sempre più spesso di abusi della forza della polizia. Sereke ritiene che questi due aspetti non vengano associati “perché le persone non razzializzate fanno fatica a riconoscere il fatto che l’ordinamento del paese in cui vivono è razzista. Dire che l’Italia, intesa come dimensione istituzionale, è un paese razzista trova ancora resistenze, nonostante rispetto alla vita delle persone immigrate—e in special modo rispetto alla vita delle persone immigrate nere—questa cosa sia evidente.”

Sereke rimarca poi in particolar modo l’importanza dell’autodifesa. Sebbene la denuncia di Lahoual su Instagram sia stata decisiva nel creare “un interesse che superava la bolla della minoranza”, non esiste solo la dimensione dei social: c’è pure “quella in cui agisce la giurisprudenza, ed è poco presidiata.” 

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Per questo è fondamentalmente conoscere i propri diritti e sapere—ad esempio—che “un poliziotto non può avere certi comportamenti esclusivamente perché sei una persona di origini diverse e che quella condizione non ti impedisce di adire alle vie legali e di difenderti dagli abusi.” L’autodifesa serve proprio a rispondere agli abusi, prosegue Sereke, e “senza la risposta è molto difficile che gli apparati dello Stato imparino a comportarsi diversamente.”

La vicenda di Piazza XXIV Maggio è assurda per molti versi, ma al contempo è poco sorprendente per le persone razzializzate. Come si legge nella descrizione della campagna “Le nostre vite contano, le nostre voci contano”, le persone non riconducibili all’“italianità bianca” subiscono “un’attenzione particolare rivolta al controllo della regolarità dei propri spostamenti, delle proprie pratiche amministrative, della propria stessa esistenza.” 

Sereke descrive quella che è un’evidente asimmetria di potere: “il questurino che ti insulta quando vai a fare il permesso di soggiorno è lo stesso da cui dipende che tu abbia o meno quel permesso di soggiorno.”

C’è però un elemento di novità, ossia il dissenso nei confronti di certe pratiche radicate—su tutte, appunto, la profilazione razziale—espresso dalle nuove generazioni. I ragazzi e le ragazze più giovani, conclude Sereke, “non si sentono ospiti, anche se magari non sono cittadini italiani. Ma sono nati e cresciuti qui, questo è il luogo in cui vogliono vivere e vogliono farlo con la stessa dignità dei coetanei. Questo spazio di rivendicazione è uno spazio essenziale.”

La campagna di raccolta fondi “Le nostre vite contano, le nostre voci contano” si può trovare a questo link, con tutte le informazioni per donare e contribuire.

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