Salute

Perché con un amico parlo tanto, ma in gruppi numerosi la 'timidezza' mi schiaccia?

La pressione sociale che possiamo sperimentare a una tavolata con tante persone può "bloccarci." Ne abbiamo parlato con uno psicologo.
Vincenzo Ligresti
Milan, IT
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Illustrazione via AdobeStock.
Tu scrivici, noi rispondiamo.

Durante la quarantena su VICE avevamo avviato un appuntamento periodico, una specie di angolo in cui raccogliere i nostri pensieri, metterli sotto forma di domanda e lasciare che fosse una figura esperta a rispondere. Ora, anche tramite il contributo di altre redazioni di VICE, il discorso è stato ampliato. Da come fare i conti con un amore non corrisposto a come gestire coinquilini insopportabili, proveremo a offrire qualche consiglio. Oggi, parliamo delle sensazioni che si possono sperimentare quando ci si ritrova in gruppi numerosi di amici e ci viene un po’ complicato interagire davanti a tutti.

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Ehi VICE,

Da quando sono stata introdotta in un nuovo gruppo di amici, ho notato che la mia tendenza a zittirmi, eclissarmi, sparire durante le discussioni a cui partecipano troppe persone è ancora lì, più forte che mai. 

Non fraintendermi: sono una persona che ama stare in compagnia e fare nuove conoscenze, ma che da sempre si trova più a suo agio a conversare con una o poche persone alla volta. Lì, a seconda della situazione, sono divertente, profonda, sguaiata, com’è giusto che sia.

Quando le persone davanti a me però sono troppe e non ho confidenza con tutte, è come se mi bloccassi. Penso eccessivamente a quello che potrei dire, come potrebbe essere accolto, e lo faccio così intensamente che alla fine non dico niente o poco.  

Non so se chiamarla “timidezza” o altro. So solo che in queste situazioni vorrei sentirmi con meno pressione addosso, meno incoerente con l’idea che ho di me stessa. “Penseranno proprio che sono una persona noiosa, moscia, forse un po’ strana” è quello che penso ogni volta rientrata a casa. Sono davvero così? Come posso sbloccarmi?

D.


Ciao D.,

Entrare in un nuovo gruppo di amici, magari che si conoscono da tanto tempo fra loro, è un po’ come esplorare un mondo ignoto con convenzioni e dinamiche tutte sue. In psicologia sociale si chiama ingroup: il gruppo nel quale i membri, tramite ruoli, rapporti e valori condivisi, si identificano—e di cui comprensibilmente non comprenderai tutto subito.

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Come hai accennato, è indubbiamente vero: le situazioni sociali in cui si parla uno a uno, face to face con una persona con cui si ha più o meno confidenza, ci appaiono a portata del nostro controllo. Sai che arriverà sempre il tuo turno di prendere la parola, tutto potenzialmente è più equilibrato, persino quando al tavolo si aggiunge qualcun altro.

Le cose cambiano quando ci si ritrova in un gruppo, soprattutto se si ha un carattere un po’ introverso e/o un temperamento mite. Nelle discussioni che coinvolgono l’interesse di tutti, devi far i conti con le persone istrioniche che vorranno dire a ogni scambio la loro, la paura di fare una battuta che non venga capita da tutti, di dire qualcosa di “inopportuno” percepito malamente da alcuni.

“Quando si è con pochi amici, persone fidate, il timore del giudizio sociale, cioè di ciò che gli altri potrebbero pensare sul nostro conto, è minore o sparisce del tutto perché non si sente la necessità reale o presunta di dover ‘dimostrare’ perennemente qualcosa,” chiarisce lo psicologo Gianluca Franciosi. “In un contesto sociale in cui invece ci sono molte più variabili da controllare, più persone che si pensa potrebbero emettere giudizi o reazioni a noi sconosciute, si potrebbe sperimentare molta più pressione sociale, sentirsi sotto esame.” Ed è in un certo senso comprensibile, se si è nuovi: “può succedere che dall’ingroup il nuovo elemento possa essere percepito come ‘una minaccia’, e quindi quest’ultimo cercherà di fare più buona impressione possibile.”

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Questo però può portare alcune persone a “rimuginare (Cosa staranno pensando di me? Devo dire qualcosa di interessante, divertente, sto facendo la figura della tappezzeria), col risultato opposto a ciò che si vorrebbe: estraniarsi troppo quando il gruppo sta parlando o discutendo.”

Per Franciosi, all’intensità della pressione sociale che possiamo percepire—e che nel caso che stiamo analizzando non pare “ascrivibile a un disturbo di fobia sociale”—possono contribuire anche esperienze pregresse. “La pressione può dipendere da quanta consapevolezza e considerazione abbiamo di noi stessi, quanto ci sentiamo strutturati, quanto conta il giudizio degli altri per noi; se abbiamo avuto la possibilità di esprimerci e di essere valorizzati in passato, se siamo cresciuti in ambienti famigliari in cui era assolutamente indispensabile aderire a determinate norme sociali.”

Anche se, aggiunge Franciosi, l’elemento che farà la differenza “non sono tanto le esperienze che abbiamo avuto, ma le esperienze che inizieremo a sperimentare nel gruppo stesso.”

Quindi D., quello che ti sta passando per la testa non è sbagliato, piuttosto molto comprensibile: stai forse inconsciamente—e da come ne scrivi pare con grande interesse—osservando, prendendo le misure, con i tuoi tempi.

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Qui subentra il concetto di timidezza di cui parlavi, “che può avere una funzione assolutamente adattiva,” puntualizza Franciosi, ma che spesso bolliamo ingiustamente come qualcosa di negativo. “Lo stare in silenzio misto a osservazione è un elemento fondamentale per prendere le misure rispetto al gruppo, per comprenderlo meglio e capire come agire al suo interno.”

Altre persone, appena presentatesi a un nuovo gruppo, potrebbero subito dimostrarsi brillanti, spigliate, espansive, e potremmo in un certo senso invidiarle. Ma potrebbero in realtà mascherare un lato della stessa medaglia: “alcuni si sforzano di apparire così, credono che l’attacco sia la miglior difesa.”

In ogni caso, Franciosi spiega che mostrarsi persone un po’ diverse con amici o conoscenze diverse non significa per forza essere incoerenti con se stessi. “Benché i nostri comportamenti siano diversi o addirittura in opposizione non si tratta di incoerenza, in questo caso parliamo ancora di adattamento,” spiega Franciosi. “È una forma di intelligenza capire il proprio ruolo all’interno di un determinato gruppo, e come questo possa cambiare a seconda del gruppo in cui io mi ritrovo.”

Pertanto, come afferma Franciosi, “bisognerebbe rivalutare la timidezza”: spesso non è solo sentirsi in soggezione, ma prepararsi a raccogliere tutti i frutti delle proprie osservazioni (una sorta di investimento). Solo che questo aspetto è preso sempre troppo poco in considerazione.

Per esempio, quando torniamo a casa, invece di focalizzarci sulle nostre performance ed entrare nel loop del ‘liking gap’—una teoria che spiega come le persone sottovalutino spesso quanto siano apprezzate dagli altri, dopo un’interazione sociale—potremmo anche aggiungere altre domande. Una su tutte: “E se invece fossi stato un po’ troppo silenzioso perché persone e discorsi non erano poi così stimolanti?” Magari andrà meglio la prossima volta.

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