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Attualità

La storia degli infermieri ribellatisi nel manicomio più grande d'Europa

Per decenni il Santa Maria della Pietà a Roma è stato il più grande manicomio d'Europa, finché negli anni Settanta un gruppo di infermieri si è ribellato tagliando le reti divisorie e liberando i pazienti.

Anche se il suo nome non è così noto al grande pubblico, Adriano Pallotta—che ora ha 88 anni—è stato uno dei protagonisti della rivoluzione che ha portato alla chiusura dei manicomi in Italia negli anni Settanta.

Nato nel quartiere di Borgo Pio a Roma da una famiglia numerosa e con qualche problema economico, alla fine degli anni Cinquanta Pallotta vince un concorso pubblico per diventare infermiere e prende servizio al Santa Maria della Pietà. 

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La struttura, inaugurata nel 1914 nel quartiere Monte Mario (dove si trova ancora adesso, in stato di parziale abbandono dopo la chiusura definitiva nel 1999), ha ospitato per svariati decenni il più grande manicomio d’Europa per numero di pazienti. 

Pallotta ci entra nel 1959, e si accorge subito delle tante storture che lo rendono un luogo di sofferenza, abusi e soprusi. Nel 1974, insieme ad alcuni colleghi, decide di ribellarsi e liberare i pazienti—innescando un processo che quattro anni più tardi porterà all’approvazione della legge Basaglia. 

Di lui sono venuto a conoscenza attraverso il lavoro della giornalista Maria Gabriella Lanza, che l’aveva citato in un webdoc del 2017. Essendomi appassionato alla storia, ho chiamato Pallotta al telefono alla fine del 2020 e gli ho spiegato che volevo fare un podcast sul tema, partendo dai primi manicomi religiosi fino ai giorni nostri. 

Fin dall’inizio è stato molto disponibile, mettendomi a disposizione il suo archivio personale: centinaia di dvd e stampe che raccontano la vicenda del Santa Maria della Pietà, il tutto catalogato a mano e corredato da un libro scritto da lui e dallo psicologo Bruno Tagliacozzi, intitolato Scene da un manicomio.

Nel corso di tutto il 2021 ho incontrato Pallotta a più riprese. Volta per volta si è sciolto, acconsentendo a registrare la sua voce che poi è finita—insieme a quelle di altri testimoni ed esperti—nel podcast La gabbia dei matti, uscito nell’aprile del 2022 per Storytel.

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Com’era la vita all’interno del manicomio

“Il primo giorno che sono arrivato al manicomio mi hanno fatto fare un giro e ho visto i padiglioni, le strutture e i pazienti,” mi spiega Pallotta in una delle nostre conversazioni, “molti erano legati ai letti di contenzione, altri confusi dalle cure pesanti, altri ancora strillavano.”

La sensazione è quella di trovarsi in un carcere; e sotto certi aspetti, è persino peggio di un carcere. Il Santa Maria della Pietà è infatti il risultato diretto della legge Giolitti del 1904, che porta il nome dell’allora ministro dell’interno Giovanni Giolitti: pur essendo un passo avanti rispetto all’approccio religioso che aveva dominato fino a quel momento, la norma è del tutto incentrata sull’ordine pubblico e sulla segregazione.

I manicomi si trasformano così in luoghi di reclusione, ancor prima che di cura. Dentro ci finiscono non solo pazienti psichiatrici, ma anche prostitute, omosessuali, donne ritenute “ninfomani” o “isteriche,” vittime di diatribe familiari (spesso legate all’eredità) e, in epoca fascista, persone invise al regime.

L’organizzazione all’interno del manicomio è particolarmente rigida. “Gli uomini sono separati dalle donne,” ricorda Pallotta, “i diversi padiglioni separati della reti, e all’interno vige una forte gerarchia professionale.” 

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La sensazione è quella di trovarsi in un carcere; e sotto certi aspetti, è persino peggio di un carcere.

A capo del manicomio c’è il direttore, che è un medico. A cascata vi sono varie figure intermedie, fino ad arrivare al caporeparto e agli infermieri. Il ruolo delle suore è prominente: gestiscono i reparti, organizzano i turni, sorvegliano l’operato degli infermieri e impongono la propria idea di cura. 

Anche la vita del personale è sottoposta a regole molto rigide: non si può parlare coi pazienti, né accettare o effettuare regali. È inoltre obbligatorio portarsi un corno d’avorio per avvertire in caso di pericolo. I turni sono scanditi da strumenti come l’orologio marcatempo, ossia una sorta di disco orario in una scatolina chiusa a chiave sul quale ogni 15 minuti gli infermieri devono firmare utilizzando una apposita fessura.

I pazienti sono sottoposti a divieti ancora più stringenti. Al loro ingresso vengono spogliati e dotati di una divisa bianca. È vietato indossare occhiali e orologi, o portare specchi o altri oggetti in vetro. Non si possono tenere i diari né i libri. A mensa si possono usare solamente i cucchiai: forchette e coltelli sono proibiti.

Spesso si resta in manicomio per tempi lunghissimi, e a volte persino a vita: non c’è una sentenza da scontare entro una certa data. Tutto è a discrezione dei medici e del direttore, che ha anche la responsabilità del comportamento all’esterno di chi viene dimesso.

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Le condizioni igienico-sanitarie, sempre in base al racconto di Pallotta, sono disastrose. Le lenzuola vengono cambiate di rado e i muri sono ricoperti di piastrelle bianche lavate approssimativamente con un tubo dell’acqua. Le porte esterne devono essere sempre chiuse a doppia mandata.

Le cure sono spesso a base di elettroshock e psicofarmaci, entrambi somministrati a tappeto nella convinzione che possano inibire il disturbo e sedare i pazienti—e dunque evitare risse o scontri all’interno dei reparti.

La rivoluzione di Franco Basaglia

Sul finire degli anni Sessanta, però, le cose iniziano a cambiare. L’impatto dei movimenti studenteschi arriva anche nelle università e negli ambienti più vicini alla psichiatria. “A quel tempo nei corsi di medicina neanche si studiava la psichiatria, se non come ultimo capitolo di un solo esame,” mi spiega Natale Calderaro, che per decenni ha diretto il manicomio di Quarto a Genova.

Questa marginalità della psichiatria e dei pazienti psichiatrici è l’origine del diffuso disprezzo intorno a un accademico che invece vuole dedicarsi proprio a questi temi, e che si chiama Franco Basaglia. Nato a Venezia nel 1924, nel 1961 accetta l’incarico come direttore del manicomio di Gorizia.

In quegli anni Gorizia è ai confini del mondo occidentale, e uno dei muri della struttura segna il passaggio nella Cortina di Ferro. In un libro intitolato All’ombra dei ciliegi giapponesi, lo psichiatra e collaboratore di Basaglia Antonio Slavich definisce quel manicomio un “contenitore di sofferenze indecenti,” in cui sono rinchiuse “fino a 620 anime […] per la maggior parte apolidi e non dimissibili”, con un personale “scarso, sempre più anziano, demotivato e malpagato.”

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È proprio da Gorizia che Basaglia fa partire un movimento radicale di trasformazione dell’istituzione manicomiale. Rifacendosi alle teorie dell’antipsichiatria inglese (un movimento nato nei primi anni Sessanta con l’obiettivo di costruire un’alternativa ai manicomi), Basaglia promuove l’idea che le strutture psichiatriche debbano aprirsi verso l’esterno e avere rapporti sempre più permeabili con la società, in modo da consentire un il progressivo reintegro dei pazienti. È un’idea difficile da far accettare, soprattutto perché illegale—la legge Giolitti è ancora in vigore.

Ma la proposta di Basaglia prende piede e a cascata aderiscono anche altre città, tra cui Parma, Perugia e Reggio Calabria. Le richieste dei pazienti e degli infermieri sono quasi sempre le stesse: abbattimento delle reti divisorie, unione dei reparti maschili con quelli femminili e introduzione di oggetti basilari nella vita quotidiana dei pazienti.

Capiamo che è il nostro turno, che dobbiamo diventare il primo grande manicomio a fare la rivoluzione.

Pallotta rimane affascinato dal pensiero di Basaglia: nel 1974 sale nel Nord Italia per incontrarlo e farsi spiegare in che modo si possono applicare concretamente quelle teorie. Ne parla con i colleghi e a quel punto, mi dice, “capiamo che è il nostro turno, che dobbiamo fare il salto di qualità e diventare il primo grande manicomio a fare la rivoluzione.” 

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La ribellione interna al Santa Maria della Pietà

Il 18 dicembre dicembre del 1974 l’infermiere guida una vera e propria rivolta interna: lui stesso taglia le reti divisorie del manicomio, mentre un suo collega fa sparire per sempre le chiavi usate per chiudere il portone a doppia mandata. Per quell’azione ricevono tutti delle denunce, che però non vengono portate avanti dalla magistratura. 

La ribellione, invece, porta subito a grandi risultati. Gli infermieri si sbarazzano dell’orologio marcatempo e di altri strumenti di controllo. Le persone sono libere di girare all’interno del padiglione, di muoversi e incontrarsi. Il refettorio si trasforma: per la prima volta si organizzano tavolate enormi in cui donne e uomini possono mangiare insieme. È concesso loro di utilizzare forchetta e coltello e di indossare gli occhiali.

Non tutti i pazienti però sono entusiasti di questi cambiamenti. “C’era chi protestava, chi si rifiutava di mangiare in refettorio perché contrario alla commistione tra uomini e donne”, ricorda Pallotta. Anche dopo il superamento effettivo dei manicomi c’è chi si rifiuta di uscire da un posto che, per quanto impregnato di sofferenza, considera casa propria.

Quattro anni dopo la rivoluzione al Santa Maria della Pietà, il 13 maggio del 1978 il Parlamento approva la legge Basaglia che finalmente abroga la Giolitti. Pochi mesi dopo è assorbita da quella—attualmente in vigore—che ha dato origine al servizio sanitario nazionale

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In un discorso di quell’anno, Franca Ongaro (moglie di Basaglia e coautrice insieme a lui di molte opere fondamentali della psichiatria italiana) dice che con quella legge “non si è stabilito che il disagio psichico non esiste più in Italia, ma si è stabilito che non si dovrà rispondere mai più al disagio psichico con l’internamento e la segregazione.” 

I pazienti psichiatrici possono infatti accedere alle cure all’interno dei servizi territoriali e vivere a casa propria, nonché lavorare e prendere parte alla società come chiunque altro. Le eccezioni sono rare, e riguardano soprattutto chi viene prosciolto in tribunale per aver commesso un reato nell’incapacità di intendere e volere e chi subisce un trattamento sanitario obbligatorio (Tso).

Oggi esiste un rischio concreto di ricreare dei ghetti per soli pazienti psichiatrici.

Tuttavia, i servizi per come erano stati pensati da Basaglia sono molto carenti—soprattutto a causa di una cronica mancanza di fondi. Negli ultimi anni il settore sanitario italiano ha subito tagli miliardari, e l’Italia è tra i paesi europei che destinano la minor quota di spesa a favore della salute mentale. Inoltre, ci sono grandi differenze di accesso ai servizi a seconda che si viva al Nord o al Sud, e in città o in campagna.

In sostanza, come mi ha detto la presidente della consulta regionale del Lazio per la salute Daniela Pezzi, la riforma di Basaglia “è stata tradita a causa dei tagli dei fondi, e oggi esiste un rischio concreto di ricreare dei ghetti per soli pazienti psichiatrici.” 

In uno degli ultimi incontri che ho fatto con Pallotta gli ho chiesto quale fosse l’aneddoto professionale a cui è più legato. Lui mi ha risposto che ce ne sono troppi—e che molti se li è anche dimenticati. “La cosa però che m’è rimasta è il rapporto con Alberto,” ha aggiunto.

Alberto Paolini è stato ricoverato per quarant’anni al Santa Maria della Pietà, sebbene non avesse un vero e proprio disturbo clinico. I due si sono conosciuti dopo il ricovero di Alberto, avvenuto perché proveniva da una famiglia povera e aveva subito le violenze di una madre anaffettiva. In tutti quegli anni sono diventati amici stretti, e dopo la chiusura del Santa Maria della Pietà hanno preso parte insieme a molti eventi in giro per l’Italia.

“Adesso che ho gli acciacchi è da mo’ che non lo vedo,” mi ha detto Pallotta, “e chissà se lo rivedrò mai.” Ho chiamato Paolini per chiedergli se avesse voglia di farsi intervistare da me, e siccome aveva detto di sì ho proposto a Pallotta di andarci insieme. Aveva gli occhi lucidi. Quando siamo usciti da casa, l’ex infermiere mi ha guardato e ha confidato: “Mi hai fatto proprio un bel regalo.”

La Gabbia dei Matti è una produzione Storyside 2022. Si può ascoltare in esclusiva su Storytel a questo link.