Panificio Tone Milano
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Cibo

Il forno a Milano dove trovi il khachapuri georgiano e pani da tutto il mondo

I panifici si stanno evolvendo, e questa nuova insegna milanese lo testimonia: qui due ragazzi portano il pane da tutto il mondo e il risultato è una discreta bombetta.

Il nostro è un panificio italiano come altri, in cui sono inseriti prodotti di nicchia provenienti da diverse parti del mondo

Negli ultimi 5-6 anni, sulla scia della riscoperta dei cosiddetti “grani antichi” e della crescente attenzione – a tratti eccessiva fino a sfiorare il fondamentalismo – per impasti e lievitazioni, da nord a sud d’Italia sono nate nuove insegne gestite da under 30-40 decisi a ridare lustro e dignità all’alimento-base dell’umanità: il pane.

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Le obiezioni a questo “movimento” sono note: panifici che sembrano boutique dai prezzi tutt’altro che popolari e voli pindarici per spiegare questo procedimento o quel blend di farine fanno storcere il naso a chi pensa che il pane sia un prodotto semplice e a basso costo, sempre e comunque, per cui tutto sto marketing è solo fuffa. Punto di vista legittimo ma è innegabile che tutto ciò qualcosa ha mosso se anche panifici più alla buona iniziano ad adattarsi alle richieste di un pubblico presso cui la pulce ha preso residenza stabile nell’orecchio. Orgogliosa rivendicazione di artigianalità del prodotto e uso di farine macinate a pietra che escono dalla nicchia sono concetti che vengono da lì. 

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Tone a Milano. Tutte le foto dell'autore

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Una parte del banco di Tone.

A Milano, conclamata motrice dei trend gastronomici anche in pandemia, ha aperto da circa un mese Tone - Bread & Wine Lab. Siamo in via Donatello 22 a Milano, nei pressi di Piazzale Piola; il nome viene dal forno a forma di torretta con cui in Georgia si cuoce il pane, che viene attaccato alle pareti incandescenti. Ma, attenzione, non è un panificio georgiano.

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Il forno a forma di torretta di Tone.

A confermarlo senza troppi giri di parole è Giovanni Marabese, titolare non ancora trentenne con una laurea all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e un master in Etnobotanica all’Università di Kent. L’idea gli viene a marzo 2020 a causa della pandemia che ha fermato i suoi viaggi – tra cui la Georgia. “Tone non è un forno georgiano sebbene facciamo lo shoti e il khachapuri,”, mi dice, “ma un panificio italiano come altri in cui sono inseriti prodotti di nicchia provenienti da diverse parti del mondo”.

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Lo Shoti di Tone.

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Giovanni Marabese

Insieme a lui Marco Bianchi, panettiere di 33 anni che ho l’occasione di vedere all’opera mentre appone le pagnotte di shoti crude sulle pareti interne del forno, che si affaccia sulla strada dalla vetrina. Il tone è parente diretto del Tandoori, fatto in mattoni di pietra refrattaria e una resistenza sul fondo che emana calore, spento a mezzogiorno resta caldo fino al giorno successivo. Lo ha costruito un mastro georgiano venuto in Italia appositamente e che ha poi dato loro nozioni su come produrre il pane.

Puri è il termine generico per indicare il pane in Georgia, shoti è la tipologia dagli angoli oblunghi che si fa da Tone. Giovanni precisa che per forza di cose l’impasto è diverso rispetto all’originale georgiano, qui con farina semi-integrale e una piccola percentuale di segale che dà complessità organolettica. Il tempo di cottura è variabile, il forno è una struttura artigianale in cui diverse zone scaldano in modo autonomo. Ad ogni modo, circa un quarto d’ora e puntuale Marco arriva a staccare ogni forma cotta dalla parete afferrandola con i guanti.  

Ogni filoncino è basso e più lungo del mio avambraccio. Il profumo è lieve ma definito, la mollica ha le sue belle caverne, la crosta superiore consistente e molto croccante e la base è liscissima essendo stata aderente ai mattoni del forno, un bell’elemento tattile che contrasta le leggere asperità degli angoli. In bocca l’acidità della pasta madre si dissolve in una coda dolciastra e piacevole. Sebbene sia preferibile mangiarlo in giornata, perde consistenza in 3 giorni, basta una veloce scaldata in forno per rinvenirlo. 

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La scelta dei produttori ricade su produzioni biologiche senza escludere chi lavora bene, pur senza certificazioni bio. Sulla sostenibilità dei prodotti utilizzati il pensiero di Giovanni va un po’ controcorrente su certi aspetti del dibattito in voga, “non è tanto importante il km0” dice, “ma come le cose vengano prodotte, ovvero che i metodi di coltivazione siano rispettosi dei cicli della terra e tutta la filiera sia retribuita equamente. Un limone coltivato in Sudamerica può essere più sostenibile di uno coltivato in Europa, dipende da com’è coltivato. Certo, e al netto del trasporto ma ci si deve sempre chiedere: inquina di più l’aereo o le sostanze chimiche spruzzate ogni giorno?”

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La farina più raffinata in uso è la tipo 1, esposte in negozio ci sono anche pagnotte con farina integrale tipo 2, grano duro siciliano (per ora ne stanno sperimentando una decina di varietà per selezionarne al massimo un paio) e più avanti ci sarà anche pane di grano saraceno. Giovanni mi confessa che far passare a una certa parte di clientela l’idea di un pane “bianco” con farine poco raffinate non è semplice e prova ne è un’anziana cliente che poco dopo, nonostante si prenda mezza forma, chiede ripetutamente un pane bianco. Di contro la cosa che più lo inorgoglisce è la clientela georgiana, a quanto pare abbastanza folta a Milano, che testa e torna complimentandosi per i risultati. 

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La sala è priva di orpelli, minimale in stile scandinavo, dietro il bancone il pane è esposto su parete e mensole in legno scuro. Anziché il pane in vetrina Giovanni ha voluto metterci il tone, “lo strumento con cui l’uomo trasforma la natura in cultura”. Rigetta l’uso del termine “naturale” accostato al pane, “la cucina non è naturale, così come il pane e il vino, che sono prodotti di processi di trasformazione e manipolazione umane, in maniera più o meno gentile”.

Ci sono anche pizze in teglia e focacce, liscia o con za’atar, misto di spezie libanese a base di origano e semi di sesamo

Nel tone si possono cuocere anche altre tipologie di pane come il Rúgbrauð, una pagnotta dolce di segale tipica dell’Islanda solitamente cotta sotto terra sfruttando l’energia geotermica di un territorio riscaldato naturalmente dal vapore acqueo sprigionato dai geyser. Qui è cotta a forno spento con il calore residuo.

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Ne chiedo una fetta. Il miele arriva subito al naso, morbidissima e umida, la parte zuccherina non è eccessiva dato che non c’è altro zucchero oltre al miele, che unito alla farina di segale inganna il palato e suggerisce la presenza del castagno. Giovanni invece mi dice che finora hanno usato solo millefiori, acacia e arancio. Non è il mio pane quotidiano ma questo a colazione farebbe scintille. 

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Ci sono anche pizze in teglia e focacce, liscia o con za’atar, misto di spezie libanese a base di origano e semi di sesamo. Giovanni me ne porge un pezzo di quella liscia su cui sparge del sale di Svaneti, un mix di spezie georgiano in cui intercetto coriandolo secco e cumino con una consistente nota erbacea, il sale punge subito la lingua e il peperoncino si fa largo in bocca a lento rilascio. Il morso dove si concentra più polvere è un bel colpo in bocca ma dall’evoluzione interessante. Prossimamente sul banco arriveranno altri prodotti da forno d’altre parti del mondo, soprattutto Medioriente.

Sebbene sia interessante, la conversazione non è l’unico movente del mio sopralluogo. Devo soprattutto ghermire un khachapuri georgiano, una pizzetta a forma di barchetta – o calzone aperto a seconda delle scuole di pensiero – ripiena di formaggio con un tuorlo d’uovo crudo apposto al centro una volta sfornata e da mescolare velocemente. Il concetto della pizza alla Bismarck qui è da applicare alla lettera. 

La creatura che mi plana davanti è farcita con tre formaggi diversi: ricotta, quartirolo e un vaccino a latte crudo.

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Il khachapuri georgiano

Giovanni specifica che il formaggio non è quello georgiano, sebbene si provi ad avvicinarsi il più possibile. In Georgia si usa formaggio vaccino o ovino in base alle zone e alla disponibilità, molto acido, granuloso e dalla spiccata sapidità. 

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La creatura che mi plana davanti è farcita con tre formaggi diversi: ricotta, quartirolo e un vaccino a latte crudo. Affrontare il khachapuri non è una spensierata passeggiata in discesa, alle estremità attorcigliate a fagotto si aggiungono 300 grammi secchi di materia grassa che si addentra fin dentro i bordi della pasta ripiegata verso il centro e che disegna una piscina spumeggiante su cui si staglia, giallo e lucido, un tuorlo pigro che ancora non sa cosa gli aspetta. Prima delle mie fauci, la forchetta. Giovanni mi suggerisce di mescolarlo fin sotto i bordi ed eseguo creando una sorta di zabaione salato. 

I morsi ai bordi sono goderecci, sotto la timida patina bruna della pasta c’è una fonte viva di formaggio e in alcuni punti distinguo facilmente il quartirolo dalla ricotta. Non essendo mai stato in Georgia non so dire se il risultato sia fedele all’originale ma posso dire certamente che le mie papille si stanno facendo un bel trip. Oh, sì. Un convegno di acidità e sapidità reso lascivo dal tuorlo, che è ormai una crema che invade ogni anfratto. La pasta è soffice e solo un po’ dorata dalla cottura in forno. È tutto molto goloso, si registrano alte frequenze nell’adipometro. 


Rivolgo le mie preghiere a San Gastro che protegge le mie digestioni, respiro un attimo, mi pulisco e ringrazio, saluto e tolgo il disturbo. Sia la focaccia che la fetta di pagnotta islandese sono venute 2 €, il khachapuri 10. Lo shoti è stato gentilmente offerto. Esposta in sala c’è anche una piccola cantina di vini naturali e piccole produzioni scelte appositamente da Giovanni.

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