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Com'è essere l'unica donna transgender nell'automobilismo sportivo d'élite

Abbiamo parlato con Charlie Martin, che sogna di essere la prima persona transgender a partecipare alla 24 Ore di Le Mans.
Daniele Ferriero
traduzione di Daniele Ferriero
Milan, IT
Charlie Martin
Charlie Martin a Zandvoort con il Team Driverse per a ADAC GT4. Foto: German Sports.

Charlie Martin, che ora ha 40 anni, ha deciso soltanto a 23 di intraprendere una carriera da pilota di auto da corsa. Appena finita l’università, senza la classica copertura finanziaria associata a questo sport, ha messo da parte circa 1.700 euro da un lavoretto estivo e ha chiesto in prestito alla madre poco meno di 500 euro per comprarsi una malandata Peugeot 205. Con questa macchina—modificata—ha poi preso parte nel 2006 alla sua prima gara da professionista.

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Martin aveva compreso di essere transgender sin da giovanissima, ma fino ai 30 anni non ha iniziato la transizione. Si sentiva combattuta all’idea di non essere abbastanza “trans”, senza contare il fatto stesso di esistere e lavorare all’interno di un’industria che ha una rappresentanza LGBTQ+ prossima allo zero.

Nel 2011, con una carriera già ben avviata, Martin si è però resa conto che qualcosa doveva cambiare. Dopo aver passato un brutto periodo di depressione e pensieri suicidari, ha quindi deciso di avviare la fase di transizione. Martin aveva già dovuto superare parecchi momenti difficili nella vita, avendo perso il padre quando aveva 11 anni e la madre a 23 anni, entrambi a causa del cancro.

Fare coming out come transgender in un’industria a malapena disposta ad accettare le donne significava andare incontro ad altre enormi difficoltà. Incerta sull’accoglienza che avrebbe potuto ricevere, per un certo periodo di tempo ha abbandonato lo sport, prima di decidere però di tornare a gareggiare. Nel 2018 ha poi fatto coming out pubblico e da allora ha continuato a fare campagne per i diritti delle persone transgender negli sport.

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Charlie Martin durante la Britcar Endurance Championship. Foto: Oliver Fessey.

Oggi, Martin vive nelle Midlands, nel Leicestershire, e passa la maggior parte del suo tempo ad allenarsi per le gare e in palestra. In più, fa campagne per i diritti LGBTQ+ all’interno degli ambienti sportivi e spera di essere la prima persona transgender a partecipare alla 24 Ore di Le Mans. Nel frattempo ha preso parte a varie gare endurance, ottenendo anche un terzo posto al Circuito Bugatti nel 2017, oltre a essere stata la prima persona transgender a competere alle 24 Ore di Nürburgring nel 2020.

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Abbiamo parlato con Martin di cosa significhi essere un’atleta transgender, delle leggi transfobiche in vigore negli USA e in UK, e della visibilità della comunità alle Olimpiadi di quest’anno.

VICE World News: Come sono stati i tuoi primi anni di vita?
Charlie Martin:
Da bambina volevo essere una pilota di aerei da combattimento, in gran parte a causa del mio film preferito, Top Gun. Ero ossessionata dal volo e dagli aerei. Credo di aver capito di essere transgender tra i sei e i sette anni. Mi ricordo di aver letto un articolo dedicato a una donna transgender che lavorava come modella e come “Bond girl” negli anni Ottanta [Caroline Cossey], che allora era una delle persone transgender più in vista. Mi ricordo di aver pensato che quello era precisamente il modo in cui mi sentivo, e che quindi non ero l’unica e non ero da sola.

Per molti versi ero il “tipico maschietto,” mi piaceva arrampicarmi sugli alberi, giocare coi soldatini, costruire modellini degli aeroplani. Cosa che mi confondeva ulteriormente, visto che secondo la logica degli anni Ottanta avrei dovuto preferire tutt’altro, tipo vestirmi di rosa e rimanere sempre pulita e intonsa. In sostanza non mi sentivo di corrispondere alle categorie del tempo, fatto che probabilmente ha ritardato per molto tempo la mia transizione.

Per quanto riguarda la transizione, qual è stata la tua esperienza in relazione all’industria dei motori?
L’automobilismo è un ambiente particolare perché, nonostante sia uno sport piuttosto esclusivo—richiede di base un buon quantitativo di soldi per poter gareggiare, a prescindere dal livello delle gare—, è anche alquanto accogliente. Dà una stupenda sensazione di comunità.

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Tuttavia, quando sono arrivata sul paddock per la prima volta dopo la transizione, mi sono sentita davvero a disagio, è stato tremendo. Fortunatamente, almeno sette od otto dei miei più cari amici con i quali gareggiavo sapevano quel che sarebbe successo. Sono venuti da me e mi hanno riempita di abbracci.

Mi sono comunque resa conto che avrei avuto un bel daffare per ottenere il consenso di alcune persone. Una questione che ho dovuto affrontare praticamente per tutto il primo anno: spiegare passo dopo passo quel che stava succedendo, educare le altre persone in un ambiente dove questo tipo di consapevolezza era a un grado molto basso. Da lì, molte persone si sono dimostrate molto gentili, arrivando ad ammettere che non avevano mai pensato alla questione in questi termini, al coraggio richiesto.

Ci sono stati momenti in cui ti sei sentita come se l’ambiente delle corse non fosse adatto a una persona transgender?
Quando ho fatto coming out si è trattato di un vero e proprio salto nel buio. Non provengo da una famiglia ricca, e quindi ho sempre dovuto impegnarmi molto per avere l’appoggio degli sponsor.

Sicuramente mi è capitato mi venissero negate alcune opportunità. E probabilmente in qualche caso la motivazione era proprio la transfobia. Non posso essere precisa e diretta a questo riguardo, perché finirei per mettermi nei guai, visto che si trattava di persone di alto livello. In ogni caso ne capitano di ogni, tra chi ti affibbia il genere sbagliato e chi ti fa domande estremamente personali sul tipo di operazione che hai fatto o che conti di fare.

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Ultimamente si è parlato molto delle persone transgender in relazione allo sport. In particolar modo dopo che negli USA stati come Idaho e Florida hanno vietato alle persone transgender di partecipare alle gare scolastiche e universitarie. Cosa provi a sapere che alcune donne transgender hanno queste limitazioni?
Trovo sia assolutamente sconcertante che succeda in una società occidentale in teoria liberale. In pratica, si legittima una discriminazione, l’idea che queste giovani persone abbiano qualcosa di sbagliato. È sbagliato su tutti i fronti.

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Martin vicino alla Praga R1. Foto: Dominic Fraser.

Cosa ne pensi del modo in cui stampa e pubblico hanno parlato di Laurel Hubbard, sollevatrice di pesi neozelandese, e Quinn, una persona canadese non binaria che gioca a calcio?
Ritengo ci sia stata un’informazione equilibrata. Ma in ogni caso bisogna ancora lavorare per migliorare la descrizione dei fatti, dei dati e della realtà. In quest’ottica ho approfondito alcuni studi e ricerche sul testosterone perché ritengo sia un punto critico che, sfortunatamente, viene alla luce molto di rado sui media e sulla stampa.

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La situazione è complicata e non è facile trovare una soluzione che accontenti tutti i settori e gli ambiti. Alcuni sport, come ad esempio il calcio o il surf, non riguardano solo la forza fisica, ma ad esempio anche l’abilità a leggere il gioco e comprendere la situazione, così come la percezione dello spazio, il bilanciamento, la visione, il controllo e così via. La forza fisica è di certo importante, ma ci sono molti altri elementi che ti pongono o meno al vertice di uno sport.

L’Alta corte di giustizia britannica ha inizialmente vietato gli inibitori della pubertà, per poi tornare sui propri passi. Oggi come oggi, lo scenario politico è pieno di transfobia. Cosa ne pensi e cosa pensi nello specifico del paese in cui vivi, la Gran Bretagna?
Il 2015 mi è sembrato un anno di positività e grandi passi in avanti per la comunità transgender. Ma da allora le cose sono cambiate in peggio. Vivo in campagna e la mia transizione è avvenuta ormai così tanto tempo fa che nella vita di tutti i giorni passo inosservata e non devo aver paura di essere fatta bersaglio di insulti e odio da parte di nessuno.

Motivo per il quale per me è ormai difficile quantificare o stabilire appieno l’esperienza di vita di altre persone transgender in questo Paese. Quello che so e sento, quindi, ha a che fare soprattutto con le notizie che mi arrivano dalla stampa, tutte cose di solito molto negative, tossiche e tremende, si tratti di un omicidio o di statistiche.

In più, c’è una minoranza rumorosa di persone sempre pronte a litigare o scrivere cose orribili, vedi su Twitter. Tutte persone indubbiamente reali, che però spero rappresentino solo una piccola parte della società inglese, nonostante siano riuscite ad avere un impatto grande e tremendo con le loro parole e azioni. Ma la maggior parte delle persone che incontro mi sembra alquanto progressista, carina e con una mentalità aperta.

Cosa ti aspetta all’orizzonte, quali sono le tue ambizioni?
Ambisco a fare la storia della comunità LGBTQ+ come prima pilota transgender della 24 Ore di Le Mans. Essere una persona transgender in quest’industria è veramente importante per me. Voglio fare la differenza e provare ad aiutare le altre persone, anche solo con la mia visibilità. In maniera tale che chi verrà dopo avrà la strada spianata e non dovrà passare quello che ho passato io.